Non è in cima alle classifiche di vendita, questo no. E a dirla tutta è probabile che messi uno di fianco all’altro sul bancale di una libreria, la biografia precocissima della leader di Fratelli d’Italia attirerebbe più acquirenti che non questo volumetto sorprendente voluto dalla Fondazione Feltrinelli e dal suo direttore, Massimiliano Tarantino, con una prefazione di Elly Schlein e i disegni (bellissimi) di Fumettibrutti. Eppure Storie della buonanotte per nuovə progressistə (Feltrinelli, Ricerche 2021) contiene più politica e suggestioni sul dopo di quante si possano censirne in una carrellata di titoli prodotti in decenni ultimi da capi partito ritratti in posa sulla quarta di copertina. Facile, troppo facile, cavarsela rammentando come le figure pensanti del passato i libri erano soliti leggerli al contrario di parecchi tra quelli arrivati poi che hanno trovato congeniale scriverli. Perché il punto non è qui, ma in altre due questioni che i testi selezionati nel patrimonio archivistico della Fondazione milanese sollevano con garbo, ma senza reticenza.

Una vita più umana

Intanto l’oggetto, l’operazione in sé: parliamo di articoli, discorsi, documenti, scritti o pronunciati da dieci personalità della cultura democratica, liberale, socialista e cattolica della tradizione italiana. Luigi Einaudi, Vittorio Foa, Ada Gobetti e Lina Merlin, Franco Basaglia, Ernesto Rossi, Alexander Langer, Tina Anselmi e Silvio Leonardi, e fanno nove. Perché dovendo trovare la sintesi più adatta a fotografare la prima delle due questioni il consiglio spontaneo sarebbe di aprire il libro a pagina 45 e lì scorrere le parole intime e sincere del decimo testimone della raccolta, Giuseppe Di Vittorio. Stanno a chiusa del discorso di lancio del Piano del lavoro che la Cgil presenta al suo congresso genovese nel 1949. Dopo aver descritto le linee del disegno con l’appello allo sforzo congiunto di stato, imprese, lavoratori, per assorbire i due milioni di italiani senza occupazione, stipendio e un tetto dignitoso sulla testa, e avendo rivendicato un «minimo di salario» per braccianti agricoli sfruttati allora (e oggi?), il sindacalista più amato aggiunge una frase. Questa: «Scusatemi una breve digressione: ho personalmente conosciuto quella miseria abbrutente, la disoccupazione, quelle sofferenze, quelle umiliazioni, e dirò, signori, che lasciando da parte ogni altra considerazione e solo per dovere di umanità la società deve intervenire con tutto il coraggio necessario per colpire i privilegi e assicurare ai lavoratori della terra, specialmente del Mezzogiorno e delle Isole, non un tenore di vita elevato, non una condizione di benessere, ma una vita tollerabile e un poco più umana».

Sofferenze e umiliazioni

«Ho personalmente conosciuto quella miseria abbrutente»: non è questione retorica, è un tratto di sostanza per chi voglia comprendere dove affonda il crollo di reputazione di un pezzo del ceto politico. A dirla seccamente, è nel fatto che in quelle generazioni la spinta a confliggere con un ordine guasto o ingiusto del mondo non per forza nasceva da buone letture, che sarebbero venute in seguito, ma dalla prova vissuta e dall’avere condiviso «sofferenze» e «umiliazioni». Poteva essere la miseria delle campagne di Cerignola dove il futuro capo del sindacato si trova spedito a lavorare quando ha appena compiuto dieci anni o la necessità di unirsi a compagni di lotta in un antifascismo militante: resta che a forgiarsi erano uno spirito e una funzione, caratteristiche vitali di una classe dirigente che avrebbe scortato il paese alla democrazia e alla Repubblica.

In questo le biografie (non precoci) curate da Carmen Pellegrino sono il percorso di una umanità che avendo mille ragioni per disperarsi si è invece scoperta forte e coerente lasciando tracce scavate in una nazione stuprata dal fascismo e capace di risollevarsi e ricostruirsi da miseria e macerie. Non è solo l’impressione degli anni di carcere e confino che vedono coinvolti diversi dei protagonisti. Vittorio Foa sopporterà la prigionìa a Regina Coeli grazie alla complicità e amicizia di Ernesto Rossi e Riccardo Bauer. Ada Gobetti affronterà la vita a 26 anni con una creatura da crescere e un marito stroncato un anno prima dalle percosse squadriste.

Princìpi e conflitti

L’isola di Ventotene e quello storico Manifesto nelle pagine tornano più volte quasi a dar conto di una carica visionaria che anche nella fase più terribile non ha impedito a menti attrezzate e libere di pensare la realtà per come non era e avrebbero voluto fosse. D’altra parte con ogni probabilità senza quelle radici sarebbe stato meno naturale per Tina Anselmi riassumere un intero credo politico e, al fondo, un’esistenza matura con pochi cenni fulminanti: «La nostra storia ci dovrebbe insegnare che la democrazia è un bene delicato, fragile, deperibile, una pianta che attecchisce solo in certi terreni, precedentemente concimati, attraverso la responsabilità di tutto un popolo. Dovremmo riflettere sul fatto che la democrazia non è solo libere elezioni, non è solo progresso economico. È giustizia, è rispetto della dignità umana, dei diritti delle donne. È tranquillità per i vecchi e speranza per i figli. È pace».

Eccola la seconda questione che il libro restituisce: la presa d’atto che senza una radicalità dei fini il solo ricorrere al linguaggio dei mezzi rischia di non bastare neppure a motivare chi avrebbe la disponibilità a mettersi in gioco. Ma non da oggi è esattamente qui che si consuma lo scarto più grande tra una sinistra che i princìpi li evoca e l’impegno stentato nel collocarli dentro i conflitti aperti, i soli in grado di dare a quei princìpi la potenza per conquistare sentimenti e passioni. Dirlo non è scappare dal mondo e rifugiarsi in un altrove innaffiato di utopie.

Un classico

Ancora nel volume spiccano le pagine su Franco Basaglia, il racconto sull’arrivo del giovane medico nel manicomio di Gorizia, siamo nel 1961, dove letti e strumenti di contenzione raccontano un contesto di disumanità, nel senso letterale di una umanità spogliata di ogni decenza e dignità, ebbene proprio lì l’utopia si fa reale e il neo-primario praticando una sua disobbedienza civile come primo gesto rifiuta di firmare la lista che l’infermiera caposala gli mette davanti con l’elenco dei pazienti legati per l’intera notte. È una rivoluzione quella di Basaglia? Se mettere al centro di tutto non più la “malattia”, ma il “malato”, è il rovesciamento di una concezione della persona e della cura, allora sì, quella è stata una piccola enorme rivoluzione che avrebbe trovato nell’anno tragico della Repubblica, quel 1978 inchiodato alla cronaca del rapimento Moro, una riforma battezzata col nome di chi l’aveva ispirata, riforma approvata in soli 20 giorni da una maggioranza ampissima e con la sola opposizione del piccolo movimento neofascista. Forse davvero è solamente una spinta tanto ambiziosa da sembrare irreale la chiave che, decine di anni fa e pure adesso, riesce ad anticipare scenari di là da compiersi. E però non è stato da sempre questo l’ostacolo più alto da superare? Inventare e imboccare sentieri mai calpestati e farlo quando nessuno si attende quel coraggio. Ancora Ernesto Rossi – questo il libro non lo ricorda, mi permetto di farlo io – isolato a Ventotene redige un pamphlet. Vuole indagare il futuro del welfare, interloquisce a distanza col rapporto Beveridge e titola lo scritto: Abolire la miseria. La guerra non è ancora conclusa eppure la mente sceglie di indagare un futuro che non si sapeva se e quando avrebbe avuto inizio. Un po’ la stessa impressione che si ha nel rileggere i pensieri di Alex Langer sulle radici e ragioni di un movimento verde allora agli albori e che un altro testimone dell’utopia concreta collocava molto al di là della contingenza.

Nella sua postfazione Caterina Croce cita la definizione che Italo Calvino offriva di “un classico”. Lo definiva «un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». La raccolta di questi testi e di queste vite conserva lo stesso merito. Magari non sanno dirci granché sul mondo com’è diventato, però hanno tutto quanto serve per ricordarci il vecchio ammonimento di Vittorio Foa: «i valori non si insegnano, si vivono». E la differenza, alla fine, sta qui.

 

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