- Paul Thomas Anderson è uno che, da film a film, destabilizza. Destabilizza sé stesso, e destabilizza lo spettatore.
- In Licorice Pizza fruga nel sottobosco hollywoodiano della stagione a cavallo tra gli ultimi ’60 e i primi ’70, ma senza l’epica di C’era una volta a..Hollywood di Quentin Tarantino.
-
Licorice Pizza, dal nome della più gettonata catena distributiva di 33 giri degli anni ’70, sembra un titolo nostalgico. Ma Anderson è allergico alla nostalgia e più o meno a qualsiasi convenzione del cinema mainstream.
Paul Thomas Anderson versus Quentin Tarantino: sarebbe un bel titolo. Peccato sia una fesseria. I due sono grandi amici. Però forzare è lecito, se azzardi un confronto tra C’era una volta a..Hollywood e Licorice Pizza, che esce oggi in Italia con l’appeal di tre nomination agli Oscar più ambiti: miglior film, regia e sceneggiatura originale.
Anderson detiene il record di candidature con zero statuette, e c’è una buona fetta di pubblico che lo considera il più smagliante autore americano di oggi. Iscriversi al partito non è imperativo.
Con i tempi e gli eventi che corrono, l’interesse per i vincitori e i vinti agli Oscar del prossimo 27 marzo naviga forzatamente sotto i minimi storici. Palpitare per un grande perdente storico potrebbe essere un diversivo, ed è impossibile vedere Licorice Pizza senza tifare.
Un esercizio minimalista
Anderson è uno che, da film a film, destabilizza. Destabilizza sé stesso, e destabilizza lo spettatore. Sono passati cinque anni dallo choc de Il filo nascosto, così perfetto da autorizzare Daniel Day-Lewis a congedarsi dalla carriera (speriamo che si ricreda).
Rispetto ai suoi film più osannati – l’ordine di classifica è rigorosamente soggettivo, ma Il petroliere, sempre con D. Day-Lewis, è un must indiscusso – questa regia numero nove sembra un esercizio minimalista.
“Sembra” soltanto, però Anderson, che dirige, scrive e produce, fruga nello stesso sottobosco hollywoodiano di quella stagione di svolta, a cavallo tra gli ultimi ’60 e i primi ’70, ma senza l’epica di Tarantino.
Il “c’era una volta” vale anche per lui, ma senza la reverenza feticista verso la mitologia degli Studios che è la forza e il limite di “king Quentin” (so di espormi alle sassate dei devoti ).
Laico e disincantato
Sono due autodidatti: hanno in comune la bulimia di vecchie pellicole come unica scuola. Alla liturgia autoreferenziale di Tarantino, gran sacerdote dell’immaginario collettivo, Anderson oppone uno sguardo sulla film industry californiana laico, sornione e disincantato.
Guardare Hollywood dalla San Fernando Valley è un po’ come guardare Roma da Torpignattara. Il regista è cresciuto nella periferia satellite di Encino, dove ha già ambientato Boogie nights, Magnolia e Ubriaco d’amore.
Sono memorie del trapasso dalla vecchia alla nuova fabbrica dei sogni – metafora del paese tutto – vissute con l’emotiva partecipazione di un amarcord.
Solo che Anderson è nato nel 1970: nel 1973 descritto dal film aveva tre anni. Nel 1973 George Lucas conquistava la fama con American graffiti, ma gli anni ’60, per lui, erano vita vissuta.
Anderson invece vampirizza certe memorie adolescenziali di Gary Goetzman – ex baby-attore oggi socio di Tom Hanks nella casa di produzione Playtone – e giureresti che le ha vissute in prima persona.
Allergico alla nostalgia
È il pretesto per sovvertire stereotipi a raffica, ma con leggerezza, in punta di piedi. Licorice Pizza, dal nome della più gettonata catena distributiva di 33 giri degli anni ’70, sembra un titolo nostalgico.
Ma Anderson è allergico alla nostalgia – e più o meno a qualsiasi convenzione del cinema mainstream – come Superman alla kryptonite.
Si misura con i codici del teen-movie per terremotarli, letteralmente. Perché imprevedibilmente la sua è una coming-of-age comedy, una storia di formazione sentimentale imperniata su un quindicenne. Il quindicenne è Cooper Hoffman, figlio del grande e perduto Philip Seymour Hoffman, legato al regista fin da Boogie nights e fino a The master.
Hoffman Jr. è al suo esordio nel cinema, come la coprotagonista Alana Haim, front-woman di una band pop-rock di cui Anderson firma affettuosamente tutti i videoclip.
Un quindicenne incontra una “ragazza grande”, venticinquenne, e sarà amore eterno, con la maiuscola. Gli ormoni premono, ma il sesso, se consumato, sarebbe penalmente perseguibile. È una gentile, ma radicale, sovversione dell’easy-watching, della commedia leggera di consumo.
Niente truffe
Niente assomiglia a quanto conosci e a quanto ti aspetti. Acne e denti storti imperano sovrani, il make up correttivo è una terra straniera, Romeo è sfacciatamente sovrappeso e Giulietta è un’adulta-principiante straordinariamente normale: benvenuti nel mondo reale, senza la truffa dei soliti occhiali rosa.
Il cinema è la vita senza le parti noiose, diceva Hitchcock. Ecco un film in relax che invece si annette intervalli, contrattempi e fiaschi senza gloria, i pochi exploit e le tante zone grigie dell’esistenza di noi comuni terrestri.
Padre, madre e sorelle di Alana sono quelli veri, chiamati a mettere in scena le loro dinamiche di piccola borghesia ebrea americana. Sono trasgressioni sommesse ma liberatorie, una sorta di esercizio zen mediato dal grande schermo. Hollywood c’entra eccome.
È come guardare Viale del tramonto col cannocchiale: cinquanta sfumature di Norma Desmond in miniatura. Il brutto anatroccolo Gary Valentine (Cooper Hoffman) sa benissimo di essere un cigno, perché era nel cast di uno show che somiglia come una goccia d’acqua a Yours, mine and ours, feudo televisivo di Lucille Ball dei tardi Sessanta.
Camei benedetti
Persa precocemente l’aureola di baby-star, si tuffa con lo stesso sfrenato entusiasmo in stravaganti avventure imprenditoriali, dai materassi ad acqua al rilancio dei flipper tornati legali, che incroceranno la sua strada e quella di Alana con quella di celebrità reali e fittizie impersonate da guest star di lusso come Sean Penn, Bradley Cooper, Tom Waits e John C. Reilly.
Sono camei benedetti dall’autoironia, un plusvalore del film e un colpo d’ala da commedia indipendente, del tipo che furoreggia al Sundance festival.
Ferocemente caricaturale è il Jon Peters – parrucchiere di lusso, ai tempi compagno di Barbra Streisand – impersonato da Bradley Cooper. La sua spocchia sarà punita dal bizzarro team intergenerazionale con una vendetta senza castigo, grazie a una spericolata fuga in retromarcia dalla villa dello sbruffone.
Nella star al tramonto incarnata da Sean Penn, che rimorchia oscure stelline sfruttando battute rubate ai suoi film, c’è un trasparente riferimento a William Holden.
Istigato da un mefistofelico Tom Waits, è il divo in rottamazione capace di rischiare il collo per strappare un ultimo applauso. John C. Reilly fa capolino nel business in pieno boom dei materassi ad acqua.
È finzione che spiazza, perché portatrice sana di un nucleo radioattivo di verità. Il Tail O’The Clock, ristorante di elezione dei vip a Studio City, esiste davvero. Non millanto supercompetenze che non ho. Guardando Licorice Pizza, ho respirato certa apparente casualità narrativa di Robert Altman, quel gusto speciale di polifonia discordante tra I protagonisti e Nashville, prima di scoprire che Anderson è stato aiuto regista di Altman in Radio America.
Non fanno lo stesso cinema, ma li accomuna l’idea del cinema come atto di resistenza. Altman poteva parlarti per ore della sua orgogliosa resistenza alla dittatura estetica – e produttiva – delle major.
Anderson resiste alla dittatura dell’ansia da prestazione. C’è un solo punto del tempo a cui appartieni davvero, e tutto puoi sopportare, dall’embargo petrolifero e conseguente carestia di benzina degli anni 1973-74 alla routine delle molestie sessuali sul lavoro, dai placidi razzismi coniugali allo spettro dell’omofobia nelle campagne elettorali: c’è molta memoria nel film.
Il filo nascosto
Tutto puoi sopportare perché in quel preciso momento il tempo è dalla tua parte, come cantavano gli Stones. Se Licorice Pizza è una ballata, la musica è il filo nascosto: si parte con la Julie Tree di Nina Simone, e ogni singolo brano di una colonna sonora da sballo che passa per Sonny & Cher, Suzi Quatro, il Paul McCarney dei Wings, David Bowie e molto altro è rigorosamente pertinente.
«True love blooms for the world to see», il vero amore sboccia perché il mondo possa vederlo, assicurava Nina Simone. Un quindicenne e una venticinquenne sono come due rette parallele che non si incontrano mai, secondo la geometria euclidea. Non c’è assioma, dentro e fuori l’universo del cinema, che non meriti di essere violato.
© Riproduzione riservata