- È noto, ormai da anni, che distinguere la cultura alta da quella bassa, creata dai media popolari, è diventato difficile, perché viviamo in un mondo dove le gerarchie sono crollate, e non solo nella cultura.
- Al centro del nuovo libro di David Bolter, Plenitudine digitale. Il declino della cultura d’élite e lo scenario contemporaneo dei media (Minimum fax, 2020) c’è la necessità di capire come siamo arrivati qui.
- Secondo Bolter siamo passati da un mondo nel quale la cultura era un sistema dotato di un centro, le élite, a un mondo privo di centro e di gerarchia, organizzato attorno a una molteplicità di punti luminosi.
Che forma ha la cultura nella quale viviamo? È noto, ormai da anni, che distinguere la cultura alta da quella bassa, creata dai media popolari, è diventato difficile. Non è possibile, per esempio, affermare che la musica classica è superiore al rap o che un romanzo lo è rispetto a un fumetto. O meglio, uno lo può anche dire, ma sarebbe facilmente contestabile, e a ragione, perché viviamo in un mondo dove le gerarchie sono crollate, e non solo nella cultura. Al centro del nuovo libro di David Bolter, Plenitudine digitale. Il declino della cultura d’élite e lo scenario contemporaneo dei media (Minimum fax, 2020) c’è la necessità di capire come siamo arrivati qui.
Per buona parte del Novecento le cose sono andate diversamente, quando le avanguardie proponevano, nei loro manifesti ancora prima che nelle loro opere, uno scarto in avanti, un’innovazione, suscitavano reazioni persino violente da parte del pubblico, notoriamente avverso al nuovo. Era uno shock per il mondo quando le avanguardie dicevano: vedi che questa non solo è arte, ma è anche più arte di tutta quella che l’ha preceduta, perché sa incarnare il presente che viviamo, che sentiamo, ma che ancora non capiamo. Nel 1913, alla prima rappresentazione della Sagra della primavera di Stravinskij a Parigi, per esempio, si scatenò una rissa. Da un po’ di tempo, però, ammettiamolo, l’arte non è più scandalosa, nessuno viene più alle mani per un quadro.
Facciamo un salto in avanti di 100 anni, al 2013, e prendiamo il video di Jay-Z intitolato Picasso Baby: A Performance Art Film. Il video è ambientato in una sala della Pace Gallery di New York e rimette in scena una performance dell’artista Marina Abramovic: dopo aver citato importanti artisti del Ventesimo secolo, quasi a mettere in fila una serie di predecessori, Jay-Z dice di essere il Picasso dei nostri giorni. Ovviamente nessuno si è scandalizzato di questo paragone, accolto in un’atmosfera divertita e compiaciuta, perché nel frattempo la definizione di arte è arrivata a includere tutto ciò che ha che fare con la creatività. Cos’è successo in questo breve lasso di tempo? Di nuovo, che forma ha questa nostra cultura?
La plenitudine
Il libro di Bolter è uno di quei libri che di tanto in tanto si affacciano sulla scena e provano a guardare l’insieme, sforzandosi di trovare un momento di calma per suggerire una cornice che dia un senso al caos. Secondo Bolter siamo passati da un mondo nel quale la cultura era un sistema dotato di un centro, le élite, a un mondo privo di centro e di gerarchia, organizzato attorno a una molteplicità di punti luminosi che chiama plenitudine digitale, appunto: «Un universo di prodotti (siti web, videogiochi, blog, libri, film, programmi radio e televisivi, riviste eccetera) e pratiche (la realizzazione di tutti questi prodotti e il remixarli, condividerli e sottoporli a critica) talmente vasto, vario e dinamico da non risultare intelligibile come un tutto unico. La plenitudine accoglie agevolmente, anzi inghiotte le forze contraddittorie della cultura alta e di quella popolare, i vecchi e i nuovi media, le idee politiche conservatrici e quelle radicali».
Questo scenario è ormai la nostra esperienza quotidiana, che si parli di un prodotto culturale (una serie televisiva, un videogioco, un meme) o persino del modo in cui viene comunicata, e quindi modellata, una pandemia. Quando le gerarchie saltano nella cultura e nei media, saltano dappertutto. Scrive ancora Bolter che quando lo status delle élite ha cominciato a cambiare il modello culturale dominante era il modernismo: «Del concetto modernista di “medium” si sono appropriati prima Marshall McLuhan per spiegare l’impatto della televisione e poi Alan Kay e altri per definire il computer come nuovo mezzo di espressione e rappresentazione. Steve Jobs e il suo team ad Apple hanno applicato un’estetica modernista al design del Macintosh e poi, quindici anni dopo, a quello dell’iMac, dell’iPod, dell’iPhone e dell’iPad. La retorica del modernismo popolare esercita tuttora il suo influsso non solo sulla critica cinematografica, musicale, televisiva e videoludica ma anche sulle profezie utopiche degli esperti di media digitali riguardo alla realtà virtuale e all’intelligenza artificiale».
Semplificando ci dice che il modernismo filtrato nella cultura popolare, con la sua smania di inseguire il nuovo per rivoluzionare il mondo, con il rock o con l’iPhone, ha progressivamente infranto barriere e superato i confini tra le arti. Al punto che oggi di confini non ce ne sono più. I media digitali hanno permesso a questi cambiamenti di compiersi in modo definitivo, ma hanno anche sostenuto una nuova creatività che produce un’abbondanza non arginabile di contenuti. È una creatività modulare e schematica che si incarna nella pratica del remix come anche nella creatività di massa che alimenta i social.
Su Tik Tok, per esempio, milioni di utenti nel mondo riproducono coreografie legate ad hashtag di tendenza, fanno cioè a modo loro quello che fanno tanti altri. Che sia il continuum social o il flow nell’hip hop, che sia il susseguirsi inesauribile di video su YouTube o l’esperienza immersiva nei videogiochi, Bolter individua nel flusso la caratteristica principale dei media che oggi incarnano il nostro presente. Stare nel flusso vuol dire stare nell’esperienza e prolungarla il più possibile, esaltare la sensazione di essere sospesi, così che viene meno la narrazione di storie con un inizio, uno svolgimento e una fine (le storie come le abbiamo conosciute).
Eroi svantaggiati
Non stupisce che da queste narrazioni deboli sia emerso un tipo di eroe legato alle più candide aspirazioni al successo del pubblico, l’underdog. È la figura ben nota di chi parte svantaggiato, escluso, di chi vive, per esempio, nelle periferie, in situazioni familiari complicate, in un mondo difficile dal quale si affranca solo grazie al proprio talento. È la versione ferina, l’unica che sembri degna di essere raccontata, di quell’ascensore sociale che un po’ in tutto il mondo ha smesso di funzionare.
È interessante notare come la retorica di questo tipo di eroe sia trasversale al rap, al talent musicale, agli influencer e persino alla politica. Ogni giorno in tutto il mondo nascono e vengono raccontate continuamente storie di questo tipo e sembra che non ce ne stanchiamo mai. Intendiamoci, è un archetipo molto potente e produce da sempre storie di successo, ma oggi appare decisamente dominante su tutti i media popolari. Può essere utile, allora, fare il confronto con un’altra tipologia di eroe che ha segnato epoche recenti, quella dell’outsider. Se quest’ultimo, non importa se povero o ricco, è colui che si dichiara, per scelta, estraneo alla società, della quale denuncia violenza e ingiustizia, l’underdog chiede solo di essere incluso al banchetto. Non vuole cambiare il sistema ma solo esserne parte.
Questo tipo di creatività e di eroe sono oggi prevalenti. La tentazione di criticare la cultura contemporanea, però, ci dice Bolter, non ci deve distogliere dalla consapevolezza che la plenitudine digitale non è un problema da risolvere, ma un dato da accettare, nella consapevolezza che «la cultura di massa non ha prevalso su quella alta; piuttosto, tutti i valori culturali possibili coesistono in un calderone caotico, specialmente su internet. Quest’anarchia in sé non è dannosa. La nostra cultura mediale è straordinariamente ricca e, nella sua plenitudine, del tutto acritica. Contiene un’infinità di spazzatura (per gli standard di chiunque), ma anche una gran mole di cose interessanti».
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