Per oltre un millennio l’autorità religiosa ha cercato di convincerci che gli inferi fossero un luogo fisico e reale. Oggi non è un tema sentito come attuale nella predicazione. Eppure è ancora vivo nella nostra immaginazione
Trattare del tema dell’inferno non è facile. Anche solo fino a un secolo fa sarebbe apparso del tutto normale, ma oggi – ci si potrebbe chiedere – che senso ha parlarne? O, per essere più precisi, che cosa può evocare nella società in cui viviamo il nome di questo tetro e pauroso regno dell’aldilà? Non è un interrogativo ozioso: a giudicare dal nostro vocabolario, l’inferno continua a vivere con noi, a popolare la nostra quotidianità e i nostri modi di dire, senza trascurare l’immaginario mediatico da cui, assai di frequente, emerge più o meno sublimato.
Per dare risposta a questo interrogativo è necessario fare un passo indietro e cercare le radici del regno del male. È questo il viaggio che propongo in Fuoco e fiamme (Einaudi, 2024), un saggio in cui – come suggerisce il suo sottotitolo – ho esplorato la storia e la geografia degli inferi.
Un nodo importante
L’insolito itinerario comincia da una constatazione: per quasi un millennio e mezzo, lo sforzo ininterrotto delle autorità religiose fu dimostrare che l’inferno esisteva, e ribadire che esso era tangibile, reale e materiale. Può apparire strano, ma tale aspetto rappresentava un punto dirimente. Il modo in cui le società strutturano l’aldilà riflette, infatti, gli equilibri che esse hanno, o aspirano ad avere, in terra. La giustizia impone che il bene venga premiato e il male punito; e il male che sfugge alla giustizia terrena sarà punito da quella ultraterrena. Servendosi, appunto, dell’inferno.
Paura e timore aumentano se gli inferi richiamano l’esperienza quotidiana, il dolore di tutti i giorni, il male che incide la carne: l’inferno viene dunque descritto, dal Medioevo in poi, come un luogo fisico, dove si patisce in modo infinitamente e inconcepibilmente superiore a quello che accade sulla terra. Con un’aggravante: il tormento è eterno.
Questione geografica
Ecco allora in campo tutti gli ingredienti: un luogo fisico, una punizione terribile, un’eternità di dolore. Se poi l’inferno c’è davvero ed è tangibile, il problema scivola dalla teologia alla geografia. Fuoco e fiamme cerca di esplorare anche questa dimensione. Lasciando da parte il viaggio più famoso – quello di Dante – il libro illustra le molte ipotesi formulate sull’esatta collocazione del regno del male: per la maggior parte dei pensatori fu al centro della terra, ma non mancarono autorevoli pareri su una sua collocazione sul sole, nei recessi siderali della Via Lattea e in altri angoli dell’universo.
Per entrarvi, le anime cattive (e in futuro anche i loro corpi) dovevano varcare una qualche porta: ecco un fiorire di pertugi, misteriose bocche infernali, vulcani da cui – si dice – eruttano le fiamme che ardono i dannati per l’eternità. Ma come si può credere all’inferno – ribattono gli scettici – se nessuno è mai tornato per testimoniare ciò che contiene? Anche a questo si trova risposta: santi, veggenti e Cristo stesso sono andati all’inferno (per sconfiggerlo) e sono tornati indietro. Molti di loro, per speciale grazia di Dio, ne hanno dato testimonianza, offrendone descrizioni precise cosicché nessuno potesse più dubitare. Con un contributo decisivo: quello del linguaggio artistico. Le chiese e i luoghi di culto si popolano di dipinti con l’arcangelo Michele che si libra sulle fiamme infernali; si mettono in scena le visioni dei mistici, con particolari di ogni sorta; o ancora la discesa di Cristo al limbo, prima di risorgere dai morti, mostra l’antro oscuro dell’aldilà, con i suoi accessi a forma di grotta e spelonca.
SospesinellimboI supplizi
Il “piatto forte”, il punto su cui la penna di trattatisti e scrittori si dilunga, è tuttavia l’immenso catalogo di tormenti riservati ai malvagi. Chi andrà all’inferno – dicono (e scrivono) stuoli di predicatori itineranti – subirà terribili supplizi, mali indicibili che non avranno mai tregua né termine. Per descriverli, si predispongono illustrazioni, immagini e incisioni a stampa che esibiscono corpi straziati, lacerati, sguardi terrorizzati, strumenti di tortura spaventosi. I sensi vengono chiamati in causa e stimolati per salvare l’anima: il corpo, con le sue esperienze, può indurre lo spirito a considerare come i brevi piaceri di questo mondo possano far precipitare in un dolore infinito e irrevocabile. L’inferno, così congegnato, fa paura. Ma – constateranno gli specialisti dell’anima – non ne deve fare troppa: è un delicato gioco di equilibri. Se il terrore è troppo, non lo si reggerà a lungo (si smetterà di credere all’inferno); se è troppo poco, sarà inutile (non si temerà abbastanza). In soccorso, viene il purgatorio: un inferno “a tempo”, da cui presto o tardi si uscirà per ricevere il premio del paradiso.
Dall’Illuminismo a oggi
Intorno al Settecento, complici l’Illuminismo e i venti di rivoluzione, l’inferno riceve però un colpo mortale. L’avanzare della conoscenza scientifica e la minore presa della religione sulla società portano le pareti dell’inferno a sgretolarsi: sempre meno persone sono disposte a credere che esso sia un luogo fisico e che, magari, stia al centro della terra, sotto strade e piazze di ogni giorno.
L’inferno inizia a diventare, e a essere proposto, come una condizione spirituale, uno stato dell’anima, irrimediabilmente separata da Dio e tormentata da questa lontananza. Il regno oscuro, in altre parole, si dematerializza, diventa qualcosa di simile a ciò che, oggi, è nell’insegnamento ufficiale della chiesa cattolica: una condizione di separazione eterna da Dio, liberamente scelta dall’uomo. Fuoco e fiamme, certo; ma sempre più intese come il dolore che attanaglia le viscere di una coscienza ribelle a Dio.
E oggi? Cosa rimane di questo passato? Alcune statistiche dicono che parti significative della popolazione credono ancora all’inferno – qualunque cosa esso sia – e che, traslato e trasformato, esso continui a condensare le paure profonde dell’uomo. Attorno all’inferno e ai suoi confini, continua a svolgersi una battaglia interna alle chiese: stabilire come sia fatto l’aldilà, quale sia la punizione o non-punizione data al male, significa parlare della giustizia di Dio e, in ultima istanza, della sua stessa essenza. Tutti paiono convergere su un punto: rispetto al modo in cui l’inferno era presentato nei secoli che ci hanno preceduto, oggi nessuno affida più a Dio il compito di punire. È l’uomo a scegliere il suo destino e ad autoinfliggersi la punizione eterna. Non manca però un segnale di speranza. Può un Dio buono, paterno e misericordioso permettere che i suoi figli, anche i più recalcitranti e crudeli, restino in eterno privati della sua compagnia? Sarebbe davvero un padre, un Dio che permettesse questo?
Qualcuno ipotizza che l’inferno sia vuoto e che fuoco e fiamme del passato siano ormai spenti dalla scoperta di una divinità più amorevole e clemente. Lo ha detto persino il papa in un’intervista televisiva: «A me piace pensare l'inferno vuoto, spero sia realtà». L’inferno, forse, sta davvero cambiando pelle.
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