«Non c’è ragione» è una frase che ha in sé qualcosa di arrogante. Sarebbe più onesto ammettere che una causa c’è ma non è visibile ai nostri occhi, né intellegibile dalla nostra mente perché i molteplici fattori che si combinano e la compongono restano inafferrabili. Finiamo così per concludere che non esiste un motivo e ci convinciamo che l’accaduto sia casuale. Un “accidente”.

La stessa parola “caso”, che più di tutte illustra happiness, deriva dal latino cadere e indica appunto la caduta. L’aneddoto della mela che finisce sulla testa di Newton è emblematico di una casualità completamente indeterminata, che conduce a un’epifania improvvisa che rende felice chi sembrava solamente subire il gioco della sorte.

La caduta come occasione

Proviamo a guardare più da vicino questi passaggi, senza confonderli in un’unica immagine di casualità o addirittura di “destino”.

Se una mela cade c’è un perché: la sua maturazione è giunta a un punto sufficiente per staccarsi dal ramo, ossia per compiersi e “accadere”. Il cadere insito nella radice hap riguarda quindi qualcosa che si è perfezionato tanto da affacciarsi al mondo. Vale quindi per la felicità ciò che vale per il frutto: solo quando è caduta, la felicità presenta la sua occasione (una parola che, in italiano come in inglese, ha la stessa radice di cadere e indica «ciò che ci cade davanti»).

La mela cade davanti a noi, ma non sta in questo la felicità: sta nel passante che, notato l’evento, si ferma a raccoglierla per dargli senso. La caduta è un’occasione nel momento in cui chi la subisce può farsene interprete, trasformandola in un punto di partenza che lo conduca verso una condizione più intelligente e gioiosa. Se invece nella felicità che ci tocca lasciamo prevalere la sola casualità non ne faremo mai l’inizio di un cammino, rimarrà prigioniera del suo istante e nella stessa prigione finiremo anche noi. La felicità, dunque, rifiuta la passività.

Una necessità

La mela, una volta a terra, ha terminato il suo percorso. Arrivata da chissà dove, ora è qui, addosso a noi. Potremmo mangiare il frutto soprappensiero, buttare il torsolo e riprendere le nostre faccende: avremmo comunque goduto di un dono inaspettato e di un buon momento. Gli inglesi lo chiamerebbero satisfaction. Ma l’unico modo per dare durata a happiness è cercare di penetrarne il mistero della casualità, proprio come ha fatto Isaac Newton quel mitico pomeriggio. Orazio, nella sua ode più celebre (1, 11), invita al carpe diem, a “cogliere l’attimo”.

Il poeta conclude suggerendo di non preoccuparsi del futuro, anzi di non crederci affatto, mentre Newton fa l’esatto contrario: raccoglie la sorpresa dell’attimo e la mette in relazione col suo sapere per dare a questa caduta una prospettiva temporale più lunga dell’istante. Segue quell’evento improvviso e se ne lascia trascinare proprio come se fosse una manifestazione del suo destino.

Così scrutato, il caso può addirittura apparire l’opposto di ciò che sembra: una “necessità”, che etimologicamente è un ne-cedere, non lasciare spazio, non allentare e dunque non lasciarsi sfuggire l’occasione.

Sospiro di sollievo

Ciò che è accaduto a Newton sembra un ossimoro: per un evento del caso è riuscito a rendere più controllabili i fenomeni della realtà formulando una legge che descrive una volta per tutte ciò che prima restava ignoto e casuale. Nella migliore delle ipotesi, di questa felicità imprevista faremmo tutti ciò che ne ha saputo fare lo scienziato: stupirsi, connetterla a ciò che sappiamo e trasformarla in un’esperienza da donare al mondo. Avremmo così la prova che questa parola sospesa non va superficialmente considerata un accidente.

Ma visto che non tutti siamo Isaac Newton e dato che l’etimologia – hap – ci presenta solo l’atto della caduta, è interessante osservare che questa felicità ha almeno un altro tratto originale, che sembra quasi contraddire – o perlomeno correggere – ciò che abbiamo sostenuto finora.

Mentre scienza e tecnologia progrediscono, rendendoci sempre più padroni degli eventi e della natura, gli inglesi (come i tedeschi) affidano la felicità alla fortuna e al caso. Siamo diventati capaci di descrivere e gestire fenomeni complessi, eppure la parola per definire il più alto appagamento umano rimane un vocabolo legato alla casualità.

La lingua, dunque, ci ricorda che il caso continua ad esistere e ad essere una variabile determinante e insondabile della nostra esperienza. Tenere a mente questo aiuta a ridimensionare ambizioni, aspettative, pretese, ricordandoci che la felicità è appunto una caduta le cui cause, anche se necessarie, rappresentano quasi sempre un residuo di irrazionalità e di mistero.

Happiness diventa così una parola che sgrava da un certo senso di onnipotenza l’uomo moderno, sicuro dei suoi mezzi e delle sue possibilità di accesso a qualsiasi traguardo. Ma lo alleggerisce soprattutto di una felicità che, se solo in capo a lui, diviene un dovere: quanto è liberatorio, invece, pensare che non si deve essere felici a tutti i costi, anche perché non dipende tutto e sempre da noi!

L’esibizione di giovinezza, salute, ricchezza, successo in cui ci imbattiamo ogni giorno sui social e nella comunicazione pubblica, è una felicità fasulla perché finge di poter ignorare i conti da fare col caso.

Il nostro stato precario

Happiness, insomma, ci stimola e autorizza a non “condannarci alla felicità”, perché forse la vita non si riduce e non tende soltanto a questo, ma ha altre forme – e altre parole! – che indicano il bene e l’amore per un’esistenza degna. Questa consapevolezza ci ricolloca davanti alla nostra essenza più vera, uno stato precario e fragile, non assimilabile ai màkares dell’antica Grecia, gli dèi felici.

La grandezza dell’uomo è tutt’altra e consiste nel tenere a mente che non siamo falliti anche se disperati. Non abbiamo sprecato la vita se qualcosa va storto o se il destino ci trascina dove mai vorremmo. Se siamo caduti noi senza che nulla di buono sia caduto sulla nostra testa. Avremo di che esaminarci, certo, ma dobbiamo prepararci a non afferrare una causa ultima che possa sciogliere il mistero della nostra condizione, quale che sia.

La presa di coscienza di questa dinamica, ovviamente, non invita né autorizza a un atteggiamento passivo e fatalistico – il nostro gettare la spugna danneggerebbe chi ci circonda – ma è piuttosto un ammonimento a ricordare quanto il pensiero, la logica, la tecnica, la lingua, siano strumenti che garantiscono progresso ma non danno automatico accesso alla più profonda soddisfazione interiore.

Solo non dimenticando quanto di imponderabile resta nella felicità, potremo godere della sua epifania, della mancanza di ragioni da offrire con cui si presenta alla nostra porta. Come in quei versi di Emily Dickinson in cui la poetessa osserva una piccola pietra che rotola senza direzione, appagata del suo andare senza meta. Dickinson, personificandola, la guarda come una qualsiasi altra componente dell’universo, contenta di vivere per il ruolo che le è toccato e di esistere, «in casual simplicity», «nella sua casuale semplicità».

Vestendo questi panni, la caduta della felicità non ci lascerà basiti o interdetti, ma ci vedrà disposti a ricevere il bene come la luce del sole quando fa capolino in una giornata grigia. 

Ogni tanto mi diverte rileggere un passaggio de Il teatro di Sabbath di Philip Roth, dove la felicità viene sarcasticamente presentata come una patologia: «La Rivista dell’Etica Medica si propone di classificare la felicità tra i disordini mentali e di includerla nelle future edizione dei principali manuali di diagnostica sotto questo nome: disordine affettivo primario, di tipo piacevole. Da un esame dei principali testi risulta che la felicità è statisticamente anormale, è associata a una vasta gamma di anormalità cognitive, e probabilmente riflette un anormale funzionamento del sistema nervoso centrale. Una delle principali obiezioni alla proposta è che della felicità non si dà una valutazione negativa. Comunque è un’obiezione trascurabile dal punto di vista scientifico».


Il testo è un estratto da Cosa c’entra la felicità? Una parola e quattro storie di Marco Balzano (Feltrinelli 2022, pp. 128, euro 15)

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