- In terza elementare cambiai scuola e, nella nuova, cominciò la mia carriera di secchione. Vinsi, a fine anno, la coppa per i temi, e la vinsi ancora ogni anno fino all’esame di quinta.
- Ne scrivevamo uno a settimana e il più memorabile, in quell’anno scolastico 1995-1996, proponeva il seguente esperimento speculativo: Se i membri della mia famiglia fossero animali.
- La vera creatività, degna di coppa, la espressi facendo di mio padre un cane di San Bernardo e di mia madre uno struzzo. Anzi, «una struzza». «Struzzo femmina» corresse la maestra Rosanna Del Monaco, emendando pazientemente ogni spuria «struzza» nel mio manoscritto. Il testo fa parte dell’ultimo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.
In terza elementare cambiai scuola e, nella nuova, cominciò la mia carriera di secchione. In quella precedente, gestita dalle suore, non avevo ancora capito di essere particolarmente bravo. O meglio, nessuno me lo aveva detto – e ora che insegno so che, in buona sostanza, nessuno è bravo finché qualcuno non glielo dice.
Vinsi, a fine anno, la coppa per i temi, e la vinsi ancora ogni anno fino all’esame di quinta. Ne scrivevamo uno a settimana e il più memorabile, in quell’anno scolastico 1995-1996, proponeva il seguente esperimento speculativo: Se i membri della mia famiglia fossero animali. Mia sorella, scrissi, sarebbe una farfalla, azzeccando il condizionale presente con le sue due doppie B ma indulgendo in quello che è forse il più ovvio dei paradigmi di genere binari che il patriarcato ci inculca sin dalla primissima infanzia – le femmine sono carucce e leggiadre, i maschi mostruosi e gravi: roba che, a furia di ripeterla, finisce persino per inverarsi, come la questione della bravura.
La vera creatività, degna di coppa, la espressi facendo di mio padre un cane di San Bernardo (perché mansueto, nato in montagna e impiegato di un’azienda farmaceutica) e di mia madre (ma qui le ragioni vanno forse chieste a Freud e Jung) uno struzzo. Anzi, «una struzza», come ricordo benissimo di aver scritto. Lo ricordo perché andavo assai fiero della rarità dei segni rossi sui miei temi, e invece in quello, pur lodato, ce n’era uno per ognuna delle numerose occorrenze di «struzza» – forma che evidentemente mi ero inventato e che ora, mentre scrivo queste righe, suscita sullo schermo del computer analoghi segni rossi da parte della segnalazione errori del programma di video-scrittura.
Parole indeclinabili
«Struzzo femmina» corresse la maestra Rosanna Del Monaco, emendando pazientemente ogni spuria «struzza» nel mio manoscritto.
«Struzzo femmina». Non me ne capacitavo. C’era una papera nella canzone che portavamo al saggio natalizio (la ricordo ancora: una ballata amorosa per tale Guendalina, scappata in Australia con un tacchino). C’era una gabbiana (a dire il vero, una gabbianella) discepola di un gatto nella nostra bibliotechina di classe. Nel quaderno in cui ricopiavamo poesie dalla lavagna figurava persino una tacchina («lì nelle stoppie dove singhiozzando / va la tacchina con l’altrui covata»). Tutto suggeriva che «la struzza» dovesse esistere. E invece, no.
A otto anni il nome di questa bestia mi si rivelò impermeabile al femminile grammaticale. E dire che gli struzzi, in generale, a me sembravano tutti femmine – forse perché lo erano in Fantasia, forse perché possedevo un supercorallo del Mago dei numeri di Enzensberger e il logo di Einaudi, che rimiravo con attenzione per decifrare l’illeggibile motto, mi pareva femmineo, con tutti i suoi svolazzi e le lunghe gambe snelle dello «struzzo femmina».
C’è un’etimologia fantasiosa, sconfessata dai filologi sin dal primo Novecento, che vorrebbe “struzzo” come risultato delle parole greche per “forte” e “corro”. È quasi certo invece che la radice riposi nel termine probabilmente usato 5mila anni fa, nelle steppe dell’Eurasia, per dire “emettere suoni”, “cantare”. Da esso i greci avrebbero sviluppato la loro parola per “uccello” poi combinata, per dire “struzzo”, con quella che usavano per dire “cammello”. Invece di evolvere assieme alle sue cognate spaiate, che in italiano ad esempio hanno generato “tordo” e in inglese “sparrow”, la parola «struzzo» è così rimasta più simile all’originale ellenico, perdendo per strada solo l’ingombrante cammello che in antichità le serviva a distinguersi dal nome di altri pennuti.
Forse è la scorza di questa ostinazione, udibile nelle asperità sorde, dentali e sibilanti della sua sostanza verbale, ad aver conservato lo struzzo impermeabile al genere, incapace di mutare nel suo intuitivo femminile a differenza di “canarino” ad esempio, che si fa “canarina”, o di “pappagallo” che, secondo il vocabolario della Crusca, può essere “pappagallessa” – lemma attestato almeno sin da una commedia cinquecentesca dello speziale Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca (tra i fondatori, peraltro, della Crusca stessa).
Ma no, non si può risolverla così l’inamovibile maschilità grammaticale dello struzzo: rimarrebbe da spiegare quella del cigno e del fenicottero, non meno femminei, e, per converso, l’inesistenza lessicale di un “aquilo”, di un “upupo” o di un “quaglio”, animali fantastici che la mia maestra avrebbe ripristinato nei loro femminili indeclinabili, aggiungendo «maschio» come Disney ha aggiunto un fiocco al suo harem di struzzi danzanti facendone «struzzi femmina».
Fiocchi genderizzanti
Certe parole appaltano il genere di quel che significano ad altre parole. In inglese è tipico, e per questo sono così importanti i pronomi: se li si evita, ripetendo il nome, si può parlare per ore di una persona senza rivelare se si tratti di un ragazzo, di una ragazza o di altro. Per sapere se il cat che è on the table sia un gatto o una gatta bisognerebbe sostituirlo con un pronome, oppure aggiungere male o female al modo della maestra e di Fantasia. In italiano la faccenda è più rara e complicata, e forse per questo si resiste tanto al linguaggio inclusivo.
È anche più straniante però, perché quando le parole in effetti applicano ai loro significati altri significanti un fiocco genderizzante, resistendo a cambiare genere loro stesse, conservano ovviamente il proprio, inspiegabile e misterioso. E questo mi fa pensare che quel genere, puramente linguistico e irrinunciabile, essenziale, significhi qualcosa di per sé. Se non è la sua peculiare storia a giustificare il maschile di “struzzo” sarà dunque forse la sua origine: quell’emettere suoni, quel canto da cui proviene nel vocabolario perduto delle genti della steppa preistorica.
Un altro etimo proto-indoeuropeo, all’inizio legato al concetto di colpire, pare aver dato alle antiche lingue italiche un verbo che, in latino, ha assunto significati simili a quello alla radice di “struzzo”: plangō, che significava battersi il petto emettendo, appunto, un suono. Da quel verbo viene “il pianto”, sostantivo maschile.
Se penso alle origini etimologiche del pianto, al fatto che ha più a che vedere col suono e col colpirsi che non con le lacrime, mi sovviene un’enciclopedia performativa della maschilità tossica: The Wolf of Wall Street di Scorsese – legioni di buzzurri finanzieri scalzacani che si battono il petto mugugnando, guidati da un DiCaprio sciamano rigonfio di cocaina e testosterone, a sua volta iniziato da un indimenticabile McConaughey al rituale di quel piangere asciutto. Mi sovviene l’odore di paglia di Trastevere in cui «gli angoli bui, le pareti placide / risuonano d’incantati rumori» quando uomini e ragazzi «scompaiono cantando» alla fine del Pianto della scavatrice di Pasolini.
Ma poi l’incantesimo della filologia, delle origini e degli archetipi atavici si dissolve, giacché al cuore di tutti gli evitabili malanni che il paradigma del maschile infligge ai maschi stessi sta forse un singolo emblematico imperativo: non piangere. E mi ricordo che a Pasolini in realtà preferisco Giorgio Caproni, suo vicino di casa, il cui libro più bello mi pare Il seme del piangere, in cui riscrive «in silenzio e a lungo il pianto / che [gli] bagna la mente». Il mio eroe d’altronde, come sa chi segue questa rubrica, è Kylo Ren, che quasi in ogni scena sembra sul punto di piangere: ha gli occhi lucidi.
In un cartone giapponese che amavo, che girava sulla tv locale, il protagonista Ranma diventava femmina se si bagnava con l’acqua fredda, maschio con quella calda. Ecco, il pianto bagnato, quello con gli occhi lucidi e le lacrime che interrompe la peggiore delle tradizioni affibbiate ai maschi, vorrei cambiasse genere grammaticale. Vorrei chiamarlo la pianta. Quella forma però è già presa da un’altra parola indeclinabile: si congettura che “pianta” (come “platano” e “piatto”) derivi da un’antichissima parola italica per il concetto di “largo”, di “estendersi”. Ma non sono proprio gli uomini, in una metafora prossemica del senso di protagonismo e fragile autostima instillatogli della mitologia della virilità, a sbracarsi, a occupare spazio nella tendenza espansionistica che in inglese si chiama manspreading?
Vorrei allora bagnare anche la pianta, per trasformarla in pianto. E vorrei dire della pianta di Kylo Ren, per far contenta la maestra, che è una pianta maschio. E ai pianti innaffiati smettere di applicare un genere-fiocco a seconda di quali impollinino e quali siano impollinati – anche perché spesso fanno entrambe le cose, e non esiste (ancora) una terza opzione schwa da aggiungere al posto di “maschio” o “femmina”. Troppo casino? D’altronde non è che la lingua vera sia meno complicata di questa fantalingua, anzi – che poi è quello che avrei dovuto dire alla maestra, mi sa.
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