Non c’è nessuna teoria politica che sappia spiegare come quaggiù siano riusciti a conciliare il comunismo con i motori. L’antifascismo con le Ferrari. Togliatti e il gigleur. Tuttavia c’è una regolarità empirica che disegna con precisione la geografia dell’Emilia meccanica. Un paradigma che dice così: più erano comunisti e meglio andava con le macchine, le bielle, i cilindri, i pistoni, le valvole, con un senso di una comprensione profonda dei motori e dei quattro tempi. Più numerose erano le bandiere rosse che sfilavano il Primo maggio, e più alta era la quota di auto, motociclette, motorini e trattori nella popolazione.

C’era un tale, si perdoni lo sfoggio di cultura, un famoso giurista e scienziato politico tedesco, Carl Schmitt, il quale sostenne che la lotta politica nel mondo disumano della tecnica, o tragicamente posteriore alla tecnica, avrebbe visto l’apparire di una figura tellurica e nuova, il «partigiano motorizzato». Eccoci qua, viene da dire: quanto a partigiani non si scherza, e come motorizzazione, ci mancherebbe. 

Sarà che il socialismo scientifico doveva essere una macchina perfetta, con il potere dei soviet, l’elettrificazione, il praesidium, il politbjuro, il comitato centrale, la cellula: per funzionare davvero gli mancava solo lo spinterogeno.

Resta il fatto che il motore occupa lo spazio fisico e mentale di un’area delimitata di pianura padana. Benissimo a Reggio, Modena, Bologna, Ferrara e giù nella Romagna: comunisti, socialisti, anarchici e mangiapreti generici con il casco e gli occhiali da corsa.

Mentre non appena ci si sposta di qualche chilometro a Nordovest l’ispirazione motoristica declina. Verso Parma, per esempio, devono essere troppo raffinati per affidare il proprio sentimento umano e politico alle macchine.

Gente come Bernardo Bertolucci e Alberto Bevilacqua, basta guardarli, sono mangiatori di culatelli e anolini, cose sofisticate: sospiri intellettuali e palatali che alludono signorilmente all’analità. E guarda caso, nonostante la resistenza dell’Oltretorrente contro le squadre di Balbo e Farinacci nel ’22, sono stati molto meno comunisti che nel resto dell’Emilia, tant’è che avevano già fatto il pentapartito nel 1985. Perché in definitiva qui il culo lo si schiaffa su un sellino, e basta, non lo si usa come impronta o modello gastronomico.

Oppure sarà che fabbricare le macchine costituisce una semplificazione interessante di come va fatta una società. Si assemblano pezzi di metallo, tutto viene fatto funzionare a meraviglia, al massimo si fanno due riforme al tubo di scappamento e una lotta di classe con la pedivella, e si rimpiange implicitamente, quando il motore scoppietta allegro, che costruire il socialismo sia tanto ma tanto più complicato.

Finché non salta fuori l’antropologo di turno, che anni fa ha letto Baudrillard e Lyotard, e più di recente ha affettato chili e chili di culatello, a spiegare che l’idea della macchina perfetta e della società socialista sono due mitologie. Due lessici dell’immaginazione. Due strutture dell’epos. Due configurazioni dell’utopia. E così la questione sarebbe risolta. 

Sì, buonasera.

Il miracolo del tubo

Si fa presto a dire mito. Mito non vuol dire niente. Gli emiliani sono gente che sa che cos’è la materia e il materialismo, anche quello storico e dialettico, e dei miti se ne frega. Piuttosto, bisogna sapere qui la terra è impastata di olio meccanico. D’estate sull’asfalto aleggia l’odore della benzina combusta. Ragazzi, questo è l’aroma dell’Emilia, è il profumo della Romagna.

È l’incenso di una religione sacrilega che ha i suoi adepti sul decumanus maximus, come dicono quelli che leggono i romanzoni di Valerio Massimo Manfredi, o «fra la via Emilia e il West», come dicono quelli che ripetono sempre la solita solfa di Francesco Guccini, solo che i cavalli non corrono nella prateria, scalpitano a quattro galoppi nel motore. E stuzzicano la memoria a ogni apertura della manetta del gas e a ogni pressione del piede sull’acceleratore: perché, tanto per dire, i gourmet più sofisticati, gli intenditori più sopraffini, quando passano a Modena in via Paolo Ferrari, a un passo dalla ferrovia, dove c’è la casa natale di Enzo Ferrari, e a fianco la primissima officina del cosiddetto Drake, sollevano il naso all’aria e stabiliscono che si avverte ancora un sentore inconfondibile, ma certo, come se la terra battuta del cortile avesse conservato le tracce del lavoro motoristico, un’essenza di lubrificante, nafta, benzina e grasso che avrebbe attraversato indenne almeno sette decenni solo per raggiungere le nostre narici e testimoniare all’olfatto l’odorino della storia.

Niente sconti alla Ferrari

Il motore. Una condanna, un vizio, un qualcosa che è entrato sotto la pelle degli emiliani fin da quando i contadini armeggiavano con il trattore e la benzina agricola, che era poi gasolio, sotto il sole che faceva bollire le teste, e Giovanni Guareschi raccontava leggende quasi credibili di meccanici silenziosi, capaci di rettificare una biella solo con la lima, e di valutare l’effetto a orecchio, facendola risuonare con un colpetto di martello. Se era intonata bene, come un diapason dell’arte metallica, il lavoro era ben fatto, senza bisogno di tante altre misurazioni.

E dev’essersi insinuato, l’amore per la meccanica, fin nelle profondità del codice genetico, in quelle vertigini spiraloidi dell’acido desossiribonucleico che presiedono alla rivalità fra emiliani e romagnoli, se è vera com’è vera la storia della lotta automobilistica fra Enzo Ferrari e Benito Mussolini.

Non lo sapevate che Mussolini era passato di qui? Proprio lui, il maestro elementare di Predappio, «Muslèn», il Duce, il fondatore dell’Impero, costretto con la sua Alfa a mangiare la polvere sulla tortuosa Modena-Sassuolo. E alla fine, tutto impettito, togliendosi i guanti, e sporgendo la mascella, infrangibilmente sportivo: «Lei, Ferrari, mi ha dato una lezione di guida».

Perché come sanno tutti, Enzo il coriaceo, una scorza spessa così, non faceva sconti a nessuno, neanche al capo del fascismo. Figurarsi se poteva avere compassione o concedere alcunché, uno che sosteneva che a ogni figlio i piloti impiegano un secondo in più al giro, e che il suo proprio figlio «illegittimo» in azienda l’ha sempre presentato come «il signor Lardi, mio collaboratore».

Ma non facevano sconti a nessuno neanche i lavoratori della fabbrica di Maranello, perché erano e sono un’aristocrazia della classe operaia, gente che ha visto passare sfrecciando Fangio, Surtees, Scheckter, Villeneuve, Lauda e figurarsi se si fa impressionare da qualcuno, si chiamasse pure Schumacher e avesse quella basletta gigantesca da tedesco.

Hanno visto anche il papa (quel polacco «con gli zebedei al tungsteno», come disse slacciandosi la tuta rossa il meccanico Silingardi del reparto corse), accettare di salire su una granturismo rossa, nel giugno del 1988, e fare un giro di pista sul circuito di Fiorano, mentre poveretto il Drake era ormai così stanco e vecchio e stava così male da non potersi presentare all’incontro con Wojtyla. E gli è sembrata la cosa più normale del mondo, agli operai: mentre altri fabbricanti di macchine, per avere un testimonial così, tutto vestito di bianco sul colore sfolgorante dell’auto, avrebbero venduto l’anima al buon Dio, non solo al Diavolo, a cui l’avevano certamente già venduta da un pezzo.

Adesso se ne stanno lì, gli operai, in una fabbrica che sembra un salotto d’avanguardia o una farmacia tecnologica, con gli alberi veri nelle aiuole fra un tornio elettronico e una fresatrice intelligente, fra gli automi impressionanti che con un braccio meccanico immergono i pezzi nell’azoto liquido a 278 gradi sotto zero e li infilano nell’apposita sede del monoblocco, così quando il pezzo incapsulato riguadagna calore si dilata e non si smuove più; mentre la temperatura interna è rigorosamente di 23 gradi, e non si sente quasi neanche l’odore dell’olio, l’odore familiare dell’officina, sicché quando passa un’operaia giovane, assunta perché sono più brave nel montaggio di certi particolari nel motore o nella rifinitura delle pelli, già la si immagina il sabato sera in un locale, nella migliore tenuta sexy, ombelico di fuori, vitalissima nel ballo sui tacchi assassini che danno un aiuto al femore tradizionalmente non infinito delle padane, e al culo non proprio altissimo ma onesto. 

E alle due linee di montaggio il tempo sembra scorrere lentissimo: capirai, completano una macchina al giorno, anzi, una virgola uno per la precisione, controllano il lavoro piegando la testa e socchiudendo un occhio come per prendere la mira, con un’espressione critica sul volto, e quando si presenta il solito visitatore che non ha mai visto una fabbrica in vita sua, e reprime a stento la meraviglia di non trovarci dentro gente imprecante a torso nudo, e sporca e sudata, loro lo guardano con la superiore indulgenza di chi è abituato a realizzare entità supreme, meccaniche siderali, verniciature metafisiche, e continuano muti il loro lavoro perfetto. 

Sempre con una distanza comportamentale e psicologica che sembra studiata, anzi scientifica, rispetto alla Ferrari che hanno sotto le mani. Con la calma e il distacco di chi costruisce rispettandole macchine che non comprerà mai. Finché il visitatore stupefatto e imbranato non riesce ad accorgersi che gli sta ingombrando il raggio d’azione, e loro allora gli infliggono uno sguardo di fredda cortese efficienza: «mi scusi, sto lavorando», sicché ci si vergogna spaventosamente di avere intralciato l’attività sovrumana di un piccolo dio della ghisa, dell’acciaio, dell’alluminio, dell’elettronica e di tutti quei materiali strani, «e il microcìp e il microcàz», dice il meccanico in pensione Silingardi, che ci sono dentro le Ferrari di oggi.

Adesso anche la rinata Maserati che cos’è se non l’elegante profilo modernista che si staglia su Modena entrando in città da Bologna, poco prima della stazione ferroviaria: una fisionomia nella quale si avverte l’impronta stilistica di Luca Cordero di Montezemolo, l’uomo che prima di vincere un fottio di mondiali era riuscito nel miracolo di trasformare ogni sconfitta ferrarista nella struggente attesa della vittoria che verrà, e nel frattempo ha fatto progettare la galleria del vento di Maranello all’architetto Renzo Piano, quello del Beaubourg, perché noi siamo gente di una certa classe. 

da Quel gran pezzo dell’Emilia, Mondadori, 2004

© Riproduzione riservata