- Da tempo, i sostenitori del politicamente corretto denunciano che le lingue incorporano stereotipi sessisti, in quanto discriminano tra uomo e donna e ignorano chi rappresenta le altre più complicate figure del genere.
- Se è abbastanza facile, infatti, inventare parole come l’assessora, la ministra o la sindaca, è meno facile regolarizzare i soggetti generici costituiti da un pronome.
- Dopo l’asterisco, è spuntata un’idea più vertiginosa: sostituire la prevaricante finale maschile con il simbolo ə, una e rovesciata. Si tratta tecnicamente di uno schwa. Ora, guardando al problema con l’occhio del linguista, come stanno in effetti le cose?
Due interrogativi tormentano senza tregua il paese: il primo è se l’obbligatorietà del green pass sia o no un fatale attentato alla libertà; il secondo, se si possano tollerare le ingiustizie incorporate nella morfologia della lingua, che costringe una donna a chiamarsi il soprano e un uomo la guardia, chiama presidente qualcuno che presiede essendo transessuale ecc. I due assilli, benché non dello stesso peso, angosciano nella stessa misura. Del primo, persone più titolate di me hanno già discusso. Dirò quindi del secondo, puntando a mostrare che si tratta tecnicamente di un abbaglio.
Scrittura inclusiva
Presento il tema della contesa. Da tempo, i sostenitori del politicamente corretto denunciano che le lingue incorporano stereotipi sessisti, in quanto discriminano tra uomo e donna e ignorano chi rappresenta le altre più complicate figure del genere. La campagna è partita negli Stati Uniti, dove ha trovato soluzioni come le seguenti: nelle scritture accademiche, molto sensibili a questi temi, non si usa più he (lui) per un soggetto generico, ma she (lei) o s/he, che li ingloba entrambi; il chairman (presidente, letteralmente “uomo-della-cattedra”) dei congressi è diventato chairperson (“persona-della-cattedra”); molte voci contenenti man “uomo”, come mankind (genere umano, più o meno “genere-degli-uomini”) sono state colpite da condanna.
È però la Francia il paese in cui la campagna si è scatenata con maggior forza, a partire dal 2016. Le richieste erano due: dare un femminile a nomi di funzioni indicate solo al maschile (le président, le pompier) ed evitare che un insieme di maschi e di femmine sia designato dal maschile (per esempio, les étudiants “gli studenti [e le studentesse]”). Per il primo punto, sono state proposte forme come professeure (con e finale femminile) e écrivaine (idem) invece dei tradizionali femme professeur e femme écrivain. Per il secondo punto si è fatto qualcosa di più radicale.
Si è creato un sistema ortografico chiamato “scrittura inclusiva”, in cui al posto del maschile les étudiants (“gli studenti [e le studentesse]”) si ha les étudiant·e·s (con punti di separazione), dove la e indica il femminile e la s finale il plurale. Invece di citoyens "cittadini”, si ha citoyen·ne·s, con la stessa logica. Una sequenza elementare come “A tutti i miei amici e amiche musicisti e musiciste” darebbe in scrittura inclusiva “À tout·e·s mes ami·e·s musicien·ne·s”.
Un pericolo mortale
Questo metodo, già abbastanza acrobatico, con alcune parole dà soluzioni cervellotiche: da agriculteur (agricoltore) si dovrebbe trarre agriculteur·rice·s (“agricoltori uomini e donne”), dove il secondo segmento indica la donna e la s finale, al solito, il plurale. Nessuno saprebbe pronunciare alcune di queste scritture, ma ciò non turba i fautori.
Diversi editori hanno portato al macero i loro libri di testo per rifarli in base ai nuovi princìpi. Le associazioni di insegnanti hanno importato le nuove regole a scuola. Le istituzioni, però, sono rimaste fredde. Jean-Michel Blanquer, ministro dell’educazione, se l’è cavata ricordando che la Francia ha per simbolo una donna, la Marianne, e che le sole autorità in fatto di lingua sono l’uso e l’Académie Française. L’Académie, per bocca di Hélène Carrère d’Encausse, segretario perpetuo (per sé vuole l’epiteto al maschile), si è detta contraria avvertendo che la scrittura inclusiva potrà essere «un pericolo mortale» per la lingua.
L’invenzione dello schwa
Il tema è passato inevitabilmente dalla Francia all’Italia. Anche qui, il plurale maschile indica maschi e femmine (i fratelli, i parenti, gli studenti, i cittadini, gli elettori); alcune figure professionali hanno nomi di genere inverso (il soprano, la guardia, la sentinella); non c’è un nome apposito per indicare la donna in diverse attività (il giudice, il sindaco, l’architetto); nel cosiddetto genere comune (il collega/la collega, il belga/la belga) i generi si confondono; in alcuni casi, il femminile è segnalato da suffissi pesanti (il poeta ma la poet-essa, il dottore ma la dottor-essa); il maschile indica i soggetti generici (uno non crede possibile che…); uomo prevale nelle designazioni generali: l’uomo delle caverne, l’uomo moderno, ecc. Frasi fatte e proverbi sono spesso maschiocentrici: sii uomo!, è una donnetta (detto anche di un uomo), temperamento uterino, tirar fuori le palle…
Come si vede, i fenomeni sotto accusa sono molti. Ciò rende difficile trovare una soluzione unica. Se è abbastanza facile, infatti, inventare parole come l’assessora, la ministra o la sindaca, è meno facile regolarizzare i soggetti generici costituiti da un pronome (se uno vuole davvero partire…). Data la complessità della questione, il movimento di protesta morfologica si è concentrato solo sull’eliminazione dei plurali maschili onnicomprensivi (genitori, elettori, automobilisti ecc.). Una quindicina di anni fa si propose di raddoppiare le forme: i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine ecc., formula che, sebbene macchinosa, ha avuto qualche successo. Una proposta più svelta ha suggerito di mettere, al posto delle finali maschili, un asterisco: student*. La soluzione è piaciuta, ma pone problemi insormontabili: per esempio, cosa fare con l’articolo? Gl* (per gli + le) student* porta ancora traccia di maschile; l* student* farebbe ridere. E soprattutto: come si pronuncia un asterisco?
Dopo l’asterisco, è spuntata un’idea più vertiginosa: sostituire la prevaricante finale maschile con il simbolo ə, una e rovesciata. Si tratta tecnicamente di uno schwa (pronuncia shvà; rielaborazione tedesca dell’ebraico shĕvā “insignificante”) o, all’italiana, scevà, ed è un’invenzione dei linguisti di fine Ottocento, poi accolta nell’alfabeto fonetico internazionale, per trascrivere la “vocale indistinta” presente in diverse lingue indoeuropee.
L’abbaglio
La proposta ha creato dapprima un po’ di panico: nessuno sa come pronunciarlo (ho sentito finanche la pronuncia sciùa) né che genere dargli (ma gli specialisti lo usano al maschile). La grancassa mediatica ha però finito per diffonderlo: inclusa tra le rivendicazioni del politicamente corretto, sostenuto da vari influencer (maschi e femmine), lo schwa egalitario ha cominciato a prender piede: il comune di Castelfranco Emilia lo ha adottato nei suoi post e più di un giornale (anche questo…) accoglie articoli che lo contengono. Da qualche giorno, sulle tastiere dei telefonini Apple e Android è spuntato maliziosamente, nel tasto della e, il simbolo ə e si può esser certi che per questo canale la diabolica letterina si diffonderà a macchia d’olio. Questi fatti hanno suscitato turbamenti (che fare nelle scuole? che fare nei media? e nei libri?), discussioni e battibecchi anche accalorati, sui social e altrove.
Ora, guardando al problema con l’occhio del linguista, come stanno in effetti le cose? Dirò francamente che la proposta del segno ə, oltre che priva di motivazioni storiche, è un abbaglio. Anzitutto, quel segno non ha niente a che fare con l’indicazione di genere. Poi, è un elemento puramente grafico, perché trascrive una vocale che in italiano non esiste. Quindi, come va pronunciato? Qualche settimana fa, Flavia Fratello, su radio radicale, provando spiritosamente a “leggere” un brano lussureggiante di schwa, non ci ha messo molto a scoprire che pronunciare ə è improponibile e in alcuni casi (come in europeə) ridicolo. Provare per credere. Inoltre, siccome la “vocale indistinta” esiste in diversi dialetti (è la finale di parole napoletane tipo core o figghie) e in varie lingue (francese: belle, ville, grande…; inglese, tedesco e altre), prendendo sul serio la proposta finiremmo per napoletanizzare l’italiano, pronunciando con finale indistinta parole come ragazzə, bambinə o cittadinə ecc.
C’è altro prima
Ci sono poi ragioni più sostanziali. Non è per l’azione dei guru(ə) di un giorno che le lingue cambiano. Se è relativamente facile imporre parole nuove, è difficilissimo innovare nell’ortografia o nella grammatica. Inoltre, le lingue, riflettendo fasi anche arcaiche di cultura, prediligono il maschile come genere-base onnicomprensivo. Come fece notare Alain Rey, compianto decano dei lessicografi francesi, “le lingue sono ovviamente machiste”: la giraffa può esser maschio e la poltrona avere un nome femminile pur non essendo una signora. Siccome le tracce di queste concezioni sono innumerevoli, per fare pulizia bisognerebbe smontare le lingue pezzo a pezzo. E poi, basterà un fantasioso segno grafico (non pronunciabile) a rendere pari la posizione dell’uomo e della donna? E i trans non avranno anche loro diritto a un posto in grammatica e in ortografia?
Io non mi preoccuperei del fatto che le lingue prediligano il maschile come genere-base, ma piuttosto del modo in cui sono costruiti i discorsi sulle donne a confronto con quelli sugli uomini. Perché di una ministra si può scrivere che è “carina e ben fatta” e di un ministro no? Chi avrebbe mai il coraggio, seguendo magari un G20, di scrivere qualcosa del genere di un uomo, per esempio di Mario Draghi? E se, prima che pareggiare le desinenze, si pensasse a uniformare i salari?
© Riproduzione riservata