Incastrò la pietra all’estremità del bastone. Era compiuta. La mente smise di ronzargli veloce, il lampo che l’aveva accecata lo abbandonò di colpo: era tutto lì, nella sua mano.

Lo soppesò. Il legno era forte e nodoso, la pietra scura e pesante, spingeva verso terra e premeva sul palmo attraverso il manico. Era un equilibrio difettoso; tendeva ad un’unica direzione, allo schiantarsi da qualche parte, verso il basso, con tutta la forza possibile, con la sua parte più violenta. Lo aveva intuito così, eppure lo sorprese.

L’uomo guardò i frutti posizionati sul macigno. Avevano il guscio duro, ed erano tre giorni che provava ad aprirli. Il sole della sera li illuminava debolmente.

La fame

Tre giorni di fame, tre giorni passati a lanciarli contro la pietra, senza risultato, con una sola mano. Si era rotto un dito e non poteva andare a caccia. Non reggeva un bastone appuntito, il pollice gridava di dolore nel lanciarlo. Senza la carne aveva ripiegato sui frutti, ma i frutti non li mangiava nessuno, perché non si aprivano. Nemmeno dopo tre giorni.

Le notti aveva sentito la pancia stropicciarsi, la saliva venire meno alla bocca. Poi si era illuminato.

Sollevò il suo bastone in alto, tenendolo stretto. Prese la mira baciato dal tramonto, scagliò il primo colpo. Con un rumore secco, il guscio durissimo si frammentò, esplose cedendo alla pietra, impotente, soggiogato. Si sparse un odore dolce, una carezza al naso. Il pollice rotto riposava tranquillo nella mano libera. Prima di gioire con la pancia, gli attraversò la fronte un grande sgomento: aveva aperto il frutto come si era immaginato.

Al suo ritorno la femmina nascose il bambino. Poi vide che aveva da mangiare, e allora gli venne incontro, distese la voce. Prese un pezzo e lo mise in bocca senza masticare, poi ne prese un altro, le venne da tossire. Abbassò lo sguardo alle sue mani, e d’improvviso si dimenticò della fame.

Scorse il bastone e la pietra, uniti assieme, sporgere da sotto i frutti, fra le sue dita. Li contemplò con vivida confusione, come un sogno caduto sul mondo.

«Che cos’è?», chiese.

E lui la guardò profondamente, confuso quanto lei, e non seppe rispondere nulla. Non ancora. La femmina perse d’interesse, prese altra frutta, e tornò dal loro bambino, ovunque lo avesse nascosto. Quella sera avevano mangiato.

Nella notte restava accanto al fuoco. Le ombre della grotta andavano e venivano, rincorse dalle fiamme, spinte fino al buio vicino. Ammirava la sua idea in controluce, rigirandosela fra le mani. Il lampo era svanito: rimaneva lo stupore, e agitatissime domande.

Qualcosa di nuovo

Che cos’è. Aveva ragione la femmina, lo aveva intuito subito. Non si trattava più di un bastone, né di una pietra, ma di un elemento unico e inseparabile, qualcosa di nuovo. Che cos’è. Lo aveva pensato per spaccare dei gusci, per non soffrire del suo pollice rotto, per non avere fame. Anche se questa era la verità, non gli procurava alcuna soddisfazione. Sentiva che c’era altro, che era altro.

Aveva creato qualcosa per sopravvivere, per avere la vita più facile, migliore. Il suo pensiero e la realtà si erano messi d’accordo, e avevano finito per specchiarsi. Reggeva in mano un’estensione della sua mente, un miracolo che sapeva parlare la sua lingua, che aveva la stessa anima. Scivolava docile sul dorso del palmo, brillava agli occhi come un segreto. Che cos’è.

Era una macchina, uno strumento; tanto legato a lui quanto lui a sé stesso. Voleva quello che voleva, e comunicava forza, violenza, il desiderio di abbattersi sul mondo.

La femmina e il bambino, coricati, dormivano poco distante da lui. Le loro belle teste, carezzate dal fuoco, lo invitarono per un momento. Represse la curiosità, si distese a terra con un brivido bellissimo. Gli parve di non aver pensato da solo.

Spaccagusci

Il giorno dopo colse altra frutta e ne ruppe i gusci. Mangiarono la mattina e anche il pomeriggio, e così sarebbe stato la sera. Nessuno raccoglieva quei frutti dagli alberi; romperli era un lavoro troppo impegnativo. Preferivano andare a caccia, o soffrire la fame, o mangiarsi tra di loro. Sul punto di aprire un altro guscio, notò che la pietra del suo strumento si era scheggiata. Forse, colpendo troppo forte, aveva rotto un lato rendendola acuminata. In quel punto era sottile e minacciosa. Vi passò un dito sopra, e la superficie si macchiò di sangue.

Il dolore lo accese come il giorno prima, fu colto da un altro lampo. Ancora, la macchina gli disse nuove cose; mostrò immagini di caccia, ferite aperte, tagli ben peggiori di quelli di un bastone appuntito. Gli suggerì divisioni eque, parti di selvaggina non strappate malamente, e poi sangue, teste rotte, guerre tra tribù, fendenti al collo e all’addome, mani amputate, gambe, braccia.

Si riprese con un profondo respiro. Per la prima volta, osservò il suo strumento e ne ebbe paura. Non temette quelle immagini, assolutamente no, ma la sensazione che a desiderare, che a fantasticare, non fosse più lui. Gli parve più che possibile.

La sera la femmina gli venne incontro per prendere il cibo. Teneva il bambino in braccio, attaccato al seno. La fame aveva smesso di preoccuparla, e così adesso non la preoccupava lui. Indicò con la mano la sua creazione.

«Spaccagusci», sorrise.

E lui la guardò confuso, l’unico fra loro, e non seppe che risponderle. Non era uno Spaccagusci, non era più solo questo.

La notte, si perse a guardare le loro belle teste. Li aveva a cuore.

Chi lo vuole? 

La macchina non era viva. Non aveva sentimenti, né cercava aria per respirare, non si feriva, né provava la fame. Eppure gli somigliava, e sapeva capirlo benissimo. Correggeva piano piano i suoi pensieri, s’insinuava nei colori dei sogni, e continuava a chiederlo, a citarsi: che cos’è.

Il manico fremeva nel suo palmo, s’impennava in aria, pareva fiutare nemici invisibili, nemici di sangue. Sembrava fosse lei a portarlo in giro; gli dava la direzione e il ritmo del passo.

Che cos’è. Era quello che voleva lui? Oppure quello che la macchina voleva? Chi stava davvero vivendo fra loro?

Per zittirsi, si diresse dentro agli alberi. Era un mattino sereno, e la luce passava lieve tra le fronde, dissipava l’umidità. Cercò il tronco più basso. Guardò i suoi rami, ne tastò la salute, poi si mise a colpirli con lo strumento. Uno, due, tre colpi: il primo ramo venne troncato di netto, con un taglio pulito. Uno, due: cadde ugualmente anche il secondo. Per fare la legna ci mettevano sempre molto tempo. Si aggrappavano alle estremità delle fronde e tiravano con forza, piegandoli fino a cedere, per poi girarli e staccarli del tutto. Spesso si facevano male, finivano per tagliarsi o rompersi un arto, avere il corpo pieno di schegge. Qualcuno c’era addirittura morto. Servivano otto braccia per spezzare i rami più grossi, poi almeno quattro gambe per portarli alle grotte, tutti interi. Cinque colpi: cadde a terra un altro legno.

Sudato, osservò quello che aveva compiuto. La macchina restava docile fra le dita della sua mano.

La domanda

Ecco un altro scopo, e questo lo aveva deciso da solo. L’umidità non se ne era ancora andata, ed aveva già ammucchiato legna per un giorno intero. Il suo pollice rotto non aveva fatto sforzi, placido al suo fianco, non aveva dato fitte di dolore. Avrebbe potuto fare a pezzi i rami per portarli più facilmente, in un paio di viaggi, e sarebbe stata ancora mattina. Lo strumento rompeva i gusci, lo strumento tagliava la legna. Questa era la sua idea, quello che voleva. Sentì di essere di nuovo il padrone, la vera anima tra i due, l’unico pensiero. Forse non c’era mai stato nessun altro. Non volle crederci.

Un rumore lo fece voltare, si rese conto di non essere da solo. Attorno a lui, disposti a semicerchio, gli altri uomini lo stavano osservando tra le frasche, da chissà quanto tempo. Portavano i bastoni appuntiti, i marchi della caccia sui volti ben svegli, pronti per sfruttare l’inizio del giorno. Si guardarono per un lungo istante, poi gli vennero vicino.

Contemplavano la macchina, confusi, come un sogno caduto sul mondo. Uno di loro vinse il timore: la indicò e glielo chiese.

«Che cos’è?».

E lui, con viso sereno, fu ben felice di rispondere.

Un mondo nuovo

Giorni dopo ripensò alla natura del suo genio, al lampo che aveva rischiarato la sua esistenza. La mente aveva piegato la realtà perché lui potesse vivere meglio. La mente, sotto forma di oggetto, lo aveva tentato per vie rischiose. Non aveva più dubbi: la macchina aveva un’anima, e seduceva ad ogni suo più terribile utilizzo. Distorceva lo scopo della sua creazione, così come la fantasia ci inganna sulle cose che ci circondano. Non bastava opporglisi: trovava ad ogni modo un appiglio nello spirito, un richiamo lontano, ma familiare, quanto noi stessi. Dall’incontro fra gli alberi, non era passato che un giorno per la prima testa rotta. Era arrivata la seconda, la terza, e poi le ferite al collo, all’addome, le braccia amputate, le gambe mozzate via di netto, le guerre tra tribù. Eppure lui gli aveva spiegato.

I rami degli alberi crescevano densi e spuntavano ovunque i loro frutti. La macchina aveva scelto il suo destino, nessuno oramai ignorava che cos’è. 

Seduto accanto al fuoco, nel buio della grotta, provava un grande rimorso. La femmina e il bambino, addormentati accanto a lui, lo consolavano un poco. Avevano delle belle teste.

L’unico orgoglio a sollevarlo era l’essere stato forte; la macchina non l’aveva vinto, non l’aveva cambiato. Il mondo purtroppo, sì.

© Bernardo Zannoni, 2023. Tutti i diritti riservati.


Questo racconto sarà letto da Bernardo Zannoni l’11 luglio a

"LETTERATURE Festival Internazionale di Roma"

XXII EDIZIONE

Cinque serate dal titolo "La memoria del mondo" allo Stadio Palatino

3,5,9,11,13 luglio 2023

Inizio evento ore 21.00

Non è necessaria la prenotazione

Per info e programma: 

www.culture.roma.it/festivaldelleletterature.

Bernardo Zannoni (1995) è nato e vive a Sarzana. I miei stupidi intenti (Sellerio 2021) è il suo primo romanzo. Con cui ha vinto il Premio Campiello 2022, il Premio Bagutta Opera Prima 2022, il Premio Salerno Letteratura 2022, il  Premio Severino Cesari 2022.

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