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George Sowden e Nathalie Du Pasquier vivono in Italia da oltre quarant’anni, amano l’Italia, si sentono italiani, hanno fatto la storia del Made in Italy, ma l’anonima macchina ministeriale liquida le loro richieste con lettere kafkiane che rimandano la questione.
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«Io non voglio lamentarmi, voglio solo dire che vorrei diventare italiano. Sono cinquant’anni che sono ospite, con tutti i doveri ma senza diritti. Io non voglio attaccare il ministro e nemmeno cambiare la politica italiana. Però è una questione politica…».
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«Tutta la mia vita è italiana. Ho scoperto tutto qui, sono cresciuta qui e non capisco perché non posso votare qui visto che vivo qui da 42 anni».
George Sowden ha gli occhi tersi e intensi di chi sa cosa trattenere e cosa lasciare che li attraversino. Lo sguardo è profondo e divertito al tempo stesso. Il ciuffo bianco che gli ricade sulla fronte e il viso simmetrico parlano di un uomo fortunato, che si è goduto e si gode ancora vita e talenti, spremendoli senza prosciugarsi, conservando, o forse aumentando, il suo fascino brit. Cammina con sicurezza mostrandomi il suo studio di designer milanese in zona Porta Nuova. Sowden è nato a Leeds quasi ottant’anni fa, ma è milanese dagli anni ’70. Qui ha lavorato e vissuto fino a oggi, in sodalizio sentimentale con Nathalie Du Pasquier, artista francese arrivata in Italia per caso e oggi molto stimata – reduce da una grande mostra al Macro di Roma.
Mentre mi siedo ammirando l’impeccabile stile operaio della mìse bluette di George, che mi serve subito un bicchiere d’acqua ghiacciata, ripenso al motivo che mi ha portato qui. George e Nathalie vorrebbero diventare italiani; sono a Milano da cinquant’anni, sono stati tra i fondatori del celebratissimo Memphis e George ha avuto una lunga collaborazione con Olivetti – ha certamente contribuito alla costruzione del mito del design italiano, del Made in Italy. Eppure, la mail che gli arriva quattro anni dopo aver presentato la richiesta per ottenere la cittadinanza italiana è disarmante nella sua glaciale abiezione burocratica. Rileggendola penso che a ferirli sia stato soprattutto il freddo esercizio dell’automatismo amministrativo, lo schiacciasassi che con lentissimo furore, pareggia le domande, appiattendole in un offensivo anonimato. Trascrivo quasi integralmente perché è illuminante. Il mittente è un indirizzo mail del Ministero degli Interni.
La concessione della cittadinanza è un atto di alta amministrazione e comporta una discrezionalità piena dell'Amministrazione, che deve valutare il rispetto dei requisiti di legge, nonché la capacità dell'interessato di integrarsi nel tessuto nazionale, osservandone i valori fondanti. L'elevatissimo numero di istanze proposte non consente sempre di assicurare il rispetto dei termini, anche perché occorre procedere alla verifica di requisiti complessi che di particolare rilievo per la sicurezza dello Stato. Frequentemente sono avvertite esigenze di accertamenti istruttori supplementari, per consentire il puntuale rispetto delle disposizioni di legge. La trattazione delle istanze avviene nel rispetto dell'ordine cronologico e dei vincoli ordinamentali e, ai fini di una proficua collaborazione, è importante che vi sia la partecipazione degli utenti nell'interesse dello svolgimento di un servizio più efficace. Pertanto, si auspica che i rapporti siano improntati al massimo rispetto reciproco e si chiede di conseguenza di evitare, per quanto possibile, l'avvio di meccanismi defatiganti di richiesta di notizie destinati ad aggravare ulteriormente la già complessa attività.
Quindi fondamentalmente non vogliono darvi la cittadinanza italiana, chiedo a George, una volta seduti intorno a un tavolo e attivato il registratore.
Non è che non vogliono darci la cittadinanza, hai visto la mail. Abbiamo presentato la domanda, sono passati quarantotto mesi, abbiamo chiesto notizie e la risposta è semplice: non rompeteci i coglioni, noi facciamo quello che vogliamo. Ecco cosa ci dicono. Peraltro, noi avremmo dovuto avere diritto ad una risposta entro 24 mesi, poi è arrivato Salvini al Ministero dell’Interno e i mesi sono diventati 48… Noi vogliamo diventare italiani, abbiamo voglia di sposarci da italiani. Sono 41 anni che siamo una coppia e io l’anno prossimo compio ottant’anni. Vorrei diventare italiano prima che sia troppo tardi. Poi dopo la Brexit ancora di più! Io voglio morire in Italia. Ho anche divorziato in Italia, nel ’74, uno tra i primi, eppure devo dimostrare allo Stato italiano che sono veramente divorziato! Ho tutti i documenti italiani del divorzio, perché appunto ho divorziato qui, ma ho dovuto tradurre il documento italiano in inglese, mandarlo al governo inglese, e poi il governo inglese dovrebbe comunicare al governo italiano che effettivamente io ho divorziato nel 1974 in Italia.
Ecco vedi sei qua del 1970 eppure non ti sei ancora abituato alla burocrazia italiana
Non mi sorprende minimamente. Avrei dovuto pensarci prima forse. È un nostro desiderio e secondo le regole a un cittadino europeo (cosa che da poco peraltro non sono più) bastano tre anni o cinque anni di residenza, che sono abbondantemente passati anche per Nathalie. Avremmo totalmente diritto, dovrebbe essere automatico, ci saranno tante persone che probabilmente chiedono quello che chiediamo noi… non abbiamo nemmeno voluto segnalare che siamo qui da cinquant’anni! Ci siamo messi in coda come tutti e com’è giusto che sia. E hai visto cosa ci hanno risposto.
È una storia piuttosto incredibile, anche perché entrambi avete contribuito in maniera sostanziale alla cultura del nostro paese e al famoso Made in Italy - tu in particolare sei stato parte dell’esplosione del design italiano. Penso che nulla come la mancanza di riconoscimento rispetto a ciò che si è fatto possa ferire un uomo.
Temo che al ministero dell’interno non importi nulla di tutto questo. Penso che il nostro fascicolo non sia stato neanche aperto. Probabilmente quella è una risposta identica a 1000 altre o chissà quante. Io non voglio lamentarmi, solo capire! Perché scrivono una lettera del genere? Ci hanno sostanzialmente detto di non disturbarli. Strano no? Non è nemmeno firmata.
È praticamente una lettera anonima e automatica che non fa fare una grandissima figura agli italiani diciamo così. Ma aldilà del tema burocratico, vuoi che venga riconosciuto il fatto che tu sia già italiano.
Ma io non posso dire che sono già italiano! Ho bisogno di qualcuno che me lo dica che mi dia il passaporto! In Italia c’è il Fascicolo del Cittadino, è fantastico, vai lì e c’è tutta la tua storia con lo Stato. Non dovrebbe bastare quello? Anche Nathalie vorrebbe diventare italiana, per gli stessi motivi. Lei è qui dal ‘79, quando ci siamo incontrati. Ovviamente abbiamo dovuto dimostrare che non siamo criminali, che abbiamo la residenza da almeno cinque anni, che abbiamo pagato regolarmente le tasse, ma niente da fare, non ci hanno nemmeno detto di aver ricevuto i documenti che gli abbiamo inviato. Io ho anche due figli e tre nipoti che sono italiani. Negli anni settanta chi nasceva in Italia e non rinunciava ad essere italiano lo era per diritto. A mio figlio arrivò una lettera che diceva “complimenti sei italiano!” Lo Ius soli! E poi il giorno dopo gli è arrivata la cartolina per il militare!
Beh, mi pare ottimo. Sei arrivato in Italia a inizio anni settanta e ci sei rimasto. Perché?
Sai gli inglesi sono molto pragmatici. Non la classe dirigente, non gli aristocratici; quelli non sono pragmatici sono mafiosi! La classe lavoratrice è pragmatica: i chiodi sono chiodi e i martelli sono martelli. Se parli di bellezza e di poesia gli inglesi ti guardano storto. Invece quando sono arrivato qui sono andato da Sottsass e ho finalmente imparato a vedere il lato poetico delle cose. Anche un bicchiere può avere una presenza poetica, è una cosa cui non avevo mai pensato.
Forse nella domanda avresti dovuto scrivere questo: che vuoi diventare italiano perché qui hai imparato la poesia. (A questo punto George ride forte e mi tira il tappo della bottiglia con il quale ha giocherellato mentre parlava.)
Ma anche se lo scrivevo, chi lo leggeva?
Beh adesso qualcuno leggerà stai sicuro.
Io non voglio lamentarmi, non sono neanche incazzato, voglio solo dire che vorrei diventare italiano. Per favore! Sono cinquant’anni che sono ospite, con tutti i doveri ma senza diritti. Io non voglio attaccare il ministro e nemmeno cambiare la politica italiana.
Però è una questione politica…
Io ho il fascicolo del cittadino!
Sì ma perché vi è venuto in mente solo quattro anni fa di chiedere la cittadinanza?
Perché i cittadini della Gran Bretagna avevano diritto di stare in Italia, penso di avere ancora diritto ma se lo stato dovesse decidere che i cittadini non UE devono uscire dal paese, che fine faccio? La follia innanzitutto è della Gran Bretagna, Boris Johnson ha raccontato consapevolmente delle bugie infernali. In Inghilterra non si parla molto di politica, anche per via del sistema elettorale. Johnson ha una maggioranza di 85 seggi. È praticamente inutile aprire il parlamento, Qui è diverso. Io credo che il sistema italiano sia veramente fantastico. Quando sono arrivato non lo capivo, poi ho compreso che alimenta la discussione e che costringe le diverse fazioni politiche a mettersi d’accordo.
È un modo molto positivo di guardare all’Italia; a me pare che la discussione e conseguenti accordi siano stati per molto tempo al ribasso. Torniamo a quando sei arrivato in Italia eri giovanissimo, 27 anni giusto?
Si era da poco passato il ‘68 e iniziavano gli anni di piombo. Non un decennio straordinario per il nostro paese eppure è stata un’esperienza molto interessante; per esempio la crisi petrolifera: niente benzina, niente automobile, tutti in bicicletta! Ho imparato tanto di una società completamente diversa. Quando sono arrivato non c’erano i voli low-cost, sono arrivato in treno. Mi ricordo che mi piaceva moltissimo la Fiat Multipla. Quando dovevo prendere un taxi aspettavo sempre che arrivasse quella. Un giorno chiacchieriamo io e il tassista e lui dice “Ma come si mangia male in Inghilterra!”. Come fa a saperlo che si mangia male? Ci sono stato, dice lui. Nel ‘43 e ‘44. Ero prigioniero di guerra! E ci credo che si mangia male, gli faccio io!
Parliamo della tua esperienza all’Olivetti.
Fu Sottsass a spedirmi all’Olivetti a disegnare il primo computer per loro. Allora io vado a Ivrea e incontro quelli del marketing, i progettisti, il reparto produzione. E nessuno sapeva cosa fosse il computer! C’erano straordinari ingegneri meccanici ma ancora pochissimi ingegneri elettronici. Ma fu un’esperienza meravigliosa. Non esistono più queste aziende che fanno tutto; se all’Olivetti serviva un bullone lo progettavano e lo realizzavano, non compravano niente. L’idea della azienda come comunità era davvero straordinaria, e sono felice di avere partecipato per così tanto tempo. Il mio compito era occuparmi dell’ergonomia di questa nuova macchina, renderla usabile e umana. Quindi la prima cosa che feci fu separare l’elettronica mettendola sotto il tavolo e poi progettare una tastiera e uno schermo. Una azienda danese venne da noi, volevano sviluppare un loro computer, io feci una presentazione e a loro piacque e così andai in Danimarca a concludere il progetto. La commessa fu grande, mi chiamarono i capi di Olivetti e mi dissero che avevo venduto 45 milioni di dollari di commessa. E così progettai un computer anche per i danesi.
L’Olivetti. Ho sempre l’impressione d’esser nato in tempi sbagliati, fortunato chi le ha viste, aziende così.
Sì, le aziende come Olivetti non esistono più. Noi non abbiamo più la forza, la mentalità, l’esperienza e nemmeno gli operai disposti a lavorare in condizioni di disciplina assoluta. Anche se a dire il vero lavorando con aziende come Foxcomm che produce gli I-phone e ha un milione e duecentomila dipendenti ritrovo per certi versi le dinamiche dell’organismo-fabbrica che mi ricorda l’Olivetti. Così quando l’industria è andata via dall’Europa io ho seguito l’industria e ho iniziato a lavorare con i cinesi, dall’Italia. Siamo completamente dipendenti dai cinesi. Pensa solo al fatto che in Europa nessuno produce più lampadine, una cosa semplice. Se i cinesi dovessero decidere di non venderci più lampadine rimarremmo totalmente al buio.
Sei sicuro che non vuoi un passaporto cinese anziché italiano?
No, no, io voglio quello italiano! Nathalie anche ti direbbe che lei vuole diventare italiana, perché deve tutto il suo successo all’Italia. Quando l’ho incontrata aveva 22 anni ed era una bellissima ragazza che distribuiva volantini pubblicitari in Galleria Vittorio Emanuele. Ma aveva un talento istintivo e questo paese è molto aperto a persone come noi, perché l’Italia ha la capacità di capire la bellezza. Se io avessi incontrato Nathalie in Inghilterra non avremmo fatto la stessa vita. Questo mi basta per voler essere italiano.
Ma perché non la chiamiamo al telefono e sentiamo cosa dice lei, propongo. In un attimo arriva la sua voce appassionata e colorata come i suoi lavori, che parte all’attacco
Tutta la mia vita è italiana. Io mi sento italiana. Ho scoperto tutto qui, sono cresciuta qui e non capisco perché non posso votare qui visto che vivo qui da 42 anni. In fin dei conti, molto semplicemente amo la cultura italiana.
E questo dovrebbe bastare in effetti, ma fammi capire di più delle motivazioni intellettuali e di quello che la risposta del Ministero dice sull’Italia e sul nostro tessuto politico e socio-culturale. Siamo un paese che si lamenta del fatto che i migliori di noi vanno all’estero e quando ci sono persone come voi che vogliono fare il percorso inverso non è disposto a riconoscere loro i propri diritti e ad accoglierli. Non siamo più un paese accogliente – dai poveri naufraghi che cercano di salvare la pelle fino a intellettuali che hanno vissuto e lavorato qui per cinquant’anni. Siamo diventati un paese chiuso e spesso crudele…
Io non so se posso dire di partecipare al Made in Italy, forse posso dirlo perché tutto quello che faccio lo faccio in Italia. Ho lavorato anch’io per Memphis, ho lavorato per un’azienda di mattonelle, ho lavorato un po’ con la moda ma io faccio principalmente una vita molto individualista, lavoro in studio, dipendo quadri che a volte vendo in Italia a volte altrove. Ma sono italiana! Quest’anno sono stata molto felice della mostra che ho potuto fare al Macro, è una specie di piccolo monumento a tutto quello che ho fatto qui, che poi è tutta la mia vita, grazie alle persone e alla cultura italiane.
Ma tu perché sei venuta in Italia?
Per fare la ragazza alla pari. Un motivo molto culturale, come vedi. Ho avuto un’occasione, è stato per caso. Avevo voglia di andar via dalla Francia e quindi sono partita. Mi è piaciuta subito molto l’Italia, sono stata prima a Roma in una famiglia che è stata molto accogliente con me, poi mi sono resa conto che avendo voglia di disegnare per lavorare sarebbe stato più giusto venire a Milano, dove c’era l’editoria, la moda… e in effetti a Milano ho trovato subito la mia strada professionale, grazie a George e ad altre persone che ho incontrato. In Francia se non sei laureata all’Accademia, se vieni dalla provincia, non esisti. Se fossi rimasta in Francia forse sarei diventata una tossicodipendente. In Italia invece ho trovato qualcosa da fare di più interessante.
Oggi è ancora così? L’Italia è ancora così aperta e piena di opportunità?
Io vedo giovani di tutta Europa che vengono qui e riescono a iniziare a lavorare, anche facendo piccole cose. In Italia c’è un tessuto di competenze artigianali e imprenditoriali che si mette a disposizione dei giovani artisti. Puoi collaborare con aziende ambiziose, in piena libertà. In Francia non succede, te lo assicuro. C’è un’azienda, Mutina, che fa mattonelle. Mi hanno cercata, mi hanno chiesto di fare delle piccole opere d’arte e poi da lì abbiamo cominciato a lavorare insieme. Sono in tre a decidere, è tutto molto bello e facile. Due riunioni per decidere cosa fare, poi si va in trattoria e si fanno le cose. Questa è l’Italia! La verità è che ne George ne io ci sentiamo di appartenere ai nostri paesi di origine, il nostro cuore è italiano
Beh, vediamo come va a finire, quando pubblichiamo quest’articolo magari succede qualcosa…
Sì. Al massimo ci arrestano.
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