Hostia presenta lo scrittore come vittima di una cultura omologante che lui ha osato criticare in modo radicale. La sua morte non è un fatto archiviato, ma una ferita aperta che non smette di sanguinare
- Hostia è il titolo del dipinto di Verlato e anche dell’intero progetto espositivo. Un titolo impregnato di echi e di richiami. A Ostia Pasolini era morto; ma “hostia” in latino indica vittima sacrificale, come anche Cristo che nell’ostia dell’Eucarestia offre il suo corpo.
- L’opera totale di Verlato fa leva su due strategie che agiscono in simultanea e operano continue convergenze, una narrativa e una simbolica. La strategia narrativa si alimenta di una spettacolarità e di un’icasticità neocaravaggesca.
-
Con l’ultima delle quattro grandi tele la narrazione si sposta su un livello più esplicitamente mitologico: Pasolini si riconosceva nella figura del grande drammaturgo elisabettiano, Christopher Marlowe, morto assassinato. Verlato sposta la scena in una città di porto inglese del Seicento, e inscena il delitto avvenuto al tavolo di una locanda, dove la vittima assume le fattezze dello stesso Pasolini.
Cade dall’alto il corpo di Pier Paolo Pasolini, come quello di un angelo sconfitto o forse abbattuto non da Dio, ma da un potere che pretende di sostituirsi a Dio.
È quel potere che ha preso possesso anche del cielo, come si evince dai personaggi che si affacciano dall’oculo aperto là in alto. L’immagine è ben nota.
È popolare perché domina un grande muro di Tor Pignattara, il quartiere di Roma con cui Pasolini aveva avuto un legame profondo e da dove venivano Franco e Sandro Citti, i due fratelli che avevano spalancato a lui, emigrato dal nord, la meravigliosa, straziante bellezza della romanità.
Da quel murales di Tor Pignattara era partito nel 2015 il viaggio di Nicola Verlato dentro la mitologia pasoliniana. Un viaggio che ora è approdato negli spazi fantastici delle terme di Diocleziano (fino al 12 giugno).
Ritroviamo l’immagine del murales su una grande tela di tre metri, epicentro di questa mostra/installazione che Verlato ha immaginato come una Gesamtkunstwerk, un’opera totale. Pasolini cade, ma cadendo paradossalmente si sottrae ai suoi aggressori; lascia un inferno di violenza e di odio testimoniato dal grande fregio che riflette la disperata condizione dell’umanità.
Sta planando in un Ade che custodisce il sogno di sé bambino nelle braccia della madre, protetto da due numi tutelari come Petrarca e Ezra Pound. Hostia è il titolo di questo dipinto di Verlato e anche dell’intero progetto espositivo.
Un titolo impregnato di echi e di richiami. A Ostia Pasolini era morto; Ostia è anche il titolo di una sceneggiatura scritta con Sergio Citti che nel 1970 era diventato film con la regia dello stesso Citti: la trama si concludeva con un delitto tra fratelli. Ma “hostia” in latino indica vittima sacrificale, come anche Cristo che nell’ostia dell’Eucarestia offre il suo corpo.
Mitologia disperata
La struttura narrativa di questa grande pala di Verlato ci consegna un Pasolini sottratto dal piccolo cabotaggio delle celebrazioni e di un’apologetica che lascia fuori dalla porta lo scandalo.
Siamo di fronte a un Pasolini riletto nella chiave di una mitologia, eroica e insieme disperata. Del resto la “caduta” è una condizione che Pasolini sentiva assolutamente sua, come aveva confessato in quella lettera scritta nel 1964 dopo aver girato il Vangelo secondo Matteo, a don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Cristiana: «Io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa».
Ogni mitologia per attecchire ha bisogno di un linguaggio che la renda impattante e credibile. Verlato prende la strada di una pittura che sembra strappare al cinema l’energia icastica delle sequenze epiche: lavora sul nitore delle forme, bloccandole ogni volta nel cuore dell’azione.
Poi agisce con le luci, caricandole di una tensione che sfiora lo spasimo. L’istante sembra così dilatarsi fin quasi a esplodere in tutta la sua carica drammatica ed emblematica. Verlato sembra mettere in atto quello che l’occhio di Pasolini intercettava nella pittura di Caravaggio, come giustamente ricorda Lorenzo Canova nell’introduzione al volume pubblicato per l’occasione.
Pasolini coglieva «quel diaframma che traspone le cose dipinte in un universo separato… Ciò che mi entusiasma è la terza invenzione del Caravaggio: cioè il diaframma luminoso che fa delle sue figure delle figure separate, artificiali, come riflesse in uno specchio cosmico».
Caduta nel suo accadere
L’opera totale di Verlato fa leva su due strategie che agiscono in simultanea e operano continue convergenze, una narrativa e una simbolica. La strategia narrativa si alimenta di una spettacolarità e di un’icasticità neocaravaggesca.
Prendiamo la scena del delitto, sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia su cui è incentrato questo dipinto di grandi dimensioni: la figura dello scrittore a torso nudo e quella del suo amante di quella notte, Pino Pelosi, sono bersagliati dai fari della Giulietta.
La loro caduta richiama quella dell’astante che assiste al Martirio di San Matteo di Caravaggio: come in quel caso siamo di fronte ad una caduta colta nel suo accadere, con i corpi quasi sospesi un filo sopra il suolo.
Verlato lavora strutturando le immagini attraverso simulazioni virtuali; quasi ci si dimentica di essere davanti a un fatto pittorico, tanto prevale l’effetto teatrale di questa scatola scenica, quasi ci trovassimo davanti ad un’installazione di Edward Keinholz, come Five Cars Stud.
L’impronta di Caravaggio emerge volutamente nella scena del ritrovamento del corpo di Pasolini, che ricalca, introducendo variazioni assolutamente contemporanee, il capolavoro siracusano del Seppellimento di Santa Lucia.
Qui il corpo dello scrittore non è, come quello di Lucia, appoggiato sulla nuda terra, ma è disteso, riverso su una barella. Intorno Verlato schiera una platea di personaggi affettivamente decisivi per Pasolini. Ci sono Maria Callas, Sergio Citti, Anna Magnani, Ettore Garofalo.
Inginocchiata, si riconoscono le fattezze della madre Susanna, straziata dal dolore, come una novella Maria davanti al corpo del Figlio. Torna anche Ezra Pound nella funzione solenne del vescovo benedicente; e compare Orson Welles, che Pasolini aveva scelto come alter ego protagonista della Ricotta.
Immagine di scena
Ed è a questo punto che realtà e finzione finiscono con il sovrapporsi: Welles si atteggia da regista, dietro di lui i riflettori, accesi presumibilmente dalle forze dell’ordine, diventano quelli di un set cinematografico.
C’è anche un cameramen in primo piano, a cui Verlato assegna le sue stesse fattezze. Così il quadro sviluppa un secondo piano di lettura imprevisto, quasi si trattasse di una concitata immagine di scena del film che Pasolini stesso avrebbe girato sulla sua morte.
Con l’ultima delle quattro grandi tele la narrazione si sposta su un livello più esplicitamente mitologico: Pasolini si riconosceva nella figura del grande drammaturgo elisabettiano, Christopher Marlowe, morto assassinato per mano di un amico con una coltellata negli occhi.
Verlato sposta la scena in una città di porto inglese del Seicento, e inscena il delitto avvenuto al tavolo di una locanda, dove la vittima assume le fattezze dello stesso Pasolini. La strategia simbolica a questo punto si fa molto chiara: lo scrittore è stato la vittima sacrificale di una cultura omologante che lui ha osato criticare in modo radicale.
Ma la sua morte non è un fatto archiviato; al contrario è una ferita aperta nella coscienza collettiva e come tale continua ad agire, a inquietare, a “cadere” tra di noi come una presenza non cancellabile. Uno scandaloso eroe con il quale è impossibile non fare i conti.
© Riproduzione riservata