Si inseguono i sogni e talvolta, proprio quando sembrano ormai persi capita invece che si realizzino. Perché in fondo la vera chiave del successo è una sola e apre alla consapevolezza per cui se vuoi vincere qualcosa devi accettare il rischio di perderla. È la coscienza di questa verità il sottile confine che separa il desiderio dall’ossessione. Che sia una gara, una sfida, un amore, è quando finalmente abbandoni la dannata tentazione di controllare l’imprevedibile e dominare il futuro, che la vita diventa armonia, l’impossibile diventa possibile, la fatica diventa gioia.

Però bisogna saper riconoscere il desiderio puro e non è per nulla semplice nella moderna epoca dell’apparenza e dei bisogni indotti che tende a disallineare ciò che si sente da ciò che conviene (deve) così come a confondere le suggestioni dell’ego con le aspirazioni di crescita personale. Il desiderio puro è l’impulso per superare i limiti, per uscire dalla trappola della zona confort, per resistere alla tentazione della routine. Il desiderio puro non ti deve portare altro che se stesso, perché il successo lo hai già ricevuto in dono nel momento stesso in cui lo hai sentito germogliare dentro di te e ti ha dato la forza per lavorare al massimo ogni giorno, per diventare il miglior te stesso che quel desiderio ti fa sognare di essere. E così non vivi proiettato nel futuro in attesa di una vittoria, la medaglia, il primato che potranno arrivare oppure no ma sei immerso e gratificato nel presente trasformando la quotidianità in un regalo continuo.

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Se sai vivere così non è mai troppo tardi. Perché i desideri non invecchiano con l’età, come diceva Battiato ma anzi sono proprio i desideri che non ti lasciano invecchiare. Perciò Velasco ieri, a 72 anni, è atterrato sull’unico alloro che ancora non aveva collezionato nella sua straordinaria carriera, l’oro olimpico. Ci è riuscito perché non gli mancava, perché non era un’ossessione, perché ha semplicemente continuato a fare quello che gli piace. Lo ha fatto con impegno, professionalità, cura ma motivato dal portare il suo contributo nella pallavolo e attraverso essa nello sport tutto, per continuare a imparare e alimentare quella passione infinita che lo nutre da sempre.

Non per la medaglia. Quello che lui sente è ciò che insegna: le motivazioni intrinseche battono le estrinseche, il percorso si fa spinti da dentro e non trascinati dal di fuori. Alle giocatrici azzurre, le più brave del mondo, ha ripetuto come un mantra l’importanza del “qui e ora, hic et nunc” del vivere il momento, con la soddisfazione di giocare il meglio che sappiamo: così il risultato sarà la naturale conseguenza della gioia con cui sapremo esprimere il nostro miglior gioco. E mentre lo ripeteva alla squadra lo diceva ai giornalisti e rimbalzava nelle case degli Italiani, nelle orecchie di tutti facendo quanto di più importante abbia bisogno lo sport italiano: liberarlo dalla cultura della vittoria, dell’incompresa felicità per un quarto posto, dall’incapacità di mettere a fuoco il miglioramento prima del podio e di saper riconoscere il valore dello sport come messaggio di crescita prima che di vanità.

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Le lacrime di gioia delle meravigliose pallavoliste fanno eco a quelle di dolore di Gianmarco Tamberi. Nei suoi anni di lavoro e sacrificio il desiderio di bissare l’oro olimpico è corso e ricorso, si è piegato e ripiegato diventando la ragione di vita. L’obiettivo è diventato il protagonista del percorso rischiando di svuotare di senso la quotidianità, di fargli perdere di vista se stesso e che alienarsi diventasse sinonimo di allenarsi. Perché desiderio e ossessione sono i due lati della medaglia e il filo che li separa è quell’equilibrio che trasforma la vita in oro, anche fuori dai Giochi.

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