All’interno del parco progettato da Ricci un evento a metà tra il rave e una performance d’arte contemporanea: il Lost Music Festival fugge da ogni cliché o classificazione. Punto di ritrovo di una nicchia di persone specifica
Stadi, arene estive, festival open air stanno diventando una risposta – contingentata nel tempo, tra giugno e luglio con qualche coda settembrina – alla dittatura dell’algoritmo di Spotify e YouTube, all’annuale ascolto liquido e solitario di gigabyte di musica senza enfasi alcuna se non quella di solerti certificazioni di dischi d’oro o platino da parte dei discografici, o di qualche balletto virale su TikTok. Poi finalmente arrivano i concerti dal vivo e con loro i primi exit poll, un biglietto un voto, certo a prezzo sempre più caro, ma – signora mia! – that’s entertainment.
Se ci siamo abituati da un pezzo alla community popolare di Vasco, se ancora fatichiamo, nonostante gli spiegoni di tanto giornalismo colto americano, a comprendere il culto di Taylor Swift o se San Siro esaurito per trapper come Sfera Ebbasta fa storcere il naso ai puristi della musica suonata, di certo un festival come quello andato in scena il primo weekend di luglio nell’esoterico Labirinto della Masone in provincia di Parma fugge da ogni cliché o classificazione.
Sulla carta il Lost è un festival di musica elettronica, ben inserito in un circuito europeo di amanti di un genere di ricerca e di nicchia – le due cose spesso coincidono – dove sonorità sperimentali e nomi poco noti ai più scandiscono un cartellone di tre giorni, un’esperienza immersiva dentro al più grande labirinto vegetale del mondo progettato dal grafico, editore e designer Franco Maria Ricci.
Ravers-bene
In pratica questa foresta di bambù è il punto di ritrovo, a metà tra il rave e una performance d’arte contemporanea, della nuova classe creativa alternativa, venti-trentenni in perenne recessione economica, partite Iva in studi grafici, case editrici, brand fashion, riviste online che, ancora indecisi se dire sì al “no future”, aprire una start up o un baretto di vini naturali, bazzicano Biennali e settimane della moda o del design cercando un linguaggio e un’estetica comune, inseguendo tutto quello che è hype per darsi un ritmo e un’identità, pena l’esclusione e la sindrome F.O.M.O. (Fear of Missing Out) ovvero l’ansia di perdersi qualcosa ed essere tagliati fuori, marginalizzati.
Il suffisso “-core” è quello più usato dai frequentatori del Lost e identifica un trend appartenente a una nicchia di persone ben specifica e basato su un’estetica definita: l’abbigliamento di questi ravers-bene – che provengono dalla Milano-bene, dalla Roma-bene o dalla ricca provincia – è gorpcore, ovvero quello del campeggiatore chic, che mette costose Salomon da trekking, sandali Teva, pantaloncini tecnici di brand giapponesi e marsupi da alpinismo estremo, magari associandoli a dettagli fricchettoni come collanine e parei (in una continuità solo teorica tra il festival di Re Nudo e quelli techno), orecchie da elfo come Grimes (musicista ed ex compagna di Elon Musk), sopracciglia decolorate come Kim Kardashian o cerotti sui capezzoli al posto del bikini come la Bianca Censori che gira con Kanye West; la musica invece è spesso hard-core, non solo nei suoni, ma nelle intenzioni.
Lo si capisce già dalla prima sera con il set degli Amnesia Scanner, duo di culto finlandese trapiantato a Berlino, e citato come esponente musicale dell’accelerazionismo, «teoria politica secondo cui si può giungere al superamento del capitalismo accelerando, anziché contrastando, i processi che lo caratterizzano» cosi dice Treccani.
Già, la saggistica radicale riempie gli zainetti tecnici dei ragazzi del festival: Mark Fisher, Nick Land, Donna Haraway, Judith Butler e i saggi pubblicati in Inghilterra da Verso Books e in Italia da Not e Timeo sono la mappa per decifrare un mondo in cui il rapporto tra uomo e macchine, capitale e consumo è in perenne divenire, l’apocalisse è vicina e nel frattempo si balla, stando alla larga da tutto quello che è pop, alzando il livello e i bpm, battiti per minuto, fino a una sorta di trance.
Certo lo stato di alterazione indotto dalle droghe fa parte del pacchetto, senza moralismi.
Lunghe giornate
Le giornate sono lunghe, finiscono all’alba stravaccati nelle tende del campeggio ai margini del labirinto e iniziano in tarda mattinata con dj set di musica d’ambiente, ma non immaginatevi ritmi lounge da sala massaggi, l’esplorazione è sonora, artistica, e sociologica: sabato alle undici suona Neo Geodesia, nome d’arte di Saphy Vong, elegante franco cambogiano nato in campo profughi thailandese dopo che i suoi genitori erano fuggiti dai Khmer rossi e cresciuto alla periferia di Nancy.
La sua musica mixa l’elettronica ai suoni cambogiani dei nastri e dei video piratati dai suoi genitori come pop Khmer, karaoke, canti dei monaci. Poco dopo, su un altro palco, purificato con l’accensione di incensi e un rito magico con un bastone che ricorda, perdonate la volgarità, i cerchi nel grano di Ennio Doris nello spot Mediolanum, suona Damsel Elysium, artista e polistrumentista che Vogue ha definito «l’artista sonora sperimentale più elegante di Londra», ha collaborato con la Tate e con Gucci, brillante esempio di come avanguardia musicale, neo spiritualità, borsette e arte contemporanea vadano oggi a braccetto.
A seguire il bellissimo set della newyorkese James K, una che si è formata all’università sui testi della Butler e della Haraway e che, oltre al sofisticato trip hop che ha fatto ascoltare al festival, ha scritto la performance Elektra, ispirata alla traduzione di Anne Carson dell’Elettra di Sofocle e al suo saggio The Gender of Sound. In alternanza a questi momenti più chill, sempre sostenuti da un solido background concettuale e culturale, c’è il ballo: dai suoni post rave di Gabber Eleganza, progetto di Alberto Guerrini nato da un blog e diventato etichetta musicale e linea di abbigliamento (ha disegnato la sua collezione con Alexander McQueen), fino a Ojoo, dj marocchina ora di base a Bruxelles.
Artigianato e futurismo
Ricerca, globalismo attento all’innovazione del folklore, sperimentazione, artigianato e futurismo: sono alcune delle caratteristiche di queste mondo iperconnesso ed esclusivo che è l’elettronica 3.0, colonna sonora sia di passerelle della moda che di party selvaggi nella natura, nicchia e mainstream allo stesso tempo. Non è un caso che il pop più vivace guardi a loro per innovarsi, non solo all’estero dove artisti come Bjork li chiamano per produzioni e remixes: qualche settimana fa Fedez ha postato nelle sue stories video in cui si mostrava in studio di registrazione insieme a Lorenzo Senni, piccola celebrità per quelli del Lost, cesenate paladino di una futuristica techno trance che ha incuriosito pure la storica etichetta Warp, quella di Aphex Twin per intenderci.
Il pubblico del Lost indossa occhiali da sole giorno e notte e quindi non si capisce bene se sia preoccupato che questa bolla di happy few possa diventare per molti, al rischio di snaturarsi, o se ne sia entusiasta intravedendone possibilità di guadagno e carriera, come i pionieri della corsa all’oro. Certo è che, come il fratello maggiore (per numeri e storia) Club To Club, festival torinese e internazionale, anche il Lost è diventato un appuntamento imperdibile per quella comunità che dopo un lungo inverno dietro ai laptop a inseguire ambizioni e pagare bollette, ora può finalmente godersela in un villaggio vacanze a sua misura, dove non è un trauma passare dal loft nel quartiere gentrificato alla tenda di Decathlon.
Dormire non è una priorità, e nemmeno il cibo (il camioncino degli hamburger è molto più affollato del chiosco vegano, amen), quello che conta è creare – come dice il curatore del festival Luca Giudici – «un momento e uno spazio di decompressione dove riesci effettivamente ad allontanarti da tutto ciò che hai attorno, per proiettarti in una contesto naturale». Detta così potrebbe sembrare la pubblicità di una Spa della classe creativa, ma rende bene l’idea.
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