- Cos’è quel meccanismo che ci spinge ad affezionarci, a guardare uno show più di una volta? Perché c’è gente che fa rewatch annuali di Una mamma per amica o Friends?
- Nella televisione contemporanea mancano prodotti pop che siano onesti, soprattutto sul versante leggerezza; commedie seriali che non siano cretine, o “ironicamente dementi”
- Per fortuna è arrivato Ted Lasso a salvarci da quelle serie pretendevano di essere intelligenti solo perché piene di materiale cupo, o quelle trash che ci trollavano con ultraviolenza improbabile
Non ho intenzione di privarvi di uno dei pochissimi piaceri televisivi degli ultimi anni; intendo quei piaceri puri e senza obbligo di analisi sociologica, arguzia interpretativa, capacità di capire la satira cupa e di affezionarsi a personaggi che sono innegabilmente dei pezzi di merda. Quindi non farò spoiler: potete leggere quest’articolo anche se – beati voi – non avete ancora visto Ted Lasso.
Vorrei fare un ragionamento sulla televisione, ma anche dare una legittimità a qualcosa che tutti noi proviamo: cos’è quel meccanismo che ci spinge ad affezionarci, a guardare uno show più di una volta? Conosco gente che una volta all’anno riguarda per intero (si dice “fare un rewatch”) Una mamma per amica, o Friends. Non è per nostalgia, credo, che si riguarda Una mamma per amica, che costumi a parte non è legato in nessun modo al periodo storico in cui è andato in onda, ma per mancanza di qualcosa di fondamentale nella televisione contemporanea.
Alto/basso
Lasciamo da parte per ora la televisione per cui paghiamo il canone, ma pensiamo a quella per cui ci facciamo gli abbonamenti mensili, che poi ci scordiamo e lasciamo attivi anche quando non c’è niente da vedere: Netflix, Prime video, Apple tv, Disney +, Sky/Now. A un certo punto la produzione su queste piattaforme ha cominciato a dividersi in due macro-filoni: da una parte le serie “intelligenti”, (o che volevano dare l’idea di essere intelligenti ma che spesso non lo erano) accompagnate da una grandissima produzione di “critica” televisiva tematica che analizzava i viaggi dell’eroe, dell’eroina, il messaggio, i tropi.
Dall’altra parte, le cazzate. A queste cazzate non chiedevamo niente, neanche un minimo livello di decenza, e infatti si parla di trash, una parola che è stata anche nobilitata, forse a partire da Trash Italiano, la pagina Instagram che amava molto i programmi Mediaset (fino a che Mediaset, presumibilmente tramite diffida, l’ha invitata ad amarli un po’ di meno).
Alle cazzate che avevano un successo più mastodontico si attaccava comunque un coté di rispettabilità (Emily in Paris), almeno una piccola nota sull’empowerment femminile (The Queen’s Gambit), in quel continuo processo di commercializzazione del femminismo a cui ormai siamo abituati. Quindi si ricreava nella cultura televisiva quella polarizzazione alto/basso che è tradizionale nella nostra cultura libraria, e che tanto bene ci ha fatto (ci ha fatto malissimo).
Ho studiato teoria della letteratura con Vittorio Spinazzola, critico letterario e storico del cinema, e sono quindi fortemente influenzata dalla corrente della critica milanese (Giovanna Rosa, Gianni Turchetta, Luca Clerici), che in sintesi dice: tutta la produzione culturale è espressione di un bisogno sociale, quindi non esiste letteratura alta o bassa, anche alla produzione popolare (pop) bisogna guardare con attenzione. Senza uno sguardo al pop, se manca una mediazione culturale da parte chi questi prodotti popolari li pubblica, li finanzia, li commenta (gli editori, gli intellettuali), allora al grande pubblico si lascia qualcosa che lui chiamava “paraletteratura”, prodotti intenzionalmente privi di originalità. Che è un’operazione disonesta. Oggi diremmo: trash.
Una frase di Spinazzola riportata su Wikipedia è: «Il film veramente inutile è quello che non sa rivolgersi né all’intellettuale né al popolo ma cerca, più o meno furbescamente, di blandire sia l’uno che l’altro». Suona familiare? Perché a me questo «furbescamente blandire l’uno e l’altro» sembra praticamente il mission statement di Netflix.
Pop onesto
Ecco. Nella televisione contemporanea mancano prodotti pop che siano onesti, soprattutto sul versante leggerezza; commedie seriali che non siano cretine, o “ironicamente dementi”. Mancano talmente tanto che non ci accorgiamo neanche quando ce li troviamo davanti, come Ted Lasso, che è arrivato a salvarci da quelle serie pretendevano di essere intelligenti solo perché, cit. anonima, “ci stracciavano i coglioni” con materiale cupo, o quelle trash che ci trollavano con ultraviolenza improbabile (non serve Nanni Moretti per criticare You).
Ted Lasso l’hanno guardato in moltissimi e capito in pochi. Non è solo uno show gentile, che porta in scena dei buoni sentimenti generici di cui avevamo – abbiamo! – bisogno nell’onda post pandemica. Ted Lasso ha fatto uno scarto laterale rispetto a tutta la produzione seriale degli ultimi cinque anni, ha proposto qualcosa di nuovo e coraggioso. Per prima cosa, ha rinunciato a fare la morale. In un mare di serie che significano qualcosa – temi identitari messi in evidenza, token vari – ha rinunciato a spiegare sé stesso e ha rischiato di non essere preso sul serio.
Un allenatore di football americano viene chiamato ad allenare una squadra di calcio della Premier League, l’immaginario ma molto verosimile AFC Richmond. Ted è un tipo carino e gentile, mentre i giocatori di calcio sono… be’, giocatori di calcio. Tranne che, in Ted Lasso, tutti i personaggi sono fondamentalmente esseri umani decenti.
L’ottimismo e i luoghi
La forza dello show, quello che ci fa sentire bene mentre la guardiamo, è proprio questa: che non è poi così irrealistico vedere delle persone comportarsi da brave persone. Abbiamo talmente feticizzato il male, il cattivo, il violento, l’antipatico – perché con questo materiale è più facile sembrare intelligenti – che ci siamo dimenticati che dalla tv vogliamo anche la complessità del bene, uno specchio della nostra parte buona e ragionevole. Ted Lasso è uno show molto intelligente.
Ci mostra una società come potrebbe essere la nostra fra non così tanto tempo, anche solo cinque anni, se smettessimo di complicarci la vita con misoginia, razzismo, omofobia, violenza gratuita. Se Ted Lasso dice qualcosa – e non lo dice, non esplicitamente – sarebbe una cosa come: smettetela di fare resistenza. Il mondo migliorerà, è in continuo miglioramento. Basta non opporsi.
Intanto, le basi: Ted Lasso ha creato un luogo. Richmond è un luogo reale, un quartiere di Londra che anche nella realtà ha un elemento favolistico: è un quartiere verde lontano dal centro, sul fiume, con i pub migliori di tutta Londra, quei pub che sono aggregatori sociali più efficaci delle piazze (puoi leggere, guardare la tv, parlare con gli altri, stare e basta). In un pub di Richmond ci puoi anche passare cinque ore fino a sentire la famosa campana dell’ultimo giro. Naturalmente nella realtà è un quartiere per ricchissimi, nella finzione sono pur sempre gli allenatori di serie A (o l’equivalente inglese) ad abitare in quelle piccole vie pittoresche con case strette e a più piani, dove ci sono le piccole pasticcerie e nella high street non c’è segno di Zara. Il pub, come nella realtà, è l’elemento democratico (ricordate Stars Hollow e il diner di Luke? La Vigata del Montalbano Rai? Le produzioni Rai questa cosa del luogo hanno saputo talvolta farla molto bene).
Brave persone
Poi ci sono i personaggi. Questo è uno show americano, prodotto da Apple, ma anche gli inglesi – che in media non l’hanno amato – riconoscono che nella Gran Bretagna di finzione di Ted Lasso «sono più le cose giuste di quelle sbagliate». Gli inglesi non l’hanno amato perché è molto difficile vedersi con gli occhi degli altri, che necessariamente semplificano. Eppure quella di Ted Lasso è la rappresentazione più significativa degli ultimi anni di una qualche idea di “Britannia”.
Culturalmente, la Gran Bretagna è in crisi, l’ultima cosa è stata Fleabag, che ha influenzato i linguaggi successivi incluso questo di Ted Lasso. I personaggi sono proprio quello che vogliamo vedere dal Regno Unito: un’idea di come fare le cose in un prossimo futuro. Quando la correttezza tornerà a incontrare ironia e sprezzatura. Hannah Weddingham, che interpreta la proprietaria del Richmond Rebecca, mette in scena un girl power soft, in linea con i tempi, mentre Keeley Jones dà voce all’ex-influencer che non deve neanche più dimostrare di non essere scema (Juno Temple). I personaggi maschili sono femministi non come virtù, ma come parte del pacchetto del non essere completamente scemi: e così Jamie Tartt, mancuniano e tamarro, cancella sempre video e foto intimi inviati dalle fidanzate, «especially cos I’m famous man».
Jason Sudeikis, già autore del Saturday night live e interprete della serie, ha deciso di concludere Ted Lasso in tre stagioni. Ci ha lasciato uno show a cui resteremo affezionati, e almeno un autore (Brett Goldstein) da cui aspettarsi cose nuove e una prosecuzione di questa linea di leggerezza intelligente, su cui Apple sta cercando di investire.
© Riproduzione riservata