- I francesi hanno trovato un simbolo per annunciare che l’arrivo è vicino, la flamme rouge, la fiamma rossa, inventata nel 1906. Vinse René Pottier, che sul Ballon d'Alsace diede tre quarti d’ora al secondo. Due giorni dopo aveva già un’ora sugli altri a metà gara, si fermò in un bar, gli portarono una bottiglia di vino e se la scolò quasi tutta.
- L’ultima flamme rouge è sugli Champs-Élysées. Le prime venti tappe le hanno corse a oltre 40 all’ora, quella finale è alla rovescia: si va piano, ci si gusta lo spettacolo, si saluta, si sfila a testa alta come reduci di una guerra vinta. Sulla moto, la lavagnetta che di solito indica ai fuggitivi il loro vantaggio, per una volta porta un messaggio diverso: Merci a vous les coureurs.
- La maglia gialla ce l’ha uno solo, ma gli altri sono comunque sopravvissuti, scampati alle cadute, alle rotonde, agli spartitraffico, agli animali che attraversano la strada, ai cretini armati di smartphone, alle discese bagnate, alle troppe salite.
Al rosso ci si ferma. I corridori no: vedono il rosso e di colpo sanno che hanno ancora quell’ultimo chilometro per rovesciare la tappa, per immaginarsi un finale diverso. Eternamente tentati dalla rivoluzione, i francesi hanno trovato un simbolo per quell’attimo di eterno, l’hanno chiamato flamme rouge.
Fiamma come il fuoco, rossa come la passione. Passi sotto quel triangolo di stoffa e sai che non c’è più molto tempo per fare qualcosa che rimarrà per sempre. Una tappa è come la vita: nei primi chilometri sei distratto, chiacchieri, ti guardi attorno, pensi che tanto c’è tempo, poi cominci ad accorgerti che tutti di fianco a te stanno aumentando la velocità e di colpo anche tu pedali più forte, se non stai attento va a finire che cadi, ti sembrava di avere tutta la strada del mondo e invece mancano soltanto venti, dieci, cinque chilometri al traguardo, l’ammiraglia si ferma, improvvisamente sei da solo, precipiti verso il traguardo. Vinci, più spesso perdi. Uno solo vince.
La genesi
Era il 1906 quando inventarono la flamme rouge. Era soltanto la quarta volta che si correva il Tour de France, famoso fin lì per gli imbrogli e i sabotaggi. Per boicottare la corsa la gente buttava chiodi per strada (lo fanno ancora, e sono passati più di cent’anni), quattro corridori li squalificarono perché erano saliti su un treno per fare prima (questo non lo fanno più).
Vinse René Pottier, che sul Ballon d'Alsace diede tre quarti d’ora al secondo. Da solo si annoiava: due giorni dopo aveva già un’ora sugli altri a metà gara, si fermò in un bar, gli portarono una bottiglia di vino e se la scolò quasi tutta. Quando vide passare il gruppo, un’ora dopo, rimontò in bici, li riprese e li batté in volata. L’anno dopo non era lì a difendere il suo titolo: si era suicidato quando gli avevano detto che la sua Marie si era trovata un amante mentre lui era a correre il Tour. Causa del decesso: chagrin d’amour.
L’ultima flamme rouge è sugli Champs-Élysées. Le prime venti tappe le hanno corse a oltre 40 all’ora, quella finale è alla rovescia: si va piano, ci si gusta lo spettacolo, si saluta, si sfila a testa alta come reduci di una guerra vinta. Sulla moto, la lavagnetta che di solito indica ai fuggitivi il loro vantaggio, per una volta porta un messaggio diverso: Merci a vous les coureurs.
I sopravvissuti
La maglia gialla ce l’ha uno solo, ma gli altri sono comunque sopravvissuti, scampati alle cadute, alle rotonde, agli spartitraffico, agli animali che attraversano la strada, ai cretini armati di smartphone, alle discese bagnate, alle troppe salite.
Sono arrivati alla fine e finalmente alzano la testa: hanno intravisto le coste selvagge dei Paesi Baschi, il buio dei Pirenei, i francesi a pois, le balle di paglia, i vulcani dell’Auvergne, i vigneti del Beaujolais, le seggioline da campeggio che si piegano dentro i tavolini, la neve sulle Alpi, i camper, tutti quei camper.
Ed eccoli finalmente nella luce di Parigi. Dovete capirli i corridori: per preparare il Tour si sono inflitti mesi di solitudine in altura, mangiando poco per essere più leggeri. Durante le tre settimane della corsa hanno dormito negli Ibis di periferia senz’aria condizionata, sognando baguette e pain-au-chocolat. Hanno trascorso i due giorni di riposo in villaggi immobili dove gli uomini fanno sera giocando a pétanque e le donne portano i calzettoni. E di colpo si trovano nello splendore di Parigi, dall’ammiraglia gli allungano calici riempiti di champagne mentre a bordo strada scorrono cinema, teatri, brasserie e McDonald’s.
Le immagini
La prima volta che il mondo ha visto il Tour dall’alto, l’Europa era sull’orlo del disastro. Era il 1939 e il quotidiano Paris-Soir inviò un aereo privato a sorvolare il gruppo, anticipando le immagini meravigliose che portano Parigi in tutto il mondo. Fino al 1967 il Tour finiva all'ex velodromo Parc des Princes, ma il ‘68 rivoluzionò anche questo: il traguardo passò al Cipale, la pista oggi intitolata a Jacques Anquetil, vincitore di cinque Boucle. Alla fine del ‘74 un famoso giornalista televisivo, Yves Mourousi, incontrò per caso Valéry Giscard d'Estaing al Salon du Cheval, dove il presidente era andato a veder gareggiare sua figlia Jacinte. «Monsieur le president, pensavo, e se facessimo arrivare il Tour sugli Champs-Élysées? Tutto il mondo vedrebbe il nostro stile». Giscard d'Estaing chiamò il ministro dell’Interno, che chiamò il Prefetto di Parigi, e l’idea diventò tradizione.
Il circuito finale
Superata la rotonda degli Champs-Élysées, dove Maria Antonietta passeggiava con le sue amiche per andare a lezione di musica, si svolta in rue Arsène-Houssaye: al civico 1 aveva il suo pied-à-terre Dodi Al-Fayed, e stava andando lì, in fuga dai fotografi che lo braccavano fuori dal Ritz, quando morì assieme a Lady Diana nel tunnel de l’Alma, nel 1997. Da lì a Place de la Concorde, dove una volta c’era la ghigliottina e adesso c’è l’obelisco, si prosegue con la Senna sulla droite e le Tuileries alla gauche. All’uscita dal tunnel che passa sotto i Giardini, i corridori svoltano per risalire Rue de Rivoli, dove lo shopping è troppo caro anche per chi il Tour lo vince. Dal 2013, la Boucle aggira anche l’Arc de Triomphe. Dal 2019 il gruppo in fila indiana attraversa i cortili di Napoleone sfiorando la piramide di vetro e ferro del Louvre.
Tanto la classifica non cambia, c’è una legge non scritta che vieta di attaccare l’ultimo giorno. Ci provò Eddy Merckx - chi se non lui - nel 1975, al primo anno degli Champs-Élysées: ma ormai era tardi, il Tour lo aveva vinto Bernard Thévenet. Due anni dopo un francese, Alain Meslet, uscì dal gruppo e vinse per 49 secondi: oggi, a 73 anni, dice che il ciclismo lo hanno rovinato le oreillettes, gli auricolari che permettono alle ammiraglie di controllare tutto, anche quando è il momento di riprendere la fuga per dare agli spettatori un ultimo brivido, la volata finale. La più desiderata dai velocisti: una vittoria sul viale più famoso del mondo vale una carriera.
Nel 2024 però, per la prima volta nella storia del Tour, l’ultima flamme rouge sarà mille chilometri più a sud, a Nizza, a distanza di sicurezza dalle Olimpiadi. Parigi ha mille modi di essere al centro del mondo.
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