Non escludo che a breve un’affermazione del genere venga bollata come antipatriottica e diventi in qualche modo perseguibile, ma la scuola di recitazione britannica non ha uguali nel mondo. Sarebbe bello importare in Italia qualche insegnante. Maggie Smith, con poche altre attrici della sua generazione, di questa tradizione è stata per sessant’anni buoni uno dei simboli più luminosi.

A mio personale giudizio, il più luminoso in assoluto. Ma a giudicare dalla collezione di onorificenze attribuitele dalla Corona britannica, anche la Royal Family nel corso degli anni deve averla pensata così. Per poco che valgano i premi, Dame Smith è stata uno dei rarissimi EGOT dello show business. È il riconoscimento simbolico riservato a chi ha vinto tutto, tra cinema, teatro e tv: Oscar, Grammy, Emmy e Tony Award. Nata nel 1934, è morta venerdì 27 a 89 anni, dopo aver reso immortale il più banale, comune e meno appariscente dei cognomi inglesi: Smith, appunto. Altre si sarebbero scelte subito un nome d’arte più appetitoso.

Praticamente non si ricorda prova d’attrice di questa signora che non meritasse l’Oscar, ivi compresa la sua spassosa prof Minerva McGranitt del franchise Harry Potter e per tacere della sublime Lady Violet Crawley di Downton Abbey, vera perla iconica della serie, dispensatrice di battute diventate di culto.

Una per tutte. A cena un "corpo estraneo”, lo scomodo erede della casata che prosaicamente lavora nei giorni feriali, parla di week end. Lo sguardo perplesso della contessa madre è indimenticabile: «Cos’è un week end?».

Paradossalmente a conquistarle i suoi due Oscar sono stati due film minori: La strana voglia di Jean di Ronald Neame nel 1970, come protagonista, e California Suite di Herbert Ross nel 1979, come non protagonista. Dimenticabilissimo il secondo, notevole il primo per l’estremo coraggio con cui Maggie Smith incarnava una insegnante filonazista e manipolatrice.

Gli attori britannici hanno sul resto del mondo quel vantaggio non indifferente che è il teatro scespiriano. Smith a venticinque anni era entrata a far parte dell’Old Vic e fino allo scioglimento della compagnia ne restò uno degli astri. Non a caso è stata la sua Desdemona nell’Othello del 1965, a fianco di Lawrence Olivier, a guadagnarle la prima candidatura all’Oscar.

Mai primadonna nella sua attività cinematografica, ha acceso sempre i riflettori su secondi ruoli che diventavano l’architrave stessa del film.

Cosa sarebbe Camera con vista, il suo James Ivory del 1985, senza la patetica Charlotte, parente povera e accompagnatrice di Helena Bonham Carter nel Grand Tour? Nelle signore d’altri tempi dei film in costume ha sempre dato il meglio di sé, cito per tutti Gosford Park di Robert Altman e Un tè con Mussolini di Zeffirelli.

Tra i pochissimi a riservarle un ruolo da protagonista è stato Nicholas Hytner, per uno dei suoi ultimi film, The Lady in the Van (2015), bizzarra storia di una homeless sui generis basata sul romanzo autobiografico di Alan Bennett. Ma se provate a ripassare mentalmente gli Hercule Poirot su grande schermo degli anni Settanta e Ottanta, come Assassinio sul Nilo e Delitto sotto il sole, scoprirete di ricordare soltanto le strepitose sottigliezze di Dame Maggie.

So che è più facile menzionare le sue prestazioni nel cinema mainstream, dallo Spielberg di Hook-Capitan Uncino ai Sister Act 1 e 2, ma varrebbe la pena di andarsi a cercare le meraviglie spremute per Agnieszka Holland in Il Giardino Segreto (1993) e Washington Square-L’Ereditiera (1997). I film letterari sono stati davvero la sua cup of tea, e il sense of humour la sua arma segreta.

Che meraviglia se è l’arte, soltanto l’arte, a rendere un volto non speciale indimenticabile e a consegnare alla storia il meno carismatico dei cognomi. Smith, appunto.

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