Uno dei mantra del politicamente e tecnologicamente corretto è la cosiddetta “innovazione”, alla quale i politici e i tecnologi assegnano una valenza quasi taumaturgica. Il tempio da cui emana questo mantra è il ministero per l’Innovazione tecnologica, introdotto dal secondo governo Berlusconi nel 2001, reintrodotto dal secondo governo Conte nel 2019, e confermato dal governo Draghi nel 2021. I grandi guru insediati in questo tempio sono stati negli anni Lucio Stanca di Forza Italia, Luigi Nicolais del Partito democratico, Renato Brunetta del Popolo delle libertà, Paola Pisano del Movimento 5 stelle e l’indipendente Vittorio Colao: tutti economisti, per la cronaca, eccetto il secondo, che è ingegnere.

Nei discorsi sulla tecnologia si dimenticano però in genere alcune ovvie considerazioni, che si potrebbero riassumere nelle seguenti “cinque leggi fondamentali dell’innovazione”. Primo, “innovazione” e “miglioramento” non sono sinonimi linguistici, perché si riferiscono a contesti diversi: il nuovo riguarda i fatti storici oggettivi, e il meglio i valori etici soggettivi. Secondo, “innovazione” e “miglioramento” non sono equivalenti logici, perché ogni miglioramento richiede un’innovazione, ma non ogni innovazione è un miglioramento. Terzo, l’innovazione è spesso un’illusione tecnologica, all’insegna del motto dell’ecclesiaste di re Salomone: «Non c’è niente di nuovo sotto il Sole». Quarto, l’innovazione è spesso un trasformismo politico, all’insegna del motto del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Quinto, l’innovazione è spesso un peggioramento sociale, perché in base al secondo principio della termodinamica, o anche solo alla legge di Murphy, ogni tecnologia finisce con l’essere usata nel peggior modo possibile.

I problemi dell’innovazione

Un rapido sguardo alla storia della cultura umana illustra e conferma la validità di queste leggi, sia localmente sia globalmente: cioè, sia per le piccole sia per le grandi innovazioni. A partire dalla più grande di tutte, che fu la scrittura: già Platone notava, nel Fedro, che a fianco dei suoi ovvi vantaggi c’erano anche altrettanto ovvi svantaggi, perché la registrazione esterna di dati e fatti rendeva obsoleta la loro memorizzazione interna e la atrofizzava. Un problema analogo si è ripresentato nel passaggio dal calcolo umano a quello meccanico, con il conseguente analfabetismo aritmetico prodotto dall’abuso costante di calcolatrici e calcolatori, descritto nel 1958 in maniera ironica da Isaac Asimov nel racconto di fantascienza Nove volte sette.

Anche la stampa, che pure ha permesso la diffusione capillare del sapere e la creazione della Galassia Gutenberg, come nel titolo dell’omonimo saggio di Marshall McLuhan del 1962, ha avuto effetti deleteri, che appaiono dispiegati come la coda di un pavone non solo in qualunque edicola, ma anche in qualunque libreria. In particolare, la diffusione superficiale della cultura ne ha abbassato in maniera drammatica la profondità, livellandola al basso e trasformando la scrittura in un’impresa commerciale e pubblicitaria, invece che culturale e intellettuale.

Nella scienza l’esempio archetipico di supposta innovazione è la cosiddetta rivoluzione copernicana, che pose il Sole al centro dell’universo, al posto della Terra. In realtà, come lo stesso Copernico riconobbe esplicitamente, il suo sistema non era nuovo: risaliva a un paio di millenni prima, ed era dovuto ad Aristarco. Ma, soprattutto, l’eliocentrismo non era neppure diverso dal geocentrismo: semplicemente, i due sistemi descrivevano in maniera equivalente il moto dei pianeti dai due diversi punti di osservazione della Terra e del Sole. Lo stesso Copernico mostrò esplicitamente come si poteva passare da un sistema all’altro, scambiando fra loro i deferenti con gli epicicli: in particolare, quando si descrive nel sistema copernicano il moto dei pianeti visto dalla Terra, e non dal Sole, si riottiene per forza di cose il sistema tolemaico.

Monumenti alla stupidità

La matematica introdusse nel Seicento due innovazioni epocali, che fornirono il linguaggio alla successiva rivoluzione scientifica: la geometria algebrica di Cartesio e il calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz. Entrambi questi strumenti permisero allora, e permettono anche ora, di trovare soluzioni quasi automatiche a moltissimi problemi geometrici e analitici. Ma fu lo stesso Newton a sottolineare con forza che quelle soluzioni, ottenute quasi alla cieca, permettevano e permettono soltanto di sapere che le cose stanno in un certo modo, ma non di capire perché: per questo egli scrisse una buona parte dei suoi monumentali Principia nel linguaggio geometrico degli antichi, senza usare l’algebra e l’analisi dei moderni.

La più tipica innovazione tecnologica prodotta dalla rivoluzione scientifica fu l’orologio, che non solo fornì una precisa misura del tempo, ma ispirò anche un modello di vita e di lavoro culminato nella perversione del cronometraggio taylorista e fordista, messo alla berlina da Charlie Chaplin in Tempi moderni. A sua volta, la più tipica innovazione tecnologica derivata dalla rivoluzione industriale fu il motore, dapprima a vapore e poi a scoppio, con il conseguente degrado ambientale ed energetico derivato dall’uso indiscriminato delle auto e del petrolio, che affligge tuttora le città industriali, ed è ormai esteso all’intero globo. Non meno devastante è stato l’impatto delle onde elettromagnetiche: in particolare, delle onde radio, che la potenza degli altoparlanti e la diffusione degli apparecchi radiotelevisivi hanno trasformato in una delle più capillari e ubique fonti di inquinamento sonoro e intellettuale del mondo intero. Altrettanto deleteria è stata l’innovazione della plastica, gloria del premio Nobel per la chimica Giulio Natta e dell’industria italiana: grazie al suo abuso il mondo è stato dapprima invaso, e poi sommerso, da rifiuti non degradabili e non riciclabili, che costituiranno nei secoli venturi un imperituro monumento alla stupidità umana.

Distruzione di massa

Il primo grande simbolo di innovazione scientifica nel Novecento è stata l’energia atomica, immediatamente usata nel 1945 nel modo più malvagio e inumano possibile: l’annientamento di 300mila persone in un solo istante, nel più efferato atto di terrorismo mai compiuto finora dall’uomo (statunitense, per la precisione). Naturalmente, nemmeno l’energia atomica era una novità: anzi, costituisce l’esempio più pertinente del citato motto dell’ecclesiaste, visto che è proprio il Sole la nostra fonte primaria di energia atomica, della quale noi rimandiamo lo sfruttamento al momento in cui avremo completamente depredato le riserve petrolifere dell’intero pianeta.

Le bombe atomiche forniscono un ovvio esempio della quinta legge dell’innovazione, ma non certo l’unico. Dagli specchi ustori di Archimede ai gas tossici del premio Nobel per la chimica Fritz Haber, l’innovazione è stata spesso ispirata e dettata dalla produzione di armi di distruzione di massa. Addirittura, secondo il premio Nobel per la pace Joseph Rotblatt, la maggioranza degli scienziati mondiali lavora attualmente a ricerche che sono direttamente o indirettamente collegate con gli armamenti.

Perle ai porci

Neppure il computer, che costituisce il secondo grande simbolo di innovazione scientifica del Novecento, si sottrae alle leggi dell’innovazione, e anzi le esemplifica in maniera paradigmatica. Anzitutto, perché la scoperta di Alan Turing nel 1936 era stata anticipata un secolo prima da Charles Babbage. Inoltre, perché le supposte innovazioni che vengono regolarmente strombazzate dai mercanti della Silicon Valley non possono modificare la potenza teorica di calcolo di una macchina che, per definizione, è in grado di calcolare tutto ciò che è calcolabile: gli unici miglioramenti possibili sono pratici, e riguardano prosaici aspetti quali le loro dimensioni, prestazioni e costi. Infine, anche il computer ha fin da subito illustrato la tendenza tipica della tecnologia, che è sostanzialmente di “fornire perle ai porci”.

Ma anche, a onor del vero, a coloro che “porci” non sarebbero: come i matematici, ai quali il computer offre sicuramente un ausilio ormai indispensabile, ma sottrae a volte la necessità di aguzzare l’ingegno.

Ad esempio, nel 1640 Fermat si imbatté nei numeri del tipo “(due alla due alla n) più uno”, e dopo aver osservato che i primi valori 3, 5, 17, 257 e 65.537 sono numeri primi, congetturò che lo fossero tutti. Il valore successivo è 4.294.967.297, e il computer dimostra in pochi istanti che è divisibile per 641. Ma nel 1732 Eulero dovette inventare l’aritmetica modulare per poter fare i calcoli a mano, e in tal modo scoprì uno strumento fondamentale per l’algebra moderna, che l’uso del computer non avrebbe stimolato.

A proposito di matematici, sono proprio loro a mostrare l’atteggiamento corretto da tenere nei riguardi dell’innovazione tecnologica, che è di usarla senza farsene usare. Ad esempio, i Greci si imbatterono presto in costruzioni apparentemente impossibili da effettuare con la riga e il compasso, come la trisezione dell’angolo o la duplicazione del cubo. Molti, da Archimede a Newton, offrirono soluzioni usando strumenti alternativi, dalle righe graduate agli origami, ma queste innovazioni furono considerate da matematici alla stregua di trucchi, analoghi al taglio del nodo gordiano da parte di Alessandro Magno.

Oggi si ritiene che la vera soluzione di quei problemi sia la dimostrazione, data nel 1837 da Pierre Wantzel, che non esistono soluzioni senza trucchi. Detto altrimenti, a volte la consapevolezza che in un particolare campo non ci può essere una buona innovazione teorica si oppone dimostrabilmente all’illusione fornita da qualche cattiva innovazione pratica. Se ne ricordino coloro che cantano senza sosta il mantra dell’innovazione, dai ministeri alle industrie, dimenticando o ignorando le cinque leggi fondamentali sulle limitazioni dell’innovazione.

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