- Mentre gli altri fratelli rivelavano talenti precoci, Camillo Bellocchio provava ad accontentarsi di fare l’insegnante di ginnastica. Camillo neanche deluse le aspettative perché fallì senza trovare un talento in cui fallire in una maniera soltanto sua.
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Quale effetto fa vivere all’ombra di fratelli di talento? E poi che effetto fa, per quei fratelli dalle spiccate propensioni artistiche, vivere all’ombra di un fratello suicida?
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Bellocchio è appena stato insignito della Palma d’oro onoraria a Cannes, e al festival francese ha presentato in anteprima il documentario Marx può aspettare, che dalla scorsa settimana si trova nelle sale italiane.
Mentre gli altri fratelli rivelavano talenti precoci, Camillo Bellocchio provava ad accontentarsi di fare l’insegnante di ginnastica. Uno, neanche trentenne, veniva premiato insieme a Buñuel e Godard; un altro fondava i Quaderni piacentini e avrebbe diretto Lotta Continua; un terzo si faceva le ossa nel sindacato. Camillo, invece, non era neanche riuscito a studiare per diventare geometra come avrebbe voluto il padre, che già se lo immaginava arrivare nella piazza di Piacenza a bordo di un’automobile lussuosa.
Il soccombente
Camillo neanche deluse le aspettative perché fallì senza trovare un talento in cui fallire in una maniera soltanto sua. Lo dice uno dei fratelli, Alberto, il sindacalista. Lo dice una sola volta nel corso del documentario, che Camillo «era un soccombente». La parola non ritorna né in bocca sua né pronunciata dagli altri fratelli né dalle due sorelle, ma una volta proferita resta lì e mai più si diraderà. Ed è impossibile non pensare al romanzo omonimo di Thomas Bernhard, Il soccombente, in cui due giovani pianisti, al Mozarteum di Salisburgo sotto la guida di Vladimir Horowitz, hanno la sventura fatale di studiare fianco a fianco con Glenn Gould, che in quegli anni dimostra un genio superiore e già inarrivabile. Entrambi si accorgono di non poter reggere il confronto con il pianista canadese e, dopo aver lasciato il Mozarteum, non toccheranno mai più uno strumento musicale e uno dei due, Wertheimer, anni dopo, ancora colpito a morte dal genio di Gould, si suiciderà. Non brillava, neanche Camillo, non prometteva in niente, e si ammalò di quel confronto impossibile con i fratelli.
È con la voce del regista, Marco Bellocchio, che inizia il documentario Marx può aspettare: «Il 16 dicembre 2016 Letizia, Pier Giorgio, Maria Luisa, Alberto e io, Marco, le sorelle e i fratelli Bellocchio superstiti ci riunimmo, con mogli, figli e nipoti al Circolo dell’unione a Piacenza per festeggiare vari compleanni. Io avevo organizzato il pranzo con l’idea di fare un film sulla mia famiglia, ma non avevo le idee chiare. Non sapevo cosa volevo esattamente fare. In realtà lo scopo era un altro. Fare un film su Camillo, l’angelo, il protagonista di questa storia».
Bellocchio è appena stato insignito della Palma d’oro onoraria a Cannes, dieci anni dopo che la Mostra del cinema di Venezia lo ha premiato con il Leone d’oro alla carriera, e al festival francese ha presentato in anteprima il documentario che dalla scorsa settimana si trova nelle sale italiane.
Non ricordare
Chi morirà prima? È una domanda che nelle famiglie di tanto in tanto si presenta. Nascostamente. Tremanti, ci si domanda anche: di cosa moriremo? Camillo, il gemello di Marco, scelse il secondo giorno dopo il Natale del 1968. Camillo, dunque, fu il primo e fu per suicidio.
Quale effetto fa vivere all’ombra di fratelli di talento? E poi che effetto fa, per quei fratelli dalle spiccate propensioni artistiche, vivere all’ombra di un fratello suicida?
I due gemelli, venuti al mondo il 9 novembre 1939 a Piacenza, furono a tu per tu dall’inizio, e tuttora Marco vive con «gli occhi dell’eterno fratello», citando il titolo di un racconto di Stefan Zweig, rivolti verso di lui. Camillo nacque dopo un lungo travaglio, asfittico, «tutto nero» come ricorda una delle due sorelle, dato per morto e perciò battezzato tre volte dal prete; Marco, al contrario, nacque sano e con il benvenuto di un unico sacramento.
Quasi mai, in famiglia, si possono raccontare le cose come stanno. Le cose pari pari, senza menzogne o amnesie. Con la vecchiaia, con più anni alle spalle, le cose da dirsi aumentano. Si accumulano per tutti quei giorni che non si sono vissuti tra le stesse mura di casa. E si sa che la famiglia è la culla dell’errore. Si vive troppo vicini l’uno all’altro, e si tiene il mondo troppo lontano. Errori di nessun conto diventano epocali tra il tinello e il salotto. La madre mise Camillo nella stessa stanza di Paolo, il maggiore tra i fratelli, che da schizofrenico urla e sbraita tutto il giorno. E anche da ragazzo, da ragazzo allegro, Camillo non si allontanò dalla famiglia, restò a Piacenza, mentre i fratelli nel frattempo fuggivano a far il cinema a Roma, a dirigere una casa editrice a Milano, o anche solo a Parigi per una vacanza con la fidanzata.
Le nostre vite sono esposte allo sguardo dei nostri cari, ma pure con tutte le attenzioni qualcosa ci sfugge. Non comprendiamo. Non cogliamo. E poi non riusciamo a ricordare. Camillo scrisse una lettera a Marco, un anno dopo l’ultima volta che si erano visti, domandandogli se fosse possibile anche per lui provare a trovare posto nel mondo del cinema. Avrebbe potuto aiutarlo? Gli ribadisce due volte di essere sincero con lui. Cosa gli rispose il fratello, il regista illustre? Marco Bellocchio non se lo ricorda, forse non gli ha mai risposto.
Pare anche che Camillo avesse lasciato un biglietto prima di impiccarsi. I fratelli almeno si ricordano così; al contrario delle sorelle, che non hanno mai saputo niente di quell’ultimo messaggio. La memoria famigliare non è quasi mai concorde, i racconti sono incongruenti, quasi che i Bellocchio vogliano ancora farsi dispetti di bambini. Qualcuno dei fratelli lesse il biglietto, era bagnato di lacrime. È vero che Camillo si diceva troppo pieno di angosce per continuare a vivere, e chiedeva scusa alla sua fidanzata, Angela, o è vero, invece, che scriveva di aver fallito anche in amore? Bellocchio, il regista, lesse l’ultimo messaggio del fratello, ma non ricorda cosa ci fosse scritto. Siamo davvero sicuri che qualcuno dei fratelli non sia al corrente di qualcosa che gli altri ignorano, qualcosa da cui vuole ancora proteggerli, tenerli al riparo?
Non capire
Federigo Tozzi, quando venne a sapere che uno dei fratelli che gestivano la libreria di Castagneto da cui lui si riforniva abitualmente si era impiccato nel retrobottega, scrisse il romanzo Tre croci ispirato a quel fatto. E la conclusione del necrologio che scrisse per La Vedetta Senese il 28 dicembre 1915 in memoria di quel ragazzo che si era suicidato, «Ora egli da morto par che mi chieda di ricordarlo per sempre», sembra formulata dal coro delle voci con cui Marco Bellocchio, i suoi fratelli e le sue sorelle, parlano nel documentario del loro Camillo.
Una delle due sorelle ha sempre creduto che si trattò di una disgrazia, di un esercizio finito male, un incidente. Bisognava trovare un modo perché Camillo non fosse imputabile di quel che di tremendo aveva fatto: magari aveva perso la ragione?
Ho visto il film due volte. L’ho visto al primo spettacolo pomeridiano e l’ho visto all’ultima proiezione della giornata, eppure è come se l’avessi visto sempre a quell’ora della sera adatta perché una strana tristezza si infiltri sotto qualunque vestito. Dopo aver consegnato questo articolo al giornale, andrò al cinema per la terza volta, e non per capirci qualcosa in più, o per cercare indizi, per scovare il senso di colpa, o il segreto. Del resto non credo che nelle case in cui sono state realizzate le interviste aleggiasse la speranza di scoprire qualcosa di nuovo. Marx può aspettare non è un gioco della verità né mira a una rivelazione o a un riscatto. Tornerò al cinema, per una terza volta, per capirci ancora di meno.
Una delle due sorelle ricorda di averlo sognato la notte successiva. Sorrideva, Camillo, in una «divisa sahariana» e «in una luce boreale». La madre, da quel 27 dicembre in cui indossava l’abito nuovo per il pranzo in famiglia, lo immagina, invece, avvolto nelle fiamme dell’inferno per l’eternità.
Quando Giuseppe Sciascia, venticinquenne direttore di una zolfara nell’entroterra ennese, nel 1948, si toglie la vita con la rivoltella trovata nel cassetto del comodino dei genitori, Leonardo è a Caltanissetta. «Per ragioni di sconforto, forse di solitudine», per questo era successo secondo lo scrittore. Secondo lui, Giuseppe si era sentito prigioniero della zolfara, come un fratello dei Bellocchio ricorda che Camillo, unico tra loro a fare il servizio militare, patì quell’anno sotto le armi. Noi «non siamo riusciti a capirlo», ammise lo scrittore siciliano e lo devono accettare anche i Bellocchio, ormai in coda al documentario: «Non ci abbiamo capito niente», ripetono. «Sai, il suicidio è una porta aperta. È facile de imboccare», disse infine Leonardo Sciascia nell’unica intervista in cui accettò di parlare del fratello. Le grandi porte si aprono quasi spontaneamente e altrettanto quasi spontaneamente si chiudono. Quando passerai da Bobbio, scrisse Camillo nella sua lettera d’addio, cara Angela, portami un fiore.
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