In queste ore le timeline dei profili social di molti di noi sono piene di fotografie di Marianne Faithfull, morta giovedì 30 gennaio dopo essere sopravvissuta, negli ultimi quindici anni, a una diagnosi di epatite C, a un tumore al seno e alla variante più originale e letale del Covid 19.

Scegliere una fotografia da postare per celebrarla questa volta non dev’essere stato semplice per nessuno e non solo perché Faithfull era sempre evidentemente bellissima ed è stata bellissima fino alla fine della sua immagine sulla Terra, ma perché le sue fotografie hanno costantemente parlato la lingua di storie che, per incroci, contingenze, azioni hanno in molti modi toccato le nostra storia; le sue sono foto che disegnano frammenti di una vicenda umana ritraendo con essa frammenti di rock’n’roll, di letteratura, di punk, di moda, lo fanno con sensualità, ironia, tenerezza ma soprattutto con un’intelligenza versatile e giocosa, dischiusa da uno sguardo e da un corpo insieme vitalissimi e fragili.

Una storia piena di storie

Marianne Faithfull era di Hampstead, lo stesso quartiere di Londra dove pochi anni prima della sua nascita era morto Sigmund Freud, suo padre, Robert Glynn Faithfull era un ufficiale dell’intelligence britannica ma soprattutto un amante della letteratura inglese e italiana che aveva insegnato alle Università di Liverpool e Londra, sua madre era una ballerina aristocratica di origini asburgiche, la baronessa Eva von Sacher-Masoch che aveva preso parte, tra le altre cose, ad alcune produzioni teatrali firmate da Kurt Weill e Bertold Brecht.

È piuttosto divertente pensare che il prozio materno di Faithfull era Leopold von Sacher-Masoch, l’autore del romanzo erotico Venere in pelliccia, quello da cui era stato coniato il termine masochismo: la pelliccia è un oggetto che torna spesso nella vita della Venere Marianne, usò nuda un tappeto di pelliccia per ripararsi durante la storica retata antidroga di Redlands a casa di Keith Richards (il giorno dopo i giornali la chiamarono “Miss X, the girl in the fur rug” e ricevette una pelliccia in regalo a Roma da Mario Schifano, con cui ebbe un’appassionata storia d’amore, e che acquistò il dono, stando alla leggenda, offrendo in cambio un suo disegno).

La vita di Marianne Faithfull è stata tutta più o meno così, una storia piena di storie tutte difficili da credere vere, a metà tra la realtà e l’impossibile, tra la veglia e il sonno, tra la leggenda e la più cruda delle realtà. Anche il suo esordio, da lei stessa raccontato nel suo Faithfull: an autobiography (mai tradotto in italiano, ça va sans dire) e in molte altre occasioni, sa di invenzione e invece è solo figlio delle magie della swingin’ London: a una festa organizzata per un lancio dei Rolling Stones nel '64 viene notata da Andrew Loog Oldham, manager della band fino al 1967 e figura perno di molte realtà artistiche dell’epoca: dopo poco è in studio a incidere As tears goes by, il suo primo successo scritto dallo stesso Oldham con Jagger e Richards.

I cavalli selvaggi

Il vortice, a quel punto, sembra inghiottirla prepotentemente e gli anni ’60 sono tutti pieni di Marianne che oltre alla mondanità ultracitata e alle collaborazioni, reali, con gli Stones, l’amicizia con Dylan, con i Kinks e con un intero mondo che abbiamo sognato e visto nelle fotografie, vive anche il dramma di essersi ritrovata con tutta sé stessa, oltre sé stessa, dove mai avrebbe immaginato: nel 1969 assume una grande quantità di barbiturici ed entra in coma farmacologico.

Dopo poche ore si sveglia e dice trovando Mick Jagger al suo capezzale gli dice: “Wild horses couldn’t drag me away” ovvero “I cavalli selvaggi non potranno trascinarmi via”: di quegli anni leggerete ovunque che Faithfull è stata la musa degli Stones, in un palleggio amical-amoroso continuo e ispiratore tra Jagger, Jones, Anita Pallenberg ma è bene sottolineare che qui siamo di fronte a qualcosa di diverso: Simpathy for the devil non sarebbe stata quella che è se Jagger, con cui Faithfull avrà una love story tra il ’66 e il ’70, non avesse ricevuto da lei il consiglio di leggere Il maestro e Margherita di BulgakovSister Morphine, uno dei pezzi capitali della band, non sarebbe semplicemente stata senza la scrittura e l’interpretazione di Faithfull (che dovrà lottare a lungo in una causa legale per vedersi riconosciuti i diritti di co-autrice); Wild Horses (i cavalli selvaggi che non la trascineranno via, ricordate?) verrà scritta da Jagger nell’estremo tentativo amoroso di farle lasciare, appunto, Mario Schifano, il quale forse, senza questa love story con lei, non avrebbe portato gli Stones all’osservazione ravvicinata e dunque alla scrittura della loro Monkey Man.

Lei, dal canto suo, nello stesso decennio, dà alle stampe per UK e USA sei dischi a suo nome in soli tre anni. Nel 1970, dopo il divorzio dal marito John Dunbar che aveva lasciato per Mick Jagger, dopo aver lasciato anche lo stesso Jagger e aver perso la custodia del figlio Nicholas per abuso di stupefacenti, Faithfull si ritrova a vivere per strada a Soho, tenta il suicidio, è dipendente dall’eroina ed è sola, i suoi legami sentimentali fallimentari coltivati nella dipendenza e le precarie condizioni di salute si accompagnano a una lunga fase di stallo lavorativo: l’album Masques, iniziato nel 1971, uscirà soltanto nel 1985 col titolo Rich Kid Blues mentre Dreamin’ my dreams del 1975 verrà riportato sul mercato nel 1978 con il geniale titolo Faithless.

Broken English 

È nel 1979 però che accade qualcosa di inaspettato e straordinario, esce Broken English, l’album destinato agli annali come il suo miglior lavoro in studio. "Got so much to offer/ But I can't pay the rent/ I can't buy you roses 'cause the money's all spent”, canta Faithfull in questo disco pieno di possibili statement intimi e politici, un autoritratto che allarga la lente, si fa del mondo, del preciso passaggio storico, in piena guerra fredda, fine dei 70s, fine dei sogni, anche di quelli infranti; Faithfull si dà al pubblico con voce di volta in volta spezzata, graffiante, dolorosa, mai addomesticata, figlia delle ferite accumulate e sgorgante dei contraccolpi da restituire alla vita.

Il disco, che contiene versioni oscure e affilate di brani straordinari come The Ballad of Lucy Jordan di Shel Silverstein e Working Class Hero di Lennon, fonde new wave, blues, reggae e pop, è figlio del post punk e in qualche modo sembra esserne fondazione primitiva. Dopo Broken English, tra il 1980 e il 2021, Faithfull ha dato alle stampe quattordici album, ha scritto moltissimo e lavorato con altri autori e altre autrici, musiciste e musicisti, da Pj Harvey a Warren Ellis, passando per Tom Waits, Angelo Badalamenti, Beck, Damon Albarn e molti ancora. Scrive, tra le altre, The Song For Nico dopo aver letto la biografia della cantautrice e cantante tedesca e averne sentito l’urgenza poetica, con Nico Faithfull ha condiviso il desiderio di una vita artistica reale dopo i fasti e i falsi dei 60s e il misunderstanding nella percezione del personaggio e della sua levatura artistica.

Un’ultima voce

Ho visto Marianne Faithfull in carne e ossa una sola volta, era la fine dell’estate del 2007 e in un grande parcheggio dell’hinterland milanese una serie di artisti internazionali difficili persino da immaginare sullo stesso palco italiano, a soli 5 euro di biglietto di ingresso, riproponevano per intero Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e altri pezzi dei Beatles accompagnati dalla London Sinfonietta. Quella sera c’erano Beth Orton, i Residents, Alex Chilton, Robyn Hitchcock, Badly Drawn Boy, Peter Murphy e molti altri nomi fondamentali della storia della musica e poi c’era lei, Marianne.

Arrivai in ritardo quella sera e la prima cosa in cui il mio udito si imbattè fu la sua voce che attraversava lo spazio di cemento e l’udito e gli occhi increduli della folla cantando le parole di She’s leaving home, la sua voce era frammentata dalla commozione, priva di ogni tentativo di assumersi il rischio di una vocalità didattica e corretta, era una voce umana, attraversata dalla lunghe vite vissute e non fu difficile ritrovarsi disarmati e commossi.

Marianne Faithfull era l’unica lì sopra che i Beatles li aveva conosciuti davvero e che quando poco dopo tornò sul palco con Jarvis Cocker per cantare altri versi, attaccando A day in the Life con “I read the news today, oh boy” sembrava averle lette per davvero, tutte quelle notizie che noi abbiamo sempre solo potuto a immaginare.

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