- Lo stilista, artista e designer: «Il mio lavoro non comporta solo avere a che fare con la pesantezza dello chiffon ma anche con il dolore della terra da cui vengo. Le mie modelle fra gli alberi bruciati della Sardegna. Ma la bellezza è la rinascita».
- «Mi piacciono le cose usate, raccontano storie. Contengono dettagli che gli altri non vedono». «La mia arte è politica? Tutto è politica, un abito è un linguaggio per comunicare».
- «Uso la poesia perché sono stato un bambino dislessico, e la poesia aveva più spazio nella pagina, per inventare». «Creo ancora ad Alghero, faccio venire i miei collaboratori da Parigi, e poi loro si innamorano di questa città».
«Stilista secondo me è una definizione abbastanza riduttiva. Obsoleta. Fare il “lavoro” dello stilista ormai non comporta solo avere a che fare con la pesantezza dello chiffon, con la grandezza del pois e con il valore cromatico della rosa. Questo lavoro è intimamente legato alla realtà che c’è intorno. Almeno per il mio modo di vedere e procedere. Sono sempre stato influenzato da quello che mi circonda, e l’ho tradotto, applicato, spalmato nelle mie collezioni. Non sono avulso da quello che succede nel mondo, in Italia, in Europa in America in Afghanistan, e men che meno da quello che succede a casa mia, in Sardegna. Quella del fuoco è una ferita aperta, una cicatrice con punti di sutura che ancora spurgano, un siero infetto che sgocciola, trasuda dolore».
Inseguiamo Antonio Marras a lungo prima di un appuntamento mattutino. Stilista, designer, artista, mecenate. È stato direttore artistico e creativo di Kenzo. La sua boutique milanese è un cenacolo culturale in cui si presentano anche libri.
Quella algherese – lui è testardamente algherese, testardamente sardo e testardamente cosmopolita – è una specie di esposizione della poetica dell’artista, le vetrine sono più spesso installazioni affacciate sulla banchina del porto, da cui scendono marinai di tutto il mondo.
È il primo stilista che ha esposto alla Triennale di Milano, una mostra tutta sua intitolata «Nulla dies sine linea», a cura di Francesca Alfano Miglietti.
Visione e creazioni
Cominciamo dalle sue ultime creazioni, e dal suo cortometraggio. Le sue modelle, vestite di tessuti con rose e fiori, si muovono nei monti della Sardegna, a Santo Lussurgiu, nel cuore del parco Muntiferro, in boschi devastatati dagli incendi dello scorso luglio. Immagini belle, ma durissime.
«Quello è un parco di 750 ettari, ne sono bruciati 650. Ho voluto raccontare un dolore che non capisci se non vai sul posto. Un senso di smarrimento, l’angoscia della distruzione, della scarnificazione che questa terra ha provato. In quei rami c’è una tragica, assoluta bellezza. Una bellezza atroce, come un quadro di Egon Schiele. Ma in mezzo alle bruciature c’è una rinascita. Con il dolore del resto io ci lavoro, ci convivo, ci combatto».
La sua Sardegna è spesso terra di dolore. Alla sua mostra alla Triennale, c’era tanta sarditudine, c’erano anche stanze dell’orrore.
«La mostra alla Triennale nasce da un dolore, anche quella. Era programmata più di un anno prima. Avevo provato a metterci mano ma non ce la facevo. Avevo un’altra cosa molto importante da fare: erano gli ultimi mesi della vita di mia madre, alla quale ero molto legato. In quel momento nel nostro rapporto c’era un’inversione di ruoli. Io non ero più quello che veniva accudito, ma quello che doveva prendersi cura, starle accanto, raccontare. Era una donna aperta, acuta, pungente, intelligente, è stata lucida fino all’ultimo momento. Mio padre era mancato all’improvviso, lei era il perno intorno a cui ruotava tutto, la mia famiglia, tutti miei affetti. Voglio raccontarle una cosa. Io sono stato un bambino dislessico, mi ha salvato la musica e la poesia».
Lei infila parole un po’ ovunque, anche nei tessuti.
«Quando ero bambino avevo difficoltà nel leggere pagine intere, tutti quei segni mi confondevano. Quindi leggevo la prima riga e poi inventavo tutto. Passavo per pazzo, quando ero bambino la dislessia si conosceva poco. Mi salvava la poesia perché era scritta al centro della pagina, quindi c’era tutta la parte bianca, una spuma con delle onde, e quelle parole piccole, che avevano comunque un suono, una rima, un rimando. Quindi avevo in magazzino in testa migliaia di testi di canzoni, la musica mi aiuta a ricordare il ritmo. Il ritmo, diceva Maria Lai (artista e sarta, a lungo maestra e musa di Marras, ndr), sono i vuoti e i pieni».
“Chi ha paura della maestra”, una delle installazioni della sua mostra, viene da lì?
«Quella che lei chiama la stanza degli orrori era la rappresentazione di una classe. Con quell’installazione ho esorcizzato i miei anni di tormento alla scuola elementare della Mercede, ad Alghero. Avevo un maestro che mi menava, e mi costringeva a leggere a voce alta. Per me era una tortura. Ma la più grande era quando lui si metteva a leggere il giornale e a noi assegnava il “problema”. Mi è rimasto un problema serissimo con i numeri, non ricordo una data, un telefono, neanche il mio. E non ho mai risolto un problema. Il fatto è che in terza media mi innamoro di una ragazza, e benché fossi destinato al classico, mi iscrivo a ragioneria. Sono stati cinque anni assurdi».
“Chi ha paura della maestra” è un incubo.
«Allestire la classe è stato un lavoro profondo. Ho chiesto alle maestre, alle insegnanti e alla direttrice delle scuole elementari dove andava mio figlio di fare un lavoro con i bambini. Far loro una domanda: di cosa hai paura, cosa ti fa paura? I bambini hanno fatto cose molto belle, chi ha disegnato una balena, chi serpenti, ladri, la notte, il buio. Dalle mamme mi sono fatto dare tutti i vecchi peluche, loro erano contentissime di svuotare le cantine. Io li ho smontati e rimontati assemblando teste braccia gambe, sconvolgendo la fisionomia di questi animali, e vestendoli come degli alunni. La maestra faceva l’appello urlando cose terribili. Lì ho eruttato la mia infanzia».
Lei è anche un designer, ha disegnato piatti e divani. Ed è un artista che si esprime con tanti linguaggi differenti. Il fashion system non le interessa, o lo ritiene una storia superata?
«Come dice Fossati, non ho mica più vent’anni, ne ho molti di meno. Comunque non snobbo niente: mi sveglio la mattina e vado in studio, e ancora oggi discuto di tessuti. Stamattina alle sette e mezza ho incontrato un fornitore che mi ha fatto vedere delle stampe sulle quali sto lavorando. Ma in tutto devo fare cose delle quali sono convinto. Se non mi convince una scelta, non sono neanche in grado di prendere una penna in mano. Per me arte e moda viaggiano su binari paralleli, hanno dinamiche diverse ma non del tutto.
La mia prima collezione l’ho dedicata a Maria Lai. Lei per me è stata più di tutto. Con lei ho vissuto, lavorato, io facevo il garzone di bottega e lei invece mi trattava da pari. Io nascondevo le cose e lei mi costringeva a farle vedere lavori che non avrei fatto vedere a nessuno. Lei ha tirato fuori cose che erano dentro di me ma anche cose che erano dentro i miei cassetti. Mi ha condotto per mano nel mondo dell’arte. Con lei ho condiviso tutto, mi ha detto un giorno: “Noi siamo troppo innamorati, bisogna che ci stacchiamo ogni tanto”.
Oggi Maria per me ancora è presente. Quando io facevo le mie creazioni le dicevo che assomigliavano troppo alle sue e lei mi diceva “solo gli sciocchi imitano, gli altri copiano”. Lo diceva anche Picasso, “l’arte è un continuo rubare, prendi quello che vuoi”. E infatti oggi dopo trent’anni sto iniziando a lavorare su progetti di telai che chiaramente rimandano ai suoi, anche se sono altro. Oggi non mi vergogno di esibire la mia ispirazione a lei, anche perché quando creo sono incosciente. Non penso, ho bisogno di lavorare con le mani, sono un artigiano».
Attraverso Maria Lai cresce il suo rapporto con la Sardegna. Quando ha deciso, o ha capito di essere un’icona della Sardegna contemporanea?
«Non sono un’icona, un’icona è Paolo Fresu, grande musicista. Come altri, artisti, scrittori, frugo e scavo in quello che è passato, in quello che trovo. Ho una passione per tutto quello che è vecchio, vissuto, toccato e consumato, che racconta una storia.
C’è una canzone bellissima di Guccini che descrive i banchi del mercato dell’usato, dove questo ciarpame, un tempo meraviglioso e adesso consunto, racconta di vite vissute. È quello che mi affascina. Mi hanno detto che sono “animista”, ma nel senso che ridò anima alle cose vecchie. Vero, mi interessa proprio questo. Sono attratto da cose che non hanno valore, oggetti, dettagli che mi colpiscono e scatenano in me epifanie, visioni. È quello che mi ha lasciato Maria Lai, la capacità di osservare cose che ad altri non interessano, sfuggono. Le cose scartate, macchiate, erose».
«Combattere la cultura dello spreco», dice papa Francesco. Viene da qui la sua attenzione al sociale? E perché alla sua prima sfilata ha voluto usare maglie da uomo con il volto di Gramsci e lo slogan Odio gli indifferenti?
«Odio gli indifferenti è una frase meravigliosa. Sono passati anni e anni da quella sfilata, e ogni settimana c’è qualcuno che mi chiede di quelle maglie. Dovrò rifarle. Era la mia prima a Milano, erano tempi in cui le sfilate si facevano nelle passerelle super patinate, con modelli superfighi. Mi ricordo che i giornalisti mi chiamavano e mi chiedevano: “Che vip ci saranno in prima fila?”.
Io venivo dai confini dell’impero, e sceglievo di sfilare in un ufficio postale abbandonato nella stazione centrale. Un momento straordinario, c’era l’incoscienza, c’era il fatto di non essere influenzato dai progetti che si fanno a tavolino prima della collezione, era davvero un’esplosione di libertà, di anarchia, di autonomia».
Cos’è la politica per lei?
«Glielo dico con L’ultimo metrò. Quando ci si chiede perché il protagonista viene perseguitato visto che non si è mai occupato di politica e l’unica cosa che legge dei giornali è la pagina dello spettacolo. Ecco, è quello che ho fatto io per una vita. Ho passato la mia infanzia al cinema, ad Alghero, al Selva, al Supercinema e poi al Miramare, del resto solo questi tre cinema c’erano. Sono stato onnivoro. Ma tutto quello che facciamo è politica. Vestirsi in un modo o in un altro è politica, non solo portare l’eschimo intendo, vestirsi è usare un alfabeto per parlare con chi ti passa accanto. L’abito è anche una casa, abito e abitare, hanno la stessa radice. Le mie non sono mai modelle e modelli classici, ma volti e corpi che cerco in continuazione, in una sfilata metto tutto quello che ho nel mio mondo».
Ma in questa continua tensione fra vecchio e nuovo, lei si sente più dalla parte della tradizione o più da quella del tradimento?
«Io sono sedotto dall’innovazione, sono un traditore nel dna, nel senso che mi piace vedere una cosa perché mi spinge a cercarne un’altra».
La triennale si intitolava “Nulla dies sine linea”, nessun giorno senza linea. La “linea”, il disegno, è nel dna della sua famiglia.
«Mio padre non era un sarto, da giovane era stato garzone nell’emporio del cognato, di quelli in cui si vendeva di tutto, dai materassi alla biancheria intima. Poi apre il primo negozio di tessuti, da vendere ai primi turisti inglesi, io conservo ancora i rotoli di seta che mio padre comprava a Como. Posso stare giorni negli archivi dei miei tessutai. Ma siccome mio padre era geniale, è il primo a portare Fiorucci in Sardegna. Il mio primo viaggio a Milano è da Elio Fiorucci, che mi apre un mondo. Abbiamo fatto arrivare il Camperos».
Ci siamo, parliamo di Alghero, la sua città, che è un po’ una città reale e ideale. Quanto conta nelle sue creazioni.
«Quando lavoravo per Kenzo, per otto anni, li facevo venire da Parigi ad Alghero per lavorare con me. E poi non se ne volevano più andare. Per me Alghero è una meravigliosa signora trascurata, ha amanti molto focosi ma distratti. E poi c’è Capocaccia, un signore a pancia in su, con un faro in testa, che ci protegge e ci guarda e ci contiene, ci fa da barriera. Mi ha ispirato un divanto. Ma è il posto del cuore, dell’anima, il luogo dove ho scelto di vivere, dove ho ancora il mio studio, dove a fatica, con grandi difficoltà ho cocciutamente impiantato la mia azienda, da sardo marino granitico. Ancora oggi tutti i progetti nascono lì. Poi certo mi sposto, prima con più facilità con Alitalia ora con più difficoltà con Ita. Su questo noi sardi siamo un po’ pecore, non ci ribelliamo mai. Dov’è finita la continuità territoriale?».
La pandemia ha danneggiato la sua azienda?
«Intanto diciamo che all’inizio la pandemia mi ha regalato i miei primi trenta giorni di vacanza. Si fa per dire: per me la vacanza è avere del tempo per lavorare in studio, ad andare a cercare cose, oggetti, tessuti. Noi a Milano siamo stati gli ultimi a sfilare, nel 2020, il giorno dopo Armani ha annullato la sua sfilata. E allora siamo tornati ad Alghero, ci siamo chiusi in casa, e io ho lavorato un mese senza sosta. Ho prodotto una quantità di cose incredibili. Il ritorno al futuro è stato drammatico, noi siamo un’azienda a conduzione familiare, senza grossi gruppi alle spalle, quindi tutto ha un equilibrio molto delicato, due pandemie sono abbastanza pesanti da gestire».
Con lei lavorano sua moglie, Patrizia, e i suoi figli.
«Efisio che fa la linea Isola Marras e che si occupa di molte cose. Anche Leonardo lavora con noi, ma è un ragazzo di 23 anni e sta cercando di trovare il suo spazio. Ha una sensibilità incredibile. I miei figli sono cresciuti nel mio studio, dove c’è una scrivania per Efisio e una per Leo, e loro pasticciavano, inventavano. Ho sempre rubato quello che facevano e conservato le cose loro e degli amichetti che venivano a giocare con loro. Casa mia è il luogo preferito dagli amici dei miei figli perché vige l’assoluta anarchia. Era sempre invasa da bambini. Per loro era il paese della cuccagna, cercavano oggetti e poi ce li consegnavano.
Un giorno Leo torna dalla campagna con una palla da tennis completamente squarciata, aperta, annerita dal sole e dalle intemperie, era una sorta di pianeta aperto. Un’opera d’arte. È un oggetto che ho esposto alla triennale. Lui ha una sensibilità speciale, dovrà affinarla ma sono certo che troverà una sua espressione. Per i miei figli era naturale avere tutti mobili vecchi, credo che da noi l’unico pezzo nuovo sia il freezer».
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