Esattamente tra un mese uscirà per Einaudi Cose da maschi, il libro tratto da questo carteggio con chi pensa che il genere, pur essendo esperienza quotidiana di chiunque e sempre innervata di politica, sia anche un paese straniero di cui interrogare le lingue, i costumi e gli usi per mezzo di una varietà di strumenti umani, umanistici. Nel corso dei nostri quarantatré appuntamenti fin qui, tale comunità per corrispondenza è cresciuta e, mi pare, ha sviluppato gusti nuovi. Se all’inizio le più vistose reazioni si manifestavano in concomitanza con irruzioni del presente nella rubrica, o in occasione di pezzi (sia miei che di altrə) che del maschile ridicolizzavano le ombre e le rigidità, negli ultimi tempi ricevo più intime espressioni di simpatia quando i contenuti resistono invece alle contingenze dell’attualità, e quando ipotesi affettuose, amichevoli e pacifiche fanno capolino tra i nostri ragionamenti.
Mi rendo dunque conto che il passaggio dagli oggetti protagonisti agli oggetti condivisi, dai ritratti di maschi alla fenomenologia della bromance, è in fondo stato soprattutto suggerito dall’evoluzione organica della rubrica e della newsletter. E sospetto, licenziando le ultime bozze del libro, che forse bisogna già pensare al successivo – con Didier Falzone addirittura ne ipotizzavo un titolo buffo: Fra fra, contrazione di “fra fratelli”, che echeggia il capolavoro Between Men di Eve K. Sedgwick e volta in italiano il “bro” della dude culture americana, proponendosi come alternativa in desinenza femminile al “fru fru” con cui, incongruamente, si prendono in giro i ragazzi che non corrispondono ai dogmi più tossici della maschilità.
Nel frattempo, tutto quel che c’è da dire sul tema della settimana, sempre su questa linea tematica, lo trovate codificato nel collage di Didier.
Chi ha amato, come me, l’incantevole film Disney di Enrico Casarosa sull’amicizia maschile, Luca, riconoscerà l’iconografia della bromance che in quella solare storia mediterranea si consuma tra l’eponimo protagonista e il suo amico del cuore Alberto. I due mostri marini liguri però, nel cartone, cavalcano famosamente un’iconica vespa dall’inconfondibile design.
Lo strano muso allungato, un po’ anni Novanta, del motorino che compare nell’illustrazione di Didier si spiega con la mia autobiografia: al liceo avevo un motorino fatto esattamente così, uno scooter Aprilia che mio padre aveva comprato per sé anni prima e mi aveva poi tramandato al compimento dei quattordici anni. Invece di avere un nome d’insetto o una parola inglese si chiamava, neanche a farlo apposta, Amico 50. In sella al mio motorino, nell’immagine, si ergono due cavalieri. Sono evidentemente Rinaldo e Ferraù, i rivali di fedi diverse che, nel primo Canto dell’Orlando furioso, duellano per contendersi l’amore di Angelica. Lei però in realtà li disdegna entrambi e, approfittando del loro combattimento, ruba uno dei loro destrieri e s’infratta.
I due dunque interrompono il conflitto e si fanno improvvisamente alleati: per inseguire la fanciulla decidono di diventare amici di sella, e montano lo stesso cavallo lanciandosi al galoppo. Ariosto li prende in giro, con sottile ironia, per questa lesta conversione alla collaborazione allupata, ma Didier invece vuole credere al loro sodalizio. Li immagina come i pupi siciliani che, coi loro nomi, ne interpretano le gesta nella grande tradizione del teatro cavalleresco inanimato, e con grande astuzia ce li presenta ognuno con un occhio solo. Solo insieme infatti, sommando le forze e gli animi, questi condottieri normalmente intenti ad accrescere la propria eroica fama individuale (persino partecipando ognuno a un esercito) sono in grado di vedere dove li trasporta il comune desiderio.
Su questa scena si chiude l’articolo che vi invito a leggere, qui in anteprima su Domani online e sabato, al solito, in edicola nell’edizione di carta. Si apre, invece, sulla filosofia che ho studiato al liceo (non Classico, ma Scientifico), e in particolare sul rapporto che lega la Fenomenologia dello spirito di Hegel e la bromance semi-umana e anglofona tra Sam e Frodo nel Signore degli Anelli.
Il tragitto tortuoso dal Monte Fato di Tolkien ai cavalieri antiqui di Ariosto, passando per il mio motorino, lo si compie essenzialmente grazie a un miracoloso libretto di Ottavio Fatica, Lost in Translation, che uscirà dopodomani per le edizioni Adelphi. Avendo io studiato il nonsense britannico per la mia tesi di laurea, questo poeta anglista (traduttore magnifico dei Limerick di Edward Lear, oltre che di Tolkien medesimo e di Melville, Kipling, Yeats) è uno dei miei miti dai tempi dell’università. Nelle poche dozzine di pagine di questa sua gemma d’imminente pubblicazione c’è il nettare di quel che ha capito traducendo alcune tra le più grandi voci letterarie di tutti i tempi.
Fatica si spiega con misteriosa chiarezza, come quegli insegnanti che ti fanno dimenticare di star seguendo una lezione: come il sire dei cavalli, Ombromanto, che in un baleno può trasportarti da un capo all’altro della Terra di mezzo facendoti scordare di aver viaggiato. Il viaggio, il trasporto, è la metafora chiave della sua fabulistica teoria della traduzione, e per questo le sue parole sugli hobbit mi hanno fatto capire più precisamente perché la pratica del condividere una sella tra maschi mi abbia acceso la voglia di spendere una giornata a scriverne.
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