- Mi domando dove siano finiti i gioielli che ho accumulato attraverso i sacramenti cattolici: gli ori del battesimo, della prima comunione, della cresima. Erano tutte cose utili, tranne forse una sterlina d’oro e un braccialetto sempre d’oro. Li avrei tutti dati via in cambio di un orecchino.
- Mia madre però diceva che gli orecchini li mettono solo ex galeotti e pederasti, dando loro un’utilità che in realtà non hanno (davvero le star del cinema e i personaggi dei cartoni giapponesi coll’orecchino potevano rispondere a quelle categorie di pregiudizio?). E d’altronde, i dandy dell’Ottocento non ci insegnano che è proprio l’utilità a essere volgare?
- Quando Ruggiero lascia la trama dell’Orlando furioso per sollazzarsi sull’isola di Alcina indossa un paio di orecchini che Melissa, riportandolo sulla supposta retta via, gli rimprovera. Che liberazione però lasciarla, quella via, per imboccare quella del rifiuto per le trame, le storie già note, addirittura il capitalismo! Questo contributo è parte del nuovo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.
Mi domando dove siano, in questo momento, i miei ori. Li possiedo, come immagino quasi tutti i ragazzi non poverissimi di stirpe cattolica, dalla prima comunione. Aggiuntisi a certi meno familiari gingilli del battesimo, che invece non saprei distinguere da quelli di mia sorella, sono ori che ricordo a memoria ma che non vedo da anni. Forse da quando, con le più sostanziali ma meno numerose addizioni della cresima, completai la collezione e, appunto, smisi d’interessarmene.
Una sterlina d’oro, la più memorabile. Un fermacravatta d’oro poi, un po’ aziendale, e una sottilissima catenina d’oro sulla cui piastrina d’oro, che recitava «RH», nessuno fece mai incidere il mio gruppo sanguigno. Un orologio d’oro, marca Philip se non sbaglio, e un bracciale, leggermente vistoso, sempre d’oro. Abitavano nel cassetto in basso del mio comodino di adolescente, ma poi ricordo che emersero una volta dall’armadio delle tende e delle coperte di casa di mia nonna. Ora, chissà. Forse sono dov’è anche la fede nuziale di lei, che il giorno del suo funerale mi parve sorprendentemente spessa, incongruamente pesante per un dito così piccolo.
Quando tutti questi oggetti li avevo a portata di mano, non riuscivo a immaginare una versione di me che potesse farci altro che custodirli, contemplarli di tanto in tanto, come un draghetto appollaiato sul suo tesoro in erba. Ora che faccio il professore, ora che per festeggiare una nuova cattedra ricevo in dono da un’amica un altro, più bello, fermacravatta d’oro (e ci si aspetta che in effetti lo indossi), mi domando dove siano. Mi domando se non dovrei, di quando in quando, sfoggiarli.
Gli ori utili
Se allora mi interessava particolarmente la sterlina, doblone da avventuriero nel minuscolo forziere azzurro della gioielleria di Subiaco in cui mia zia Michela lo acquistò, oggi è il fermacravatta a tornarmi in mente. Lo metterei? Funzionerebbe col gilet, senza giacca? Assieme ai gemelli, di cui possiedo un solo paio regalatomi da un’altra Michela (Murgia, la scrittrice, che me li portò a Filadelfia in una scatoletta viola ora sempre nel mio guardaroba), il fermacravatta è il più ovviamente ammissibile e serenamente borghese dei gioielli maschili.
Riuscite a figurarvelo un fermacravatta oltraggioso, sovversivo? C’è al limite un’ombra di esibizionismo retro in quelli vintage con le catenelle che tengono insieme le alucce del colletto – che imbarazzo, non so come si chiamano – ma niente di che. Quello chic che, come accennavo, ho ricevuto da Anna Cellinese, italianista di Princeton con un misterioso passato di danzatrice, una catenella ce l’ha, ma parecchio discreta.
C’è una qualità d’affetto particolare, lungimirante e sorniona, nel gesto femminile di regalare a un uomo un gioiello tradizionale perché lo adoperi al lavoro, o nelle occasioni formali. Non importa l’età del ricevente: egli diventa subito giovanotto – prence, delfino, futuribile bravo ragazzo, nipote acquisito anche fosse lui medesimo zio, o persino nonno.
Queste gioie dabbene, prive di sospetto, hanno in comune l’utilità: sono cose autorizzate a esser belle perché sono utili, promettono di funzionare per il resto della vita di chi le riceve nella loro incorruttibile lega di nobile metallurgia – e di essere tramandate, per ulteriori utilizzi a venire. Non a caso la graziosa catenina di cui sopra era destinata a trasmettere, nell’eventualità di un grave incidente, il mio gruppo sanguigno ai soccorritori. Non a caso il pezzo forte della mia collezione era proprio l’orologio, che da bimbo mi impressionava meno di tutti i suoi più chiaramente dorati compagni – un oggetto assai sommesso, nella sua preziosità.
L’anello da coniugato, lui pure, svolge un lavoro, completando il catalogo degli ori da sacramento che un uomo può accumulare rimanendo fedele alle norme più ovvie della propria tribù di genere. Già il bracciale, meno chiaramente funzionale, è un vezzo intrigante, tanto da sortire immagini vagamente razziste: il giostraio, lo spacciatore, il pappone, al limite il rapper.
Orecchino sovversivo
Ma cosa c’è di più volgare, in realtà, dell’utilità? Baudelaire, nel suo trattato sulla vita elegante, dichiarava di detestarla, di trovarla ripugnante. Ce lo ricorda Giorgio Agamben, nel suo immortale studio sul dandy e sul feticcio uscito esattamente cinquant’anni fa, in cui si chiarisce come la cura monastica e totale per il superfluo, per l’inservibile, sia addirittura una resistenza post-umana al capitalismo. Altro che vezzi frufru, altro che eccessi d’ostentazione.
Mi piace pensare di essere stato un ragazzino naturalmente predisposto all’eleganza e al socialismo, a un dandismo radicale, perché quegli ori utili mi piacevano anche, ma li avrei dati via tutti in un amen in cambio di un orecchino. Invidiavo, in particolare, un’amica di tutta la vita, Valeria Lollobattista (oggi architetta), che già nella primissima adolescenza aveva ottenuto un doppio buco al lobo destro, da cui faceva pendere coppie di orecchini identici sfacciatamente disinteressati alla buona norma della simmetria.
Mai nella vita, ovviamente, mia madre me ne avrebbe concesso anche uno finto. Mi spiegò, con una certa solennità, che solo due categorie di maschi si bucavano le orecchie: i galeotti e i pederasti. A seconda del lato da cui pendeva l’orecchino avrei potuto determinare a quale delle due comunità apparteneva chi lo portava. Non era vero, chiaramente – erano forse invertiti da disco anni Settanta o avanzi di galera Orlando Bloom, Harrison Ford, l’insegnante di religione che faceva il vicepreside al mio liceo o i vari maschilissimi eroi con l’orecchino dei cartoni giapponesi più fichi, da Zoro di One Piece a Nara di Naruto o Ryuk di Death Note? Certo che no.
Ma la leggenda sul significato dell’orecchino da maschi, scopro online, perdura. Ha fortuna, credo, perché assegna a quel gioiello inutile una funzione, lo rende discrimine tautologico della gioielleria virile: se lo hai, sei fuori norma, la comunione e la cresima non te le meriti.
Evadere la trama
A un certo punto, nell’Orlando furioso, il valoroso Ruggiero rimane invischiato in una confortevole ma obnubilante relazione con una maga sull’isola che lei governa, un po’ come accade a Ulisse. Lei lo vizia, lo vezzeggia, gli fa dimenticare la guerra cui dovrebbe partecipare dall’altro capo del mondo e la donna guerriera cui dovrebbe congiungersi per figliare, producendo la dinastia che secoli più tardi proteggerà Ariosto perché scriva il poema di cui è protagonista.
Lo va a cercare un’altra fata, quella buona, che lo trova rammollito: mangia frutti prelibati, se ne sta in panciolle, ha i bei riccioli curati e pieni di balsamo profumato. Indossa, soprattutto, un paio di lunghi orecchini, segno certo che ha smarrito la via dell’epica maschia per diventare un femmineo ragazzo in vacanza. Lo rimprovera, rimettendo in moto la sua storia cavalleresca. Gli impedisce, insomma, di diventare un dandy, un felice mantenuto, e lo costringe a scoprire che la sua maliarda ospite è in realtà una «puttana vecchia» (cito dal testo) che si finge giovane e bella grazie al potere di un suo gioiello magico – esattamente come Melisandre, la sacerdotessa rossa di Game of Thrones.
Nel togliersi gli orecchini, anche Ruggiero diventa un altro, rivela sé stesso, ma non so se la sua versione attiva, funzionale alla storia, sia poi tanto da preferire a quella che invece interrompe la trama per circonfonderlo di delizie riposanti. Gli ori utili non destano rimproveri né sgomento, quelli sfacciatamente appariscenti hanno appunto l’utilità di apparire: di fare apparente lo status di chi li esibisce, cortigiano o star della trap che sia, dichiarando «ce l’ho fatta» agli haters che non si aspettavano un esito di successo a seguito di umili o accidentate origini.
Gli ori discreti ma inutili del dandy disfunzionale, che rifiuta di portare avanti una narrazione, un’industria, e si dedica invece alla ricerca di oggetti irriducibili a merce, sono più radicali, più sovversivi. Pendendo da un orecchio, da un polso o da un colletto, in realtà ostacolano l’azione: minacciano d’impigliarsi a qualcosa, d’inceppare l’ingranaggio dell’avventura, di richiedere alla maschilità un’accortezza e un’eleganza che tradizionalmente non le competono. Più dei piercing aggressivi o spettacolari, più degli anelli che legano o esprimono poteri, questi ori che tua zia non si sognerebbe mai di regalarti sono il distintivo di un virile che si rifiuta di svolgere le proprie stanche funzioni.
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