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- Scrivere di meme è un po’ come ballare di architettura
- Ben sapendo che comunque sarà impresa destinata al fallimento: quella combinazione così peculiare di parole e immagini che chiamiamo meme è qualcosa che sembra trascendentalmente rimandare alla distanza inemendabile tra pulsione libidinale (della battuta trasgressiva) e scrittura.
Scrivere di meme è un po’ come ballare di architettura. Perdonami Frank Zappa (a cui solitamente è attribuita la frase precedente, ma con la musica al posto dei meme), ma “scrivere di meme” è proprio quello che mi accingo a fare.
Ben sapendo che comunque sarà impresa destinata al fallimento: quella combinazione così peculiare di parole e immagini che chiamiamo meme è qualcosa che sembra trascendentalmente rimandare alla distanza inemendabile tra pulsione libidinale (della battuta trasgressiva) e scrittura (e cioè la sua componente artificiale, da macchina celibe, cadavre exquis digitale: in una parola pulsione di morte).
Ecco, quello che ho scritto potrebbe essere serio ma potrebbe essere anche un meme, se magari abbinato all’immagine di Gilles Deleuze o di qualche altro maestro della French Theory, uscito dall’account più divertente e geniale che abbia trovato negli ultimi tempi. Su Instagram si chiama @lacanyewest, crasi tra Jacques Lacan e Kanye West, e tira fuori ogni giorno esilaranti (per modo di dire: qualcuno ha mai riso davvero davanti a un meme, IRL, “in real life” direbbero su Internet?) e spiazzanti ricombinazioni o parodie, fatte di gergo lacaniano applicato all’ultimo tormentone estivo su un tanga scomparso (non chiedetemi niente, del resto non saprei rispondervi), Don Matteo rifatto da Bergman, decostruzioni derridiane di altri meme, Žižek alle prese con le barzellette di Totti. Certo, devo specificare: esilaranti per me.
Ma in fondo quanti altri maschi, sovrascolarizzati, ironici, esperti di due cose sommamente inutili quando non dannose come la cultura pop e il post-strutturalismo ci saranno in giro? Non saprei il numero preciso, ma di certo abbastanza per indurre una riflessione sul fallimento dell’università italiana.
Ma non divaghiamo e torniamo a me: una delle cose che trovo più divertenti dei post di @lacanyewest è che molti dei suoi pastiche potrebbero, be’, essere veri. Nel senso che in molti di quei filosofi e psicanalisti, ma sopratutto nei loro epigoni dipartimentali, lo stile diventa gergo, la teoria diventa macchinetta ermeneutica applicabile a tutto e che su tutto restituisce sempre gli stessi risultati a seconda dell’approccio scelto (il biopotere, le colpe del neoliberismo, il plusgodere ecc).
E del resto Žižek davvero passa metà dei suoi libri a raccontare barzellette! A ogni post, quindi, c’è sottesa la più tragica delle domande: e se tutto ciò a cui sto immolando la giovinezza e l’intelligenza fosse un’impostura? Se fosse completamente inutile? Ma subito dopo c’è un altro livello che fa capolino, un altro layver: sarà un’impostura, ma, signori miei, è divertente. L’ironia è un’invenzione romantica.
Nella sua accezione moderna è un dispositivo retorico che tra Sette e Ottocento hanno tirato fuori un gruppo di artisti e filosofi tedeschi. Si sono accorti che così si poteva dire, attraverso una cosa falsa, qualcosa di vero: e cioè un modo per dire che l’autenticità è un’illusione, o al massimo qualcosa a cui tendere, che non siamo un tutt’uno con la natura, col mondo, ma ne siamo alienati da sempre.
È andata così, mi dispiace: siete tutti alienati in maniera “trascendentale”, come si dice, così come (occhio!) sono alienato io, artista costretto a lavorare nella società borghese e mercantile (di cui comunque sono figlio). D’accordo, l’ho fatta un po’ semplice: ma il succo è che l’ironia è una retorica di protezione, una costruzione vittimaria, per qualcuno che si ritiene minoranza minacciata dal “mainstream”. Ma gli stessi romantici si erano accorti di una cosa. L’arma che avevano costruito, l’ironia, è un’arma straordinariamente potente. Come diceva Schelling: «Con l’ironia non bisogna assolutamente scherzare».
Ho passato gli anni più fecondi e fragili della mia giovinezza sul pianeta Derrida. Un bizzarro corpo celeste in cui tutto poteva significare tutto, anzi doveva significarlo, in particolare il suo opposto. Dato che non c’è un fuori-testo, ogni testo dice quanto più nega, anzi dice soprattutto quello che non-dice, che silenzia. È un pianeta in cui, a un testo, più gli fai dire quello che apparentemente non dice, quello che esplicitamente nega, e più sei bravo.
In quel tipo di critica, quando fatta da maldestri epigoni come il sottoscritto, c’era innegabilmente una certa tendenza al ribaltamento pirotecnico, al far dire ai testi qualcosa di quanto più possibile lontano dalla lettera. E c’era anche l’idea del linguaggio come un piano slegato dalla realtà, uno spazio “sicuro” in cui tutto può darsi e ribaltarsi, perché tanto il linguaggio “è autonomo”, è perennemente negoziabile.
Che, ironicamente?, è il clima della discussione pubblica e politica in cui siamo immersi, quello in cui vale tutto e il contrario di tutto, oggi si può parlare di cambiamento climatico e domani far finta che non esista, dove si può dire tutto che tanto non verrà preso sul serio, né avrà delle conseguenze.
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