Nel saggio di Federico Fornaro sul Referendum del 2 giugno, il racconto di come la stampa accolse il suffragio femminile. L’Avanti titolò: «La democrazia è entrata nei comuni sorridendo». Il Resto del Carlino invece lo attaccò con sarcasmo
- Il 10 marzo 1946 fu il ritorno alle urne degli italiani nei comuni comunali, ma soprattutto per la prima volta dall’Unità parteciparono alla consultazione elettorale amministrativa anche le donne.
- I Fogli delle Brigate Nere raffigurarono due donne lacere con la borsa della spesa, in cui la prima chiedeva «Cosa c’è di nuovo al mercato?» e l’altra rispondeva «Il diritto di voto alle donne».
- La partigiana comunista e costituente Teresa Noce ricorderà: «Si diceva che, data l’arretratezza persistente tra le masse femminili, specialmente in quelle delle campagne e del Meridione, ancora in prevalenza dominate dalla Chiesa, avremmo portato solo milioni di voti alla democrazia cristiana».
Con il Decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1, il governo De Gasperi approvò le norme per le consultazioni elettorali amministrative. Le prime elezioni libere dopo il ventennio fascista furono distribuite in due turni: uno primaverile, nelle cinque domeniche tra il 10 marzo e il 7 aprile, e il secondo in autunno, nei mesi di ottobre e novembre.
Nella prima tornata si votò in 5722 comuni, di cui 3158 nel Nord (circa l’80% del totale), 804 nel Centro (poco più dell’84%) e 1255 nel Sud (quasi il 74%). Gli elettori chiamati al voto furono 19 802 580, con un’affluenza dell’82,3% (uomini 83,0% e donne 81,7%). In autunno, votarono i rimanenti 1383 comuni.
Per comuni con meno di 30 000 abitanti fu scelto il sistema maggioritario con voto limitato ai 4/5 dei consiglieri da eleggere, già in vigore prima del fascismo, mentre per quelli con popolazione superiore o che fossero capoluogo di provincia, per la trasformazione dei voti in seggi venne decisa l’adozione della formula proporzionale con una ripartizione dei seggi secondo il metodo del comun divisore (d’Hondt).
Il 10 marzo 1946 fu dunque una data importante nella storia d’Italia non soltanto perché vide il ritorno alle urne degli italiani nei comuni chiamati al voto per eleggere i consigli comunali, ma soprattutto in ragione di un evento ancor più unico: per la prima volta dall’Unità parteciparono alla consultazione elettorale amministrativa anche le donne. «La democrazia è entrata nei comuni sorridendo», titolò enfaticamente l’Avanti! il 12 marzo 1946.
Fu anche il primo voto per tanti giovani che non avevano potuto esercitare i loro diritti politici durante il ventennio fascista.
«Quando votai per la prima volta alle elezioni amministrative dell’aprile 1946 avevo quasi 37 anni», ha raccontato Norberto Bobbio. «L’atto di gettare liberamente una scheda nell’urna, senza sguardi indiscreti [...] apparve quella prima volta una grande conquista civile, che ci rendeva finalmente cittadini adulti. Rappresentava non solo per noi ma anche per il nostro paese l’inizio di una nuova storia».
In verità l’estensione del voto alle donne era stata sancita l’anno precedente, durante il secondo governo Bonomi, con il Dll 1° febbraio 1945, n. 23, auspice un accordo tra Togliatti e De Gasperi. Il decreto era stato una diretta conseguenza della «prima costituzione provvisoria» che all’articolo 1 aveva stabilito che l’Assemblea costituente avrebbe dovuto essere eletta «a suffragio universale e diretto».
Il diritto di voto fu concesso alle donne che avessero compiuto i 21 anni d’età alla data del 31 dicembre 1944, ovvero raggiunto la maggiore età dell’epoca. Le uniche escluse erano le prostitute che esercitavano al di fuori delle case chiuse.
Con le poche, scarne parole contenute nel testo approvato nella seduta del Consiglio dei ministri del 30 gennaio 1945 si sanciva così «il raggiungimento dell’obiettivo di una lotta secolare delle donne europee e americane, per il quale, anche se in misura minore rispetto ad altri paesi, si erano battute anche le emancipazioniste italiane».
L’estensione del suffragio non suscitò, a onor del vero, particolari dibattiti pubblici né prima e né dopo l’approvazione del decreto. Sulla stampa, anche quella di partito, infatti, l’argomento non venne trattato come la portata epocale della decisione avrebbe meritato. Fece eccezione «L’Unità» che dedicò alla questione un editoriale dal titolo Vittoria della democrazia. Nell’Italia occupata, «Il Resto del Carlino» uscì il 31 gennaio 1945 con un titolo al vetriolo: Mentre si muore di fame ci si preoccupa del voto alle donne, in perfetta sintonia con una vignetta che apparve su «Fogli d’ordini delle Brigate Nere», di fatto in quei mesi l’organo del Partito fascista repubblicano, raffigurante due donne, magre e lacere, con in mano una borsa della spesa desolatamente vuota, in cui la prima chiedeva «Cosa c’è di nuovo al mercato?» e l’altra le rispondeva «Il diritto di voto alle donne».
«Non si può negare che questo diritto sia stato riconosciuto più per l’opera dei partiti», scrisse Maria Comandini Calogero, responsabile del movimento femminile del Partito d’Azione, «che da esso contano di trarre grandi vantaggi elettorali, che non da una vera agitazione popolare che abbia obbligato il governo a questa concessione».
I socialisti, che come gli azionisti non erano presenti con loro rappresentanti nel secondo governo Bonomi, accolsero favorevolmente il decreto sul voto alle donne. Nel consiglio nazionale del Psiup del settembre 1944 era stato approvato un ordine del giorno in cui si denunciava «l’illogica e ingiusta ripartizione dei diritti sia politici sia sociali verificatasi fin’ora nei riguardi delle donne nell’attuale ordinamento sociale. La donna italiana deve essere chiamata a dare il suo contributo alla vita politica e amministrativa del paese, mediante il diritto di voto».
La relativa facilità con cui Bonomi accettò l’estensione del suffragio, derivò anche dal fatto oggettivo che gli uomini dei partiti non potevano disconoscere i titoli acquisiti dalle donne nel periodo della guerra e nella Resistenza.
Il decreto n. 23, però, conteneva una grave mancanza. Nel testo, infatti, non c’era menzione dell’elettorato passivo, ponendo quindi le donne italiane nell’anomala posizione di poter votare ma non di poter essere candidate e quindi elette. Già, a ridosso dell’emanazione del decreto, l’11 febbraio 1945, l’Unione donne italiane (Udi), che nell’autunno 1944 aveva promosso, insieme al Centro italiano femminile (Cif), il «Comitato pro-voto», chiese al presidente Bonomi di porvi prontamente rimedio.
Ci volle, invece, più di un anno per sanare la questione, a testimonianza che questa mancanza potesse essere interpretata anche come «una spia del fatto che il principio dell’eleggibilità delle donne suscitava perplessità ed ostacoli»,11 sebbene il governo avesse cercato di rimediare all’errore sia con le nomine alla Consulta nazionale sia con la candidabilità alle elezioni amministrative.
Il fatto che il voto alle donne «veda la luce monco, zoppicante» sarebbe, inoltre, la dimostrazione di una difficoltà «del loro divenire cittadine, del loro ingresso in quella sfera pubblica che è stata disegnata sulla loro esclusione».
Con il già ricordato Dll del 10 marzo 1946, n. 74 dal titolo Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea costituente, le donne vennero finalmente e completamente equiparate agli uomini nei diritti politici di elettorato attivo e passivo.
La lotta delle donne per il suffragio universale aveva radici lontane nel tempo. Nel lontano 1867 il deputato mazziniano Salvatore Morelli presentò una proposta di legge dal titolo «Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici». Nelle successive legislature, il tema dell’estensione del diritto di voto alle donne fu oggetto di iniziative legislative parlamentari per ben venti volte, senza successo.
La battaglia per il diritto di voto femminile arrivò molto vicina alla vittoria quando la Camera dei Deputati, approvò in prima lettura, il 6 settembre 1919, una legge che prevedeva il suffragio universale, ma il testo non riuscì a completare l’iter legislativo in tempo utile al Senato.
Dopo la censura alle aspirazioni emancipatrici nel ventennio fascista, con la Resistenza riprese vigore l’iniziativa delle donne per il riconoscimento dei loro diritti e furono fondate le prime associazioni femminili.
La maggiore di queste, l’Udi, nacque il 15 settembre 1944 da un comitato promotore di cui facevano parte esponenti dei partiti comunista, socialista, azionista e della sinistra cristiana, anche se il Pci mantenne sempre un forte controllo organizzativo e politico sull’organizzazione, che nel 1946 superò le 400 000 iscritte.
L’attenzione alle tematiche femminili maturò anche nel mondo cattolico. Dopo essere uscite dall’Udi poche settimane dopo la sua costituzione, le donne cattoliche, nell’ottobre 1944, diedero vita al Cif, organizzazione collaterale dell’Azione cattolica e impegnata a sostegno della Dc, che svolse il suo primo congresso il 21-22 ottobre 1945.
Paradossalmente, invece, i partiti espressione della cultura laica e azionista, che pur attribuivano al diritto del voto un valore sul piano della libertà individuali, finirono per mostrarsi quasi indifferenti se non addirittura diffidenti verso il voto alle donne. La preoccupazione delle sinistre, in particolare, era quella che la monarchia e la Dc potessero trarre benefici significativi in termini di consenso elettorale dall’entrata sul mercato elettorale dell’universo femminile, più ricettivo ai messaggi tradizionali e di continuità della propaganda di casa Savoia e della Chiesa.
Tra gli azionisti c’era chi si spingeva a teorizzare che «la mente femminile tende a seguire più di quanto non voglia quella maschile, l’impulso immediato che la spinge di più verso le forme politiche che ritiene più rispondenti alla fede religiosa od a quella, di tipo, in un certo senso pure religiosa, del socialismo e del comunismo».
Tra i leader che si spesero maggiormente per il voto alle donne vi furono certamente De Gasperi «non solo per una convinzione profondamente maturata», ma anche «per il vantaggio immediato che ne avrebbe tratto sul terreno elettorale», e Togliatti che, nonostante non si nascondesse i rischi legati al consenso elettorale, indicò nel suffragio femminile «un passaggio imprescindibile per il progresso e il radicamento democratico».
Nenni e i socialisti, invece, rimasero più defilati in questa battaglia. Il leader del Psiup in un articolo sull’«Avanti!» del 3 febbraio 1946 riconobbe pubblicamente che «quando si è posto il problema di dare il voto alle donne, anche nelle nostre file abbiamo incontrato alcune resistenze». Remore che erano presenti anche nello stesso Pci, perché come ricordò Teresa Noce «si diceva che, data l’arretratezza persistente tra le masse femminili, specialmente in quelle delle campagne e del Meridione, ancora in prevalenza dominate dalla Chiesa, avremmo portato solo milioni di voti alla democrazia cristiana».
Tra gli esponenti della cultura cattolica, invece, vi era la preoccupazione di un aumento dell’astensionismo, già assai elevato nell’epoca prefascista, anche in ragione «della concessione del voto alle donne, meno educate all’esercizio del diritto politico», nelle parole di Mortati in una radioconversazione del 9 dicembre 1945.
Questi timori erano all’origine della battaglia condotta dalla Dc a favore del voto obbligatorio.
«Quando nei prossimi anni sarà entrato nelle cose normali e pacifiche l’esercizio del voto femminile», scrisse nel marzo del 1945 la presidente del Cif, Maria Federici, «ripensando alla fatica che si è fatta per stimolare e orientare favorevolmente la questione degli uomini di governo, opinione pubblica e attenzione femminile, ci verrà da ridere».
da Federico Fornaro, 2 giugno 1946. Storia di un referendum
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