I greci Ippocrate e Nicostrato; il romano Orazio; Bartolomeo Scappi, cuoco alla corte di re Carlo V di Spagna, e Nikita Sergeev, cuoco stellato marchigiano. Ad unirli sono i loro consigli e i loro piatti sui ricci di mare, consumati e particolarmente apprezzati sin dall’antichità. Non è un caso, infatti, che siano menzionati anche nel De re coquinaria, il libro di ricette del cuoco Apicio, vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. nella Roma imperiale: «Prendi una pentola pulita e fai bollire un po’ di olio, garum, vino dolce e pepe in polvere. Appena bolle, versa su ciascun riccio questa salsa. Mescola e fai bollire per tre volte. A cottura ultimata, condisci con pepe e servi».

L’apprezzamento verso i ricci era tale da essere un punto di riferimento anche in economia: nell’editto dell’imperatore Diocleziano, Edictum De Pretiis Rerum Venalium, emesso nel 301 nel tentativo di riformare il sistema delle tasse e di stabilizzare la moneta in corso all’epoca, veniva stabilito il prezzo dei ricci di mare puliti freschi, cioè 50 denari, e dei ricci di mare sotto sale, che invece costavano di più e cioè 100 denari.

Oggi, però, la storia sembra essere decisamente diversa: l’inquinamento e il bracconaggio sono tra i fattori che hanno determinato la penuria dei ricci in tante regioni italiane. La conseguenza è stata il blocco della pesca in alcuni territori, come ad esempio la Puglia, per permettere il ripopolamento della specie e aiutare così anche tutto il mare.

Il consumo e la necessità del fermo

I dati più recenti evidenziano come la produzione mondiale del riccio di mare sia in crescita dal 1950, con un picco di quasi 120mila tonnellate nel 1995. Secondo i dati della Fao del 2022, ogni anno vengono consumati nel mondo circa 75mila tonnellate di ricci, di cui duemila in Italia: con il progressivo calo del prodotto, che già nel 2018 era arrivato a poco più di 60mila tonnellate a livello globale, è stata nel frattempo introdotta anche la produzione attraverso l’acquacoltura.

Resta un problema: i ricci commestibili, i Paracentrotus lividus di cui si consumano le gonadi, non sono più sufficienti per soddisfare la domanda del mercato nonostante la pesca vada oggi oltre i limiti di un tempo, quando venivano raccolti solo in zone poco profonde. Per questo regioni come la Sicilia, un tempo prolifere, hanno iniziato a denunciare il rischio estinzione mentre la Puglia ha scelto di fermarsi fino al 2025 (una decisione approvata anche da una sentenza della Corte costituzionale dello scorso febbraio).

In controtendenza la Sardegna che, nonostante un fermo presente dal 2021, ha nuovamente dato la possibilità ai pescatori di raccoglierli, anche se solo per quattro giorni a settimana. Mentre le regioni si dividono, gli episodi di pesca di frodo continuano a essere frequenti, sia sulla costa adriatica che su quella tirrenica.

Il caso del Lazio

Questa è un po’ anche la storia del Lazio, specie della zona della Tuscia dove la pesca è consentita ma i ricci sono ormai pochi. A contribuire a tale scarsità c’è anche il bracconaggio: secondo i dati presentati al convegno organizzato dalla comunità Slow food del Riccio di mare Santa Marinella e Civitavecchia lo scorso aprile dal titolo “Riccio di mare – tra prelibatezza ed estinzione”, dal 2019 a oggi sono stati posti sotto sequestro e rigettati in mare in quanto ancora vivi e vitali circa 200mila esemplari di echinodermi e sono state irrogate sanzioni a pescatori abusivi per un ammontare di circa 300mila euro.

«Il rischio di arrivare anche qui a un blocco come in Puglia è alto, perché sono ormai rarefatti. I ricci di mare, aldilà della loro funzione gastronomica, sono biondicatori importanti perché danno l’idea dello stato del mare», racconta Angelo Fanton, portavoce della comunità Slow Food del Riccio di mare di Santa Marinella e Civitavecchia.

Le ragioni di tale scarsità sono chiare: «I ricci sono pochi a causa dell’inquinamento causato dallo sversamento dei prodotti agricoli nei fiumi che danneggiano l’ecosistema, con danni visibili anche 400 metri intorno alle bocche, e della pesca di frodo, con persone legate a organizzazioni che sono venute per anni a pescare senza permessi facendo incetta di ricci, anche 30mila alla volta. A questi si aggiungono anche abitanti locali, che li pescano lontano dai periodi tradizionali e poi li rivendono ad amici ristoratori», rimarca Fanton.

Tra le ragioni della pesca di frodo c’è sicuramente l’utilizzo in cucina, dove c’è una tale richiesta da costringere ad importarne dalla Spagna o dall’Asia, facendo così perdere freschezza al prodotto. «Per questa ragione già lo scorso anno avevamo presentato a Slow Fish a Genova una ricetta di “spaghetti ai ricci di mare fujuti”, dove non c’erano i ricci di mare. Riprodurre in cucina un sapore non usando uno specifico ingrediente non è semplice: io per primo ci ho messo tempo per perfezionare una ricetta che riproduce abbastanza fedelmente il gusto dei ricci, usando le cozze e il rosso dell’uovo.

Quest’anno, in occasione della nostra festa dei ricci di mare, abbiamo lanciato un contest chiedendo ai ristoratori della zona di preparare una loro ricetta di spaghetti ai ricci, ma senza ricci: 12 chef si sono prestati e hanno utilizzato ingredienti diversi, dagli anemoni alle seppie. La nostra idea era quella di far capire ai ristoratori che esistono alternative ugualmente valide ai ricci, specie se questi sono importati e hanno ormai perso il loro gusto», dichiara il portavoce della comunità Slow Food laziale.

Per permettere il ripopolamento del mare laziale il blocco totale come in Puglia non è però l’unica soluzione: come racconta Fanton, «durante il convegno abbiamo scoperto che ci sono anche altre soluzioni come quella adottata a Procida dove c’è una vera e propria “nursery”, dove i ricci vengono allevati durante il loro primo anno di vita e poi liberati nel loro habitat naturale. Uno spunto interessante che potrebbe anche essere replicato, anche se serve un protocollo rigoroso per definirne le modalità».

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