- Se il film italiano più bello del 2022 è una serie, allora sì: abbiamo un problema. The Bad Guy è un prodotto, come si dice oggi, che fino a dieci anni fa o pure meno avremmo sicuramente visto al cinema.
- È in tv e sulle piattaforme che, oggi, stanno le idee, e il coraggio, e soprattutto la sfida alla pigrizia.
- Il cinema, soprattutto quello italiano, va malissimo per un numero imprecisato (e sempre molto impreciso) di motivi, e allora, in estrema sintesi, tutti stanno sul divano a guardarsi le serie.
Se il film italiano più bello del 2022 è una serie, allora sì: abbiamo un problema. The Bad Guy – di questo sto parlando: è su Prime Video, ma lo sapete – è un prodotto, come si dice oggi, che fino a dieci anni fa o pure meno avremmo sicuramente visto al cinema. Ha un cast da cinema (il protagonista Luigi Lo Cascio su tutti), e una scrittura da cinema (anche se lo firmano alcune delle firme migliori della serialità corrente: Ludovica Rampoldi e Davide Serino, insieme al regista Gianluca G. Stasi), e un passo che negli ultimi anni avremmo voluto trovare al cinema, ma non è successo praticamente mai. E questo è il problema. In tanti gridano al miracolo, alla rivoluzione, ma si può anche evitare l’iperbole; basta confermare che è in tv e sulle piattaforme che, oggi, stanno le idee, e il coraggio, e soprattutto la sfida alla pigrizia. Ma da fruitori, sempre come si dice oggi, sapete di sicuro anche questo.
Tutti sul divano
Il cinema, soprattutto quello italiano, va malissimo per un numero imprecisato (e sempre molto impreciso) di motivi, e allora, in estrema sintesi, tutti stanno sul divano a guardarsi le serie. È una colpa? Vanno accusati di non essere quelli che sostengono le sale e “l’esperienza”, qualunque cosa significhi questa parola, che si prova seduti su una poltrona al buio?
Non credo; o comunque è un’indignazione, quella dei sostenitori della sala duri e puri, antistorica. (L’ultima “esperienza della sala” che ho vissuto io – io che solitamente vedo i film alle anteprime stampa o tramite link mandati dai distributori, io che quando devo recuperare qualcosa mi pago il biglietto, cosa che ho scoperto non fa praticamente nessuno scribacchino di settore – dicevo, l’ultima “esperienza della sala” che ho vissuto è stata davanti al secondo Black Panther uscito il mese scorso; c’era gente che continuava ad arrivare a film già iniziato da un pezzo, e poi un costante andirivieni dal bagno, e per andarsi a comprare i popcorn, e per fare una telefonata, o forse un TikTok; il pubblico era perlopiù giovane, e la mia tesi è che oggi il pubblico più giovane – o forse dovrei dire il pubblico in generale? – è così facile alla distrazione da non riuscire a star seduto a vedersi un film senza interromperlo diciotto volte; in ogni caso, se questa è oggi “l’esperienza della sala”, si capisce perché in massa si resta sul divano. Fine della lunghissima parentesi.)
«Dobbiamo aggrapparci con le unghie e con i denti ad Avatar», mi diceva la settimana scorsa una persona che conosco che lavora in uno dei cinema ancora “sani” di Milano (anche perché gli altri hanno praticamente chiuso tutti); uno di quelli che organizzano tantissime presentazioni con gli attori e i registi (che effettivamente riempiono le sale più degli spettacoli ordinari), uno di quelli in cui si fanno i festivalini local, uno di quelli dove ti puoi mangiare l’hamburger mentre guardi Top Gun, eccetera.
Gli eco-alieni blu di James Cameron salveranno le nostre sale (e il nostro cinema italiano)? Non credo neanche questo, ma ormai siamo nel campo del fideismo: bisogna appellarsi a qualsiasi cosa per sperare che la nerissima situazione migliori.
(Anche se è partito bene, immagino che Avatar - La via dell’acqua non farà sfracelli, almeno da noi. Anche perché, dopo anni di prodotti Marvel serializzati e spesso inutili, se non pessimi, riconferma che dietro c’è una visione d’autore, nel bene e nel male, molto più libera di quelle delle major. Visione che, insieme alle tre e ore e un quarto di durata, richiede una disposizione e una partecipazione maggiori, da parte dello spettatore medio ormai, dicevo prima, pigrissimo e distrattissimo. Ma aspetto di essere smentito).
Il botteghino italiano soffre
Numeri e analisi degli esperti alla mano, si può tranquillamente (mica tanto) affermare che quest’anno il botteghino italiano ha sofferto assai. Pure quando sono arrivati i film fatti apposta per incassare.
Non ha registrato un gran successo, rispetto alle aspettative, il suddetto Black Panther: Wakanda Forever (fermo a otto milioni e mezzo: in un’altra epoca, neanche troppo lontana, ne avrebbe fatti almeno 20), non funziona nemmeno l’animazione per bambini (ultimi titoli usciti: Il gatto con gli stivali 2 di Dreamworks, due milioni e qualcosa in due settimane; e Strange World - Un mondo misterioso, Disney, un milione e 300mila euro appena in tre settimane – ma ha floppato pure in patria).
Quanto alla produzione nostrana, be’: vi basti sapere che mi sono arrivati comunicati stampa di sommo giubilo perché una commedia popolare, pensata per il grande pubblico, era arrivata a 600mila euro nel primo weekend di programmazione. Cifre per oggi notevolissime, ma è come coi libri e i dischi: si entra in classifica con un pugno di copie.
Un caso strano
Il vero e solo caso nazionale quest’anno è il titolo che nemmeno io avevo previsto sarebbe arrivato a tanto, nonostante l’operazione furbissima sulla carta: Toni Servillo più Ficarra & Picone più Pirandello più il mix di dramma e commedia più la doppia strizzata d’occhio al pubblico di massa e al ceto medio riflessivo più l’accordo tra 01 Distribution e Medusa (leggi: Rai e Mediaset) come tregua necessaria per fronteggiare i tempi di carestia.
La stranezza di Roberto Andò è il film che, si diceva una volta, mette d’accordo pubblico e critica; ha superato i cinque milioni d’incasso dopo un mese dall’uscita, risultato pressoché eccezionale per un film italiano oggi.
È quello che sono andati a vedere il pubblico âgé e i ragazzi delle scuole, e tutta quella fascia di mezzo che forse al cinema (a vedere, per giunta, un film italiano) negli ultimi mesi non c’era andata mai. Ripeto: va tutto rapportato ai numeri di oggi; ma cinque milioni sono, appunto, roba grossa.
È dunque La stranezza un esempio da imitare? Certamente sì. Se però si vuole convalidare la tesi che il cinema è ancora un paese per vecchi (senza offesa) e per scolaresche in libera uscita, e non più – almeno da noi – il luogo della sperimentazione, dei tentativi, degli errori. Perché gli errori, oggi, costano troppo.
E dunque sperimentazioni ed eventuali errori (o a volte, miracolosamente, no) si fanno altrove; si fanno con chi – Netflix, Amazon, Disney, Paramount e compagnia streamante – può ancora rischiare i propri soldi, cosa che i produttori di cinema tout-court sembrano non fare più da un pezzo.
Se persino le commedie natalizie pensate per il grande pubblico – leggi: Improvvisamente Natale di Francesco Patierno, con un cast di nomi “sicuri” della comicità come Diego Abatantuono, Nino Frassica e il Mago Forest – va direttamente su Prime Video, allora sì: c’è un altro problema.
Il più bello è il più disertato
Il coraggio in Italia si paga sempre di più. Il film italiano più bello dell’anno – Bones and All di Luca Guadagnino, italianissimo a dispetto del cast e dell’ambientazione americani – è stato decisamente disertato dal pubblico.
Credo avrà vita lunga, è un film destinato a restare. Ma si capisce che è sempre più rischioso per chiunque investire in progetti come questo, se non si è produttori particolarmente illuminati.
Voi direte, e non necessariamente rispetto a questo caso specifico: sì ma c’è il tax credit, ci sono le vendite alle tv e alle piattaforme; tutto vero, ma così si stabilisce che è sdoganato anzi consentito, che i film in sala ormai facciano poco o niente.
Il cinema popolare
E il futuro? Intanto, sul fronte cinema natalizio, si attende il risultato del Grande giorno, il ritorno dopo tre anni di Aldo Giovanni e Giacomo in una commedie delle feste diretta dal solito collaboratore Massimo Venier, che è meno slapstick e più malinconica, si direbbe un po’ francese; è un film un po’ più sofisticato della media del genere, molto ben recitato (ci sono pure Elena Lietti, Lucia Mascino, Antonella Attili, Roberto Citran e tanti altri, giovani e non), in cui gli ex Bulgari accettano di fare i signori in età, con conseguente e intelligente maturità anche della loro comicità.
È il titolo che dovrebbe confermare o meno la tenuta del nostro cinema popolare nel momento in cui, storicamente, è destinato a incassare di più.
Quanto al resto, lo scrivevo anche su queste pagine, sempre più autori nostrani serializzano progetti inizialmente nati per il grande schermo (Marco Bellocchio con Esterno notte sulla Rai, Gabriele Muccino con A casa tutti bene per Sky, Ferzan Özpetek con Le fate ignoranti su Disney+) e nuovi registi si affacciano ai modi e ai soldi della serialità (a inizio 2023 Edoardo De Angelis con La vita bugiarda degli adulti, su Netflix, e prossimamente i Fratelli D’Innocenzo con l’ancora misteriosa Dostoevskij per Sky); ai festival e alle sale resta il “cinema d’autore”, pure questo qualsiasi cosa significhi oggi.
E così all’estero, Stati Uniti in primis: i film cosiddetti mainstream, quelli che arrivano ai premi e coinvolgono grandi star – penso a Tár di Todd Field con Cate Blanchett o a Babylon di Damien Chazelle con Brad Pitt e Margot Robbie – sono prodotti destinati a una nicchia sempre più piccola e militante. Il grande racconto popolare, quello diciamo così più potabile per la grande platea, oggi si fa sugli schermi piccoli o piccolissimi.
Il discorso è chiaramente più ampio e non si esaurisce qui. Questi erano alcuni facili esempi per dare il quadro dell’annata che sta per chiudersi, e per sperare in un futuro più lucente. Siamo (sono) pur sempre cinéphile della primissima ora, e all’esperienza della sala vogliamo ancora credere – come, forse, ancora si vuole credere a quel signore con la barba bianca che porta i regali giù per il camino.
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