- A Milano ci sono venuto in esilio, essendomi condannato in contumacia. L’ho capito subito che aria tirava, ascoltando senza volere due broker che dicevano «Gramsci lo mettiamo solo nella brochure»
- Mi sono trasferito a Milano per non diventare milanese, cioè per non appartenere a nessuna città; e Milano me lo permette, mi fornisce quel che basta per morire senza dilaniarsi troppo su quel che si è sbagliato nella vita
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Chi mi conosce poco, se capita che dobbiamo fissare un appuntamento, crede che io stia ancora a Roma; i consiglieri di qualche municipio della capitale ancora mi invitano ai convegni sulle periferie. Io abito in centro a Milano da più di dieci anni, ma la loro è una distrazione comprensibile.
Roma con le sue borgate mi ha lasciato un segno, ha governato le mie ossessioni erotiche; e anche se sotto casa c’erano solo code per i Musei Vaticani e polacchi ubriachi e vetri rotti, la bellezza del cielo e dei pini neri al tramonto ha aperto una ferita.
Il mio esilio
A Milano ci sono venuto in esilio, essendomi condannato in contumacia. L’ho capito subito che aria tirava, ascoltando senza volere due broker che dicevano «Gramsci lo mettiamo solo nella brochure». Il fondo di investimento in fondo alla strada si chiama ANIMA, tutto in maiuscole. Nel mio cortile hanno aperto uno showroom di moda con annesso ristorante, anzi bistrot. Il proprietario, un siciliano gentile, mi ha spiegato che trapanano e cambiano continuamente scenografie perché ai clienti ora non basta vendere i vestiti, gli devi vendere un’experience, «se no li comprano online».
Lungo via Volta si incontrano esseri improbabili, giovanotti con la gonna scozzese e le unghie viola, ragazze alte due metri con divise da ussaro: sono le avanguardie della razza nuova. I motociclisti, se mi lamento perché salgono sul marciapiede, mi trattano da vecchio rompicoglioni. Per guardarsi negli occhi c’è solo il parroco dell’Incoronata, oltre ai due ragazzi africani: il nigeriano che tende il berretto in via Solferino e il senegalese di largo La Foppa (sorridono, ringraziano ma non danno confidenza). I sudamericani poveri li incontrerei in via Padova, dove abita un amico, ma sono pigro e non ci vado mai.
Media durezza
Ci si abitua. Anzi è piacevole, nei giretti della mia solitudine (supermercati, farmacia, fruttivendolo o panetteria di lusso), sentirsi chiamare “signor Walter” con quella che il mio maestro Fortini, che abitava qui vicino in via Legnano, chiamava la «media durezza europea»: gentili e alla giusta distanza, non come a Roma invadenti e perennemente incazzati col mondo.
Mi sono trasferito a Milano per non diventare milanese, cioè per non appartenere a nessuna città; e Milano me lo permette, mi fornisce quel che basta per morire senza dilaniarsi troppo su quel che si è sbagliato nella vita. Gli esami di coscienza si attorcigliano torpidi in un ambiente ben amministrato, resistente all’onda misera che assedia, un reticolo di strade di moderato benessere dove gli intellettuali del settore terziario avanzato sorvolano sulle distanze sociali e si chiedono reciprocamente scusa se gli accade di dare fastidio. Qui i movimenti politici nascono ma vanno a fare casini altrove, i pensieri democratici non si negano a nessuno. Un habitat di Moscow Mule, bonus facciate, poké e vetrine di prodotti mirabilmente inutili (ingegnosi ingranaggi di legno, campane tibetane, gelati di latte crudo), mai ostili al progressivo spegnersi della vitalità.
Cantabile misantropia
Lentamente, passeggiando, mi sono costruito la mia Milano contro; contro l’eccesso di appartenenza ma anche contro lo snobismo di non appartenere. Misantropia cantabile. La Pietà Rondanini nella sua nuova sede al Castello, con quel braccio estraneo che appartiene alla mondanità, arrivandoci dalle foglie autunnali del Parco Sempione; certi cortili segreti coi fenicotteri rosa, o gli zigomi paludosi del musico di Leonardo all’Ambrosiana, o i mosaici liberty di via Malpighi con sotto l’insegna del Panino Giusto; il Torchio Mistico dell’Immacolata e gli angeli che raccolgono nei bicchieri il sangue-vino come “prezzo del perdono” (per citare l’agorafobo che dorme in pace da 150 anni nel suo sobrio parallelepipedo al Famedio del Monumentale).
Milano è cronaca che non dimentica la Storia, né le equidistanze necessarie tra il più squallido brown-nose e il salto in avanti che acceca. Ma soprattutto il mio pellegrinaggio è a Sant’Eustorgio, alla Cappella Portinari dove un predicatore domenicano grida ai fedeli di non adorare la Madonna in trono col Bambino, perché è il Diavolo! In effetti, a guardar bene, sia sul capo della Madonna che su quello del piccolo Gesù spuntano due paia di corna marroni.
Per andare alla pescheria di via Pontaccio passo all’incrocio con via Delio Tessa, gran cantore di postriboli e di Olga la puttana che un giorno gli rivelò come avevano soprannominato lui, il poeta (“l’avvocatt porscell”). Ora a Milano, se dovessi riaffidare la mia ossessione agli amori mercenari, dovrei consegnarmi agli erculei escort internazionali 2.0: quelli che volano da Miami a Dubai a Singapore conversando in un inglese fluente e nel tour talvolta fanno tappa in Europa, qui o a Ginevra o a Barcellona; quelli che hanno il Pos, così il cliente può pagare col bancomat. Meglio il caffè (decaffeinato) all’ombra della Torre Unicredit, e poi un giretto alla Biblioteca degli Alberi esultante di papaveri a giugno, e chiudere gli occhi nel cerchio dei salici piangenti. Milano o Rotterdam o Lione o Zurigo, che importa?
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