- Negli anni Duemila, con l’obiettivo di “ricostruire la grande Milano”, l’amministrazione comunale ha cercato di riportare i ceti medi e superiori a vivere in città
- L’operazione si è basata sull’offerta di alloggi esclusivamente in proprietà e a libero mercato: una scelta che ha profondamente influenzato il mercato immobiliare della città
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Nella Milano ancora intontita dallo shock di Tangentopoli dei primissimi anni 2000, l’amministrazione comunale si dava l’obiettivo di “ricostruire la grande Milano”. Non si trattava tuttavia di una generosa visione metropolitana, bensì dell’idea più prosaica di riportare il territorio del comune di Milano alle dimensioni demografiche raggiunte nel corso degli anni Settanta e mai più eguagliate. La parola d’ordine era riportare i ceti medi e superiori a vivere (e reinvestire) nella città dopo anni di suburbanizzazione (sebbene mai nella misura di altre città europee: la borghesia e la grande borghesia milanesi hanno sempre conservato un forte legame simbolico ed economico con le aree centrali della città).
Interventi “manifesto” quali CityLife e Porta Nuova perseguivano precisamente questo obiettivo e coerentemente – caso abbastanza unico per interventi di quelle dimensioni in Europa – proponevano un’offerta di alloggi esclusivamente in proprietà e a libero mercato.
Come tali, questi progetti hanno segnato uno spartiacque nella storia economica e sociale della città: hanno per la prima volta attratto promotori e investitori immobiliari internazionali in un panorama immobiliare fino ad allora molto locale, ed hanno collocato la città come prodotto di investimento e consumo non solo per la locale borghesia tradizionale, ma anche per una nuova classe globale di super-ricchi alla ricerca sia di asset sicuri sia di nuovi elementi per le proprie strategie di distinzione.
Investimenti e affitti
Lungo questa traiettoria, Milano è diventata rapidamente e di gran lunga la prima piazza immobiliare italiana ed una delle prime in Europa: per gli investimenti internazionali, abbiamo detto, ma anche per la sua rinnovata capacità di attrarre risparmi e patrimoni dei ceti medi e superiori nazionali che in un paese stagnante hanno visto in Milano una sicura opportunità d’investimento per sé e i propri figli (che verso Milano hanno preso ad emigrare in misura consistente).
Mentre accadeva tutto questo si dispiegavano gli effetti di due decisioni capitali della fine degli anni Novanta: la completa liberalizzazione degli affitti e l’abolizione del meccanismo di finanziamento dell’edilizia pubblica. L’idea, in quegli anni, era che tutti sarebbero diventati proprietari e che per chi non ce la faceva ci sarebbe stata comunque offerta in affitto, perché la liberalizzazione avrebbe attirato più offerta e abbassato i prezzi.
Entrambe le cose, come noto, non sono accadute e a Milano, mentre la città puntava sulla valorizzazione immobiliare, le case in affitto diventavano sempre meno, sempre più costose – solo fra il 2020 e il 2021 gli affitti sono aumentati di oltre il 9 per cento – e si cessava di costruire nuova edilizia pubblica (senza avere nemmeno sufficienti risorse per ristruttura quella esistente). Questa è in gran parte la storia della crisi abitativa della città di oggi, una crisi che contribuisce a cambiarne la geografia sociale non solo dentro il (piccolo) comune, ma alla scala della sua vastissima regione urbana.
I vincenti
La nuova geografia sociale dell’abitare: i patrimonializzati, gli indebitati, i metropolizzati per forza, i sommersi. Il nuovo paesaggio immobiliare contribuisce a cambiare la geografia sociale della città e della sua vastissima (e largamente inesplorata dai media, e dalla politica) regione urbana. Nonché, ancor prima, la sua struttura di classe. E in questa nuova geografia vi sono profili sociali vincenti che possono accedere alla città (e anzi trarne un vantaggio finanziario) e profili sociali perdenti che, viceversa, hanno sempre meno la possibilità concreta di accedervi.
Fra i primi c’è senza dubbio chi possiede un immobile nelle aree, specie quelle centrali e semi-centrali, che in questi anni hanno conosciuto i più imponenti processi di valorizzazione. Questi proprietari hanno incamerato e incamereranno la rendita generata dagli imponenti processi di valorizzazione cui hanno contribuito investimenti pubblici (fra gli altri, a titolo di esempio, ben due nuove linee metropolitane in dieci anni) e, soprattutto, il lavoro vivo di una manodopera terziaria, qualificata e che ha preso a ripopolare la città provenendo da tutto il paese (ironia della sorte, se così si può dire, lo stile di vita di questi ceti contribuisce potentemente alla creazione di valore anche per quei proprietari che si lamentano della movida).
Questi proprietari possono disporre di questo patrimonio del tutto liberamente – nessun tetto sugli affitti, ad esempio, o nessun limite agli affitti turistici – oltre che trasmetterlo ai propri figli, come noto, largamente esentasse: la battaglia contro la riforma del catasto e della tassazione sui lasciti è una battaglia molto milanese, nella misura in cui protegge molto i ceti superiori urbani che hanno in Milano la piazza principale della propria riproduzione sociale lungo le generazioni.
I perdenti
Passando al campo dei perdenti invece troviamo invece una parte consistente di quella manodopera terziaria di cui parlavamo, ed in particolare quella non patrimonializzata – ovvero quei (relativamente) giovani single e coppie che in condizioni spesso precarie e salari stagnanti non possono contare nemmeno su un consistente trasferimento di capitale da parte dei propri genitori. Questo ceto medio urbano precarizzato è destinato a rimanere in affitto a costi sempre più insostenibili oppure a scegliere la proprietà, con l’indebitamento, ma in zone sempre più distanti nella regione urbana (senza che, da parte di chi la governa, vi sia una strategia generale che renda l’abitarvi una scelta e non una costrizione).
Considerato che negli ultimi decenni, l’eredità ed i doni intra-familiari hanno ampiamente superato i risparmi nella formazione del reddito disponibile delle famiglie si capirà bene che, a Milano in particolare, essere ceto medio per posizione professionale e reddito ma con poco patrimonio è ben lontano dal garantire una posizione fra i vincenti del nuovo ciclo immobiliare: nella città del lavoro, in misura probabilmente superiore ad altre città europee, il patrimonio e le rendite contano sempre più del lavoro nel determinare la possibilità di accedere alla casa (e ancor più oggi in presenza di elevati tassi di interesse).
Infine, al di sotto di questi ceti (che hanno quantomeno la capacità di parlare di sé e i canali per parlarne, si vedano ad esempio le proteste degli studenti), ci sono i perdenti assoluti: ovvero lo spettro ampio e variabilmente invisibile dei nuovi ceti popolari e in particolare chi fra questi, la vasta maggioranza, non è protetto dall’edilizia pubblica. Per capire questa condizione, è sufficiente guardare alla traiettoria di quei singoli e nuclei familiari di origine migratoria che per soddisfare il proprio bisogno abitativo possono far leva su redditi spesso bassissimi, un patrimonio scarsissimo se non nullo e che di frequente fanno anche fronte a pratiche più o meno apertamente discriminatorie sul mercato dell’affitto.
Questo mondo sociale risiede – molto di frequente in affitto, raramente in proprietà – nelle parti più degradate del patrimonio abitativo, magari in prossimità di qualche fonte di stress ambientale (basta percorre la tangenziale per rendersene conto). La questione per loro è: fino a quando potranno occupare questo patrimonio? Quanto sta accadendo in parti della corona nordorientale della città – per semplicità, quella che va dalla via Farini alla nota via Padova – dove per decenni, sebbene in condizioni spesso di forte degrado e informalità, questi gruppi sociali hanno vissuto in posizioni relativamente centrali, con un buon accesso a servizi di qualità e soprattutto alle opportunità di lavoro nei settori in cui operano (la cura domestica, il commercio, la logistica) indica chiaramente il rischio che, in assenza di politiche rapide e risolutive, questi gruppi sociali siano sempre più esposti al rischio di espulsione.
Poca politica
E la città non fa nulla? Nulla no. Poco, senza dubbio. Prima di tutto perché per aggredire davvero la crisi abitativa occorrerebbe cambiare lo stesso modello di accumulazione della città che in questi anni ha visto accrescersi la sua componente immobiliare e su questo, come evidente, non vi è consenso nelle élite della città (altro discorso è quanto tali élite continueranno ad essere capaci di assicurare il consenso a questo modello in un contesto di crisi abitativa). In seconda istanza, perché la città da sola non può risolvere i grandi fallimenti delle politiche pubbliche degli ultimi trent’anni: l’edilizia pubblica è soprattutto una questione nazionale e regionale, e ancor di più lo è la regolazione del mercato degli affitti o la tassazione immobiliare. Ma certo, sebbene in un quadro di costrizione e anche se in gran parte i buoi sono ormai scappati – la grande riconversione delle zone dismesse si è in larga parte già prodotta e non è stata utilizzata prima per prevenire la e poi per rispondere alla crisi abitativa – la città potrebbe per l’appunto fare di più, anche per l’appunto politicamente: ovvero usare il proprio peso politico, magari insieme alle altre grandi città, per chiedere riforme a livello nazionale (cosa che viceversa non accade, probabilmente per la questione illustrata sopra).
Limitandoci alla regolazione del mercato dell’affitto in molte città europee e non solo, anche a costo di conflitti con i governi e con le corti, una quota importante degli affitti è in varia forma regolata e stabilizzata (New York), gli aumenti degli affitti sono limitati (Parigi, Barcellona), la vendita di immobili in affitto è ostacolata (Berlino): fare a livello locale direttamente queste cose è difficile, chiederle ed ingaggiare dei conflitti con gli altri livelli di governo invece si può.
Sul piano di quello che già si fa, di frequente non raggiunge chi più ha bisogno e comunque non lo si fa in misura quantitativamente non sufficiente. L’housing sociale risponde a una piccola parte della domanda del ceto medio mentre il canone concordato, nonostante i molti incentivi, continua a rappresentare una quota molto piccola del mercato. La riqualificazione del patrimonio pubblico procede molto lentamente e di per sé non è in grado di rispondere alla crescita della platea di riferimento (ci vorrebbero complessivamente più case popolari, in misura significativa).
L’introduzione dell’obbligo a produrre quote di alloggi non di mercato per le grandi trasformazioni urbanistiche avviene (nei piani futuri) spesso in misura comunque inferiore a quanto succede in altre città europee mentre lascia del tutto intatta la questione di cosa succede nella produzione diffusa che avviene in gran parte nella forma del libero mercato (e ancora di più quanto succede nella città già costruita). L’unica cosa certa, in conclusione, è che la crisi abitativa a Milano ha cessato di essere una questione privata. È diventata pubblica, ed ha tutta l’aria di volerlo restare.
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