Nell’estate del 2024 i millennial scoprirono la montagna. Lo affermo con piglio da sociologa dopo aver passato il mese di agosto a scorrere i contenuti vacanzieri dei miei coetanei, che quest’anno, all’unisono, hanno detto no alle cosce-wurstel vista mare e sì ai bratwürst nelle rosette tra le valli alpine.

Questa messnerizzazione generazionale, a dire il vero, è iniziata da un po’. Non serve essere nati in Alto Adige per avere almeno un amico che a un certo punto ha smesso di proporti serate a ballare e ha iniziato a organizzare weekend fuori porta e trekking sempre più impegnativi.

Persino io, che sono un topo di città e ho un gruppo di amiche con cui abbiamo sempre condiviso una discreta passione per il cemento, qualche mese fa mi sono trovata nell’Appennino emiliano, persa in un bosco. Ci avevano consigliato un percorso ad anello, ma essendo più esperte di spritz che di Val Baganza quell’anello non lo abbiamo mai chiuso. Siamo riemerse in un paese a tre ore a piedi da dove avevamo parcheggiato la macchina.

Il ritorno 

Dopo questa débâcle a Monte Sporno mi ero detta che io con la montagna avevo chiuso. Non ho interesse per i panorami, odio camminare in salita e la natura mi lascia piuttosto indifferente, a meno che non mi trovi in presenza di qualcosa di straordinario, tipo un uccello che si credeva estinto o una pianta che profuma di Nutella. Nel bilancio costi-benefici delle mie esperienze in montagna, ero sempre stata in perdita.

Poi è arrivato il caldo in città e quando a luglio sono stata invitata a passare un weekend in una valle piemontese con un gruppo di amici, alle parole “portate un maglione” (mentre a Milano meditavo il suicidio ogni volta che uscivo di casa con 35 gradi) ero pronta a rimettere in discussione il mio rapporto con l’altitudine. E devo ammettere che stavo per cascarci di nuovo: sedotta da un profluvio di formaggi, dal freschino e dalla pétanque, avevo già riazzerato le mie precedenti perplessità ed ero convinta di essere diventata una persona nuova, una persona da montagna.

Poi al terzo giorno è arrivato l’ineludibile trekking. Io non so chi ha deciso che andare per i monti dovesse essere un’attività largamente condivisa, ma a un certo punto ci siamo trovati tutti muniti di Salomon e pantaloni con le cerniere alle ginocchia e abbiamo deciso che fosse socialmente accettato usare delle bacchette da sci per camminare nelle pietraie, lasciando che lo sfigometro della nostra presentabilità sforasse qualsiasi parametro.

È una vessazione che tolleriamo solo in montagna: nessuno al mare pensa che sia normale dedicarsi a gare di apnea o a percorrere chilometri a stile libero, nessuno in vacanza a New York propone mezza giornata di parkour.

In montagna invece si deve patire, si deve arrivare sempre più in alto e imparare i nomi delle valli e andare a mangiare la polenta a duemila metri, anche se la facevano pure a mille ugualmente buona. C’è una componente non irrilevante di sado-masochismo in tutto ciò: soffri prima per goderti l’arrivo. Un concetto che a me tende a sfuggire, forse perché sono troppo arida per apprezzare la ricompensa (ho già detto che i panorami non mi interessano?). Può darsi che cambierei opinione per un’ingente somma di denaro, ma per il momento, non essendo uno scoiattolo o uno stambecco e non venendo pagata per lo sforzo, non sento di trarre sufficiente beneficio dall’alta quota.

Come un parto

Tuttavia se c’è una cosa che mi viene peggio dell’attività fisica è guastare gli entusiasmi di gruppo (non mi piace pensare cosa avrei fatto in una dittatura), quindi quando i miei amici propongono l’ineludibile trekking, io recupero il mio abbigliamento tecnico senza fiatare e parto con loro alla volta di un rifugio, per raggiungere il quale percorreremo 900 metri di dislivello. Io sono talmente impreparata che non so se siano tanti o pochi, ma quattro ore dopo, mentre seduta su una roccia vista rocce vengo riempita di cioccolato per sedare un attacco di panico, scopro che in effetti sono tanti, almeno per me.

Quando arriviamo al rifugio scopro che il bagno è un buco in terra circondato da quattro lamiere e che devo tirare l’acqua con un secchio, e se non fossi troppo stanca per proseguire, salirei sulla vetta più alta solo per buttarmi di sotto. Bevo una Coca a temperatura ambiente – nel rifugio non c’è il frigo – e nel silenzio interrotto solo dalle urla di un gruppo di scalatori lontanissimi che stanno facendo una ferrata terrificante, prendo lo stesso appunto mentale che avevo preso a Monte Sporno: mai più.

Poi torno a Milano, nella mia casa senza aria condizionata, nella metro che puzza di ascella. Guardo le stories dei miei amici in Trentino, grandi prati di margherite, cieli tersi e gilet di pile abbottonati fino al collo, e il mio cervello si resetta. Dicono che ci si scorda i dolori del parto, o nessuna donna farebbe più di un figlio. Per me questa è la montagna: mai più, fino alla prossima volta.


 

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