Il nuovo libro di Claudia Durastanti racconta le storie di tre donne. Tutte ambientate in Val d’Agri in Basilicata, ma in tre secoli diversi. È un romanzo storico che piega in modo originale i vincoli del genere
«Finalmente sarebbe potuta diventare una persona. Una che aveva visto. Una che sapeva le cose, ed era in grado di raccontarle».
Vedere le cose, conoscerle, viverle e poi poterle raccontare. In questo passaggio, che si incastra nel racconto della crescita di Amelia Spada, una delle protagoniste del nuovo romanzo di Claudia Durastanti, Missitalia, La nave di Teseo, sta una delle chiavi per poter entrare tra le pieghe più profonde di questo libro costruito, in prima battuta, sulla sostanza più preziosa che uno scrittore possa maneggiare: l’arte del narrare e la gioia nel farlo.
Questo perché Missitalia è un romanzo che racconta tre storie differenti articolate però attorno a uno spazio geografico comune che la narrazione attraversa in tempi diversi: Missitalia replica quindi per certi versi le direzioni e le forme del romanzo storico, ma Durastanti plasma questo materiale solitamente rigido con curvature morbide, interessandosi alle atmosfere che resistono allo scorrere degli anni, declinazioni differenti di una comune materia narrativa, e che offrono una gemmazione naturale di storie di cui non importa il luogo di nascita, ma solo ciò che raccontano, come le anguille che tanto affascinano la protagonista Amelia Spada: «Le anguille nascono nello stesso mare, poi si spostano fino ad arrivare in luoghi impensabili. Nessuno sa dire come si riproducono. Però non nascono e non muoiono, si trasformano e basta».
Le tre epoche
Se il romanzo storico e le narrazioni più o meno obliquamente autobiografiche sono tra i terreni maggiormente frequentati dalla letteratura italiana contemporanea, in Missitalia Durastanti muove un passo in avanti mostrando le possibili traiettorie che un racconto diverso può imboccare. Dopo La straniera, riuscito esperimento dove il memoir si mescola con riflessioni di carattere linguistico, questo nuovo romanzo si spinge verso territori fantascientifici e distopici, mantenendo però intatta la forza analitica di una lingua capace di evocare ciò su cui si posa e aprendo le porte a quella che pare una nuova necessità dettata dai tempi storici in cui viviamo, non più un racconto del proprio “io” quanto invece un desiderio di collettività, una necessità di apertura al molteplice.
Le tre vicende del romanzo ruotano dunque attorno allo stesso luogo, Val d’Agri, in Basilicata, osservato nell’arco di circa duecento anni, abitato dalle tre protagoniste, Amelia Spada, Ada e A, che mai incrociano i loro cammini. Il primo pannello è ambientato all’epoca del Risorgimento e tra le tensioni della guerra di liberazione che infuoca il meridione, tempo in cui Amelia Spada gestisce un rifugio tra i calanchi lucani dove trovano riposo drop out, ribelli, brigantesse e bombarole, tra cui un gruppo di ragazze pronte a far sentire al mondo che esistono, mentre attorno, grazie agli investimenti dell’Italia unita nel Sud, sta nascendo una fabbrica che cambierà per sempre il modo di vivere quei territori.
Ada invece è un’antropologa che, negli anni Cinquanta, compie ricerche etnografiche in Lucania («sud vergognato quello della mia famiglia materna, che non si portava dietro né dote né fascinazioni») prima di essere assoldata dai servizi segreti. Mentre l’ultima protagonista, A, vive nel futuro e sulla Luna, dove è giunta partendo dalla stazione spaziale costruita in Basilicata, luogo che nel frattempo ha anche avuto il suo giacimento petrolifero ormai, come su tutta la Terra, esaurito.
Narrazione multiforme
Queste vicende sono solo il centro nevralgico della narrazione, perché hanno anche una natura centrifuga: ogni personaggio e ogni luogo è in realtà un moltiplicatore di storie, così come molteplici (Ariosto per la descrizione della Luna, Ernesto De Martino per le ricerche etnologiche, Carlo Levi per la vicinanza geografica) sono i riferimenti culturali di Durastanti.
In questo spazio geografico multiforme, una Basilicata che diventa un territorio “altro” («Texas d’Italia» viene definito in quanto «sede del più grande giacimento petrolifero in terraferma d’Europa», ma che rimanda agli Stati Uniti anche per le storie di migrazione e per la sua stazione spaziale), seppure le tre protagoniste non incrocino mai le loro esistenze, emerge comunque una continuità, un punctum che collega la costruzione della fabbrica nel Risorgimento all’avveniristico progetto della stazione spaziale nel futuro.
Questo legame invisibile è rappresentato dalla macchina del progresso, un progresso che si porta però dietro, nel suo andamento ricorsivo («le cose che guariscono così in fretta non guariscono affatto, attendono solo una nuova occasione, un tempo adatto per affliggere ancora», pensa a un certo punto Amelia Spada replicando simbolicamente anche la ciclicità delle rivoluzioni che punteggiano la storia di quel territorio), una certa problematicità, evidente nella coda regolare di soprusi, sulle persone o sull’ambiente, e sulla ribellione di una terra che non vuole farsi addomesticare.
«La ragione soltanto ha un senso univoco, e, come lei, la religione e la storia. Ma il senso dell’esistenza, come quello dell’arte e del linguaggio e dell’amore, è molteplice, all’infinito», ha scritto Carlo Levi, che le terre della Basilicata si è trovato costretto a conoscerle e abitarle, e Durastanti sembra in maniera simbolica far suo questo significato dell’esistenza, perché le storie che si succedono in Missitalia sono proprio la testimonianza plastica di un’inarrestabile tensione all’infinito che trova sostanza di sé in una concezione fluida del tempo e dello spazio e nell’incrocio possibile tra vite lontane cronologicamente e non legate da alcuna consanguineità, in un’idea di famiglia che espande i confini della sua definizione scivolando verso una sorta di solidarietà universale. Missitalia, con il suo adagiarsi in uno spazio ancestrale, in 200 anni legati da assonanze e risonanze, è quindi prova di quanto la letteratura, rispetto alla vita, possa rendere concreto ciò che la realtà in fondo impedisce di concepire, ma che è, alla resa dei conti, l’unico modo per vedere ciò che verrà, cioè immaginare.
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