Miyazaki, l’esprit de la nature, presentato a Venezia, raccoglie testimonianze e filmati di repertorio per raccontare «l’arma» dell’animatore giapponese per cambiare il mondo: la fantasia. Una chiamata all’azione e alla riflessione. «Ho sognato una foresta dove l’uomo non può agire»
Nel 1956, in Giappone, viene registrata una strana malattia. A esserne colpita è la città di Minamata, nella prefettura di Kumamoto. E sono 2265 i pazienti di un’intossicazione che entra nella storia con il nome della cittadina (e dell’omonimo fiume), e che ha piagato quella baia per quasi mezzo secolo.
Si tratta di una malattia neurologica causata da avvelenamento cronico da mercurio, e infatti – per tutta la prima metà del Novecento - l’azienda chimica Chisso Corporation si stabilisce proprio in quei luoghi, e negli anni scarica nelle acque quantità importanti di mercurio, con un effetto disastroso sugli ecosistemi marini, sugli animali e sull’essere umano.
Quel disastro petrolchimico - uno dei “big 4” del Giappone - scuote il mondo e il paese del Sol Levante. Le indagini e i danni causati dal continuo riversare della Chisso durano anche nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Ed è a questo caso di cronaca a cui si è ispirato il maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki per scrivere la storia di Nausicaä della Valle del vento; prima come manga nel 1982– dopo lo scarsissimo risultato al botteghino di Lupin III e il castello di Cagliostro, sua opera prima – e poi come film, nel 1984.
La principessa Nausicaä governa in un mondo distrutto dall’inquinamento, e si muove controcorrente rispetto al sentire comune, che vorrebbe distruggere la nuova natura mutata dalla guerra atomica. La giovane guerriera invece cerca un contatto, comprensione, convivenza. Esseri umani, alberi, animali, sono tutti parte dello stesso gioco: un legame che necessita rispetto.
E voi: come vivrete?
L’ecologismo, la pace e l’antifascismo sono infatti temi chiave per interpretare il lavoro di Miyazaki. «Meglio porco che fascista» docet, citando il personaggio di Marco Pagot in Porco Rosso. Una volontà ideologica del “sensei”, che sente il bisogno di parlare ai giovani di questioni importanti, di futuro. Riponendo in loro fiducia. Questa è la lettura mostrata nel documentario Miyazaki, l’esprit de la nature, di Leo Favier, proiettato durante l’81esima Mostra del cinema di Venezia e prodotto da Les Bons Clients e ARTE France.
Una raccolta di testimonianze e immagini di repertorio che calza a pennello nella cronistoria dell’autore nipponico, che solo l’anno scorso ha portato nelle sale giapponesi (e a inizio 2024 nelle sale italiane) il suo ultimo film Il ragazzo e l’airone, una pellicola a metà tra l’autobiografia e la fiaba, dove il potere immaginifico delle sue storie, la sua eredità, si mostra con una fierezza dirompente e con la domanda, nonché titolo originale del film, e voi come vivrete? Come deciderete di vivere di fronte alle guerre e alle ingiustizie? Cosa farete?
Ciò che è uscito al cinema non è però soltanto un manifesto filosofico o un testamento, ma anche un riepilogo – implicito - di tutta la sua filmografia. Un sunto della sua arte. Quasi come un Sol dell’Avvenire di Nanni Moretti in salsa animista, cercando di recuperare un rapporto con la natura di rispetto e non di sopraffazione e sfruttamento. Un pensiero, questo, difficile da sradicare in un mondo che nel capitalismo ha abbracciato la filosofia del naturalismo, come la chiama l’antropologo Philippe Descola, allievo di Claude Lévi-Strauss.
“Con naturalismo intendo che il non umano è esterno a noi, che siamo padroni della natura, che abbiamo abilità divine di trasformare tutto ciò che c’è nel mondo e di trarne vantaggio per noi stessi, considerano quindi ciò che non è umano come una risorsa. E penso ci sia un collegamento tra il naturalismo, lo sviluppo del capitalismo e la catastrofe ecologica», dice Descola nel suo intervento.
Il dovere morale
Per Miyazaki non era possibile fare film senza guardare il mondo attorno a sé. Era quasi un dovere morale parlare di questi temi, anche pubblicamente. Come nel 2003, ad esempio, quando La città incantata vinse l’Oscar come miglior pellicola d’animazione. In quell’occasione, importante per ogni cineasta sul pianeta, l’animatore scelse di non presentarsi a ritirare il premio dell’Academy, dicendo che non aveva voglia di “visitare un paese che stava bombardando l’Iraq”.
Schierato, quindi, il “compagno” Miyazaki, che nella sua vita ha sempre cercato di agire, prima con la sua attività di segretario nel sindacato della Toei Animation (una delle aziende d’animazione più importanti del Giappone) e poi con azioni di cittadinanza, aiutando nel ripulire un corso d’acqua che scorreva dietro la sua abitazione.
Negli anni di militanza sindacale, Miyazaki ha conosciuto e stretto un profondo legame professionale e di amicizia con il regista Isao Takahata (Pioggia di ricordi), che nell’organizzazione ha ricoperto il ruolo di vicepresidente. Con lui decide di aprire lo Studio Ghibli, il cui nome è ispirato all’aeroplano italiano prodotto dall’azienda bergamasca Caproni (Miyazaki è un grande appassionato di aerei, la sua famiglia li produceva durante la guerra, ndr).
Il messaggio del documentario Favier è chiaro. E anche se non tutte le testimonianze degli esperti aggiungono punti di riflessione nuovi rispetto ai presupposti ambientalisti della ricerca, diventando in alcuni momenti troppo didascalico e ripetitivo, il risultato è comunque curioso, vitale e un po’ ottimista. Una chiamata all’azione, alla riflessione. Dopo 80 minuti, infatti, le conclusioni del regista non lasciano certamente indifferenti.
«Ho sognato un’antica foresta», scrisse Miyazaki. «In cui non c’era cemento, nessun negozio di souvenir o alcool. E in cui se un albero fosse in procinto di essere soffocato dal Glicine, se un insetto o un animale venisse ferito, gli esseri umani non avrebbero diritto di agire».
Questo pensiero e le sue storie confermano che l’anima dell’autore, o dell’autrice, penetra nelle opere che crea. Il suo passato, tutto. Ed è la fantasia, quindi, l’arma con cui Miyazaki cerca di agire, nonostante i cambiamenti siano pochi. Comunque, si ritenta. «Abbiamo pensato di stare cambiando il mondo con i nostri film. Ma non cambia nulla. Questo significa essere un film maker».
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