In dialogo con la scrittrice le questioni vestimentarie diventavano volano per affrontare i temi più disparati. Non voleva rispondere a un’astratta idea di eleganza, contava la relazione performativa tra vestito e corpo
La prima volta che Michela Murgia e io abbiamo parlato di moda è stato in occasione dell’anomala prima della Scala del 2020, che, in epoca Covid, si svolse a porte chiuse. Sotto il titolo del dantesco A riveder le stelle in una successione di quadri si esibivano tanti artisti dai talenti diversi.
Lei tra questi. Seduta su una sorta di scranno nel vuoto foyer del teatro, Murgia parla dell’opera. Ne spiega l’atemporalità, la forza rivoluzionaria: «L’arte manda in frantumi il vecchio mondo». Mette in risalto la contemporaneità delle figure femminili che la popolano.
Via WhatsApp, prima delle riprese, mi manda una foto di lei assisa su quel trono in un abito nero couture che le modella il corpo e, grazie all’ampiezza della gonna e alla piccola coda («codetta», come mi scrive lei), occupa lo spazio della larga poltrona, rimandando nello stesso tempo ai drappeggi quasi geometrici di certi dipinti fiamminghi. Le scrivo che con quell’abito couture è necessario un oggetto suo, meno eclatante. Suo come la collana che poi vedremo nelle riprese televisive. Commento poi che i capelli raccolti le stanno benissimo: mettono in evidenza il suo viso dagli zigomi alti, il sorriso, gli occhi nerissimi, la pelle luminosa.
È la prima di una serie di conversazioni sul vestirsi che continuano per messaggi e a voce e toccano anche un’occasione pubblica, una diretta per presentare il mio libretto Le forme della moda, per Il Mulino.
Sono scambi non riducibili alla banale domanda “secondo te sto bene vestita così?” fatta all’amica che si occupa di moda e si pensa possa dispensare utili consigli. Mi rendo subito conto che in realtà lei non desidera conferme su quello che indossa o come lo indossa. Lei è divertita e compiaciuta dal fatto che alcuni brand importanti si interessino a lei e la vestano. Ma soprattutto si sente bene in quei panni, si guarda e si piace, e vuole condividerlo. Gode del doppio movimento del guardare ed essere guardata.
Murgia è carismatica, ha grande personalità, quella che per Diana Vreeland, leggendaria direttrice di Vogue America, non può mancare e che rende ogni individuo diverso e indimenticabile. È la forza magnetica, non certo la bellezza di per sé, che Vreeland associa alla personalità, che a sua volta è per lei tutta una questione di interpretazione. Non importa quindi che l’abito stia semplicemente bene o risponda a un’astratta idea di eleganza: conta invece la relazione performativa che il vestito instaura con il corpo con cui ciascuno di noi si ritrova a convivere.
Moda e femminismo
Devo ammettere, a posteriori, che Murgia mi aveva spiazzato. Trovavo in lei, intellettuale impegnata, politica, scrittrice, saggista, una interlocutrice informata e attenta. Parlavamo di questioni vestimentarie che diventavano volano per affrontare tanti altri temi, perché la moda attraversa in maniera verticale i campi più disparati.
Non posso fare a meno di ricordare come pregiudizi e resistenze nei confronti della moda, soprattutto della libertà di usarla, siano stati creati anche da certe correnti del femminismo, come quella rappresentata da un’autrice importante quale Alice Ceresa, che nel Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile scriveva: «La moda femminile per antonomasia è quella dell’abbigliamento femminile anche se in rarissimi casi è creata dalle donne, per cui è moda femminile quella che veste le donne anche se a vestirle sono gli uomini. Le donne pertanto non scelgono né il proprio abbigliamento, né le proprie acconciature se non in una rosa finita di proposte maschili che variano con l’andare dei tempi per ragioni di politica industriale».
Michela Murgia, invece, sul numero 26-27 del 5 luglio 2023 di Vanity Fair, “The Pride Issue”, curato da lei stessa e dove è protagonista di un vero servizio di moda con truccatore, parrucchiere e abiti firmati, rispondendo all’intervista di Simone Marchetti, direttore della rivista, spiega: «Guardare queste foto mi ha dato un’energia che non ho davanti allo specchio la mattina. La moda è un linguaggio, un fenomeno di costume attraverso il quale è possibile raccontare il nostro tempo. C’è molto snobismo, e ci si dimentica che è una industria dove lavorano migliaia di persone. La moda può trasmettere dei contenuti liberatori e di innovazione rispetto alla nostra visione del mondo in un registro comprensibile a tutti».
Anche di questa esperienza mi arrivano foto e racconti. Lei è felice e si lascia andare a quella emozione erotica che è il contatto della seta con la pelle. Una sensualità gioiosa che si libera nel performare dentro gli abiti e che negli scatti è evidente. La gioia infantile di ritrovarsi nelle foto e di piacersi.
Anfibi e pantaloni cargo
Voglio condividere alcuni degli scambi via messaggi con Michela Murgia. Ironica, precisa, divertita. Sempre.
Michela Murgia: «Frisa mia che tutto capisci e sai, mi serve il tuo pregiato consiglio / Stasera noi saliremo sul palco dell’Alcazar (a Roma) per l’evento live di Morgana / È sulle sorelle Williams e chiude la stagione dedicata ai corpi / Io, memore di un celebre servizio di Vogue in cui Serena e Venus indossavano abiti da sera e scarpe da tennis, cercherò di evocare lo stesso contrasto / Usando l’abito da sera color mattone misurato con te da Dior che per il disguido dello smarrimento non ebbi occasione di mettere a Siviglia / Sotto però non voglio mettere le sneakers, che appartengono all’immaginario Williams ma non al mio (nemmeno ne possiedo) / Mentre vorrei mettere un anfibio o una scarpa di analoga potenza casual / E qui subentra il tuo consiglio, prima che mi rechi a comprare le più adatte / O dei trooper di Balenciaga tipo questi / Nel primo caso, al collo metterei un collare, non escludo borchiato a punte, tipo dobermann / Nel secondo caso collana sbrilluccicante tipo collier di Sissy, contrasto totale / Entrambe, io e Chiara (Tagliaferri), avremo come accessorio tecnico una racchetta da tennis con la quale “ci passiamo la palla” / (Capelli raccolti in uno chignon scomposto) / Tutto questo perché ne resterà un video on line e dunque la produzione di permanenza va curata oltremodo / Specie la settimana successiva a quella in cui Feltri mi ha dato dell’orco».
Maria Luisa Frisa: «Comunque opto per l’anfibio nero / È cattivo e poi rientra in quella dimensione punk che piace a noi e potrebbe dialogare con il collare borchiato. Mi metto l’abito da sogno ma lo contraddico con elementi che richiamano la ribellione. E poi mi collegano saldamente a madre natura / Poi non userei Balenciaga, molto riconoscibile, che in questo momento è argomento molto controverso, vista la polemica per gli orsetti bondage / Bene i capelli raccolti in modo scomposto che ti stanno benissimo. E che permettono di vedere meglio il collare / Secondo me il collare funziona meglio perché il contrasto con l’abito si rivela immediatamente! / Spero di essere stata utile».
Michela Murgia: «Sei la mia guru / Un giorno vicinissimo mi presenterò da lei coi cargo / E lei dirà “tu così con me non ci esci” / E io dirò: HA DETTO FRISY CHE VANNO BENE».
Maria Luisa Frisa: «È importante quello che piace a noi e che sentiamo nelle nostre corde».
Michela Murgia: «Finisco il testo per stasera e poi vado nella bolgia del sabato di saldi in Rinascente per appropriarmi dello stivaletto biker».
Maria Luisa Frisa: «Infatti ti dà quell’incedere da regina cazzuta che è tuo».
Michela Murgia: «Speravo lo dicessi / Nel mio cuore è una scarpa molto più mia / E progetto segretamente qualcosa che so già mi farà perdere l’amicizia di Tagliaferri / Ormai da mesi punto a indossarli con dei pantaloni cargo, che non ho mai avuto ma che continuo a desiderare / I pantaloni cargo sono l’oggetto più odiato da Tagliaferri».
Maria Luisa Frisa: «Secondo me ti stanno molto bene!»
Michela Murgia: «Ella sostiene che non esista alcun modo di portarli restando degne di sguardo / Devo dimostrarle che non è così».
Maria Luisa Frisa: «Ti faccio io una ricerca per il pantalone cargo».
Michela Murgia: «L’anfibio mi aiuterà».
Maria Luisa Frisa: «Perché Chiara è romantica e non ama le derive tecniche e utilitaristiche».
Michela Murgia: «Neanche per i bts ci ho il fisico, ma ho lo spirito».
Come cazzo voglio
Alle mie critiche di come da una parte si predicasse l’inclusione di corpi di tutte le taglie e di tutte le età e dall’altra ci ritrovassimo invece a seguire regole travestite da consigli, lei mi rispondeva così: «Tutti, non solo Vogue. Non se ne salva uno / Ma credo che la domanda giusta sia: perché le donne sono così docili all’imposizione dei canoni? / Perché crediamo sempre che debba essere qualcun altro a dirci quando siamo giuste?».
Sempre su WhatsApp mi scriveva: «Tu conoscerai di certo il mantra per cui io sono nota su TikTok», mandandomi un video in cui c’è quella che chiamava “la cosa per cui vado più famosa”, cioè queste parole: «Tutte le volte che vedo un sito internet o un giornale che dice come devi vestirti dopo i quaranta, come devi vestirti dopo i cinquanta, la risposta giusta è: “Come cazzo voglio”. Questo bisogna proprio avere il coraggio di dirlo. Come devo vestirmi dopo i quaranta? Come cazzo voglio. E dopo i cinquanta? Sempre come cazzo voglio. Non basta dire “come voglio”, bisogna proprio dire “cazzo”, su questo proprio insisto. Rafforzativo fallico, cioè il fallo attorno a cui vorrebbero farti ruotare tu lo prendi e lo metti nella tua frase ribelle. In questo caso risemantizzi anche l’uccello».
E tornando ai messaggi concludeva: «Ovviamente è divertente aver scritto sedici libri, di cui almeno quattro a sfondo femminista, e scoprire che le diciassettenni ti conoscono per una battuta / Ma non importa / Tutto concorre al messaggio».
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