Fa male al cuore l’idea che ad annunciare al mondo la morte di Monica Vitti sia stata (dopo l’inevitabile tweet di Walter Veltroni) l’ufficialità della sala stampa del festival di Sanremo. Non so perché, ma le gerarchie improprie mi suonano come un insulto all’arte e alla cultura. Come se Sanremo coagulasse, quando è in corso, le passioni e i sentimenti del paese, senza eccezioni, e ne fosse il rappresentante ufficiale.

Il festival delle canzonette, più in passato che oggi, è stato un osservatorio sociologicamente rilevante per la storia del costume italiano, ma la storia di Monica rappresenta, se permettete, molto ma molto di più. Ogni testata, ogni sito, ogni network ha pronto da anni il coccodrillo di Monica. Io no. Era un appuntamento che mi faceva paura. Forse perché appartengo a quella generazione di donne che in lei hanno visto la bellezza giusta, folgorante ma senza artificio e senza civetteria, quella luce che sei felice di riconoscere nell’amica del cuore, che ammiri senza ombra di invidia.

Forse perché quella sua voce roca, così poco convenzionale, era una componente essenziale del godimento che ti offriva quando invadeva lo schermo con la sua forza spontanea, e chiunque le stesse accanto era lei l’incantatrice, il pifferaio magico, bello o brutto che fosse il film. Forse ancora perché la mia piccola vita si è intrecciata alla sua quando di film non ne faceva più, il cammino verso lo smarrimento era appena iniziato e Vitti “la combattente” reagiva con un’energia da leonessa.

È il frammento di memoria che mi ha fatto rifiatare a ogni suo compleanno, felice di sapere che lei c’era ancora, che respirava e che quei suoi unici occhi lunghi, così facili all’ironia, il mondo lo guardavano ancora. Qualcosa magari poteva ancora scatenare quella sua contagiosa risata, che da sola metteva allegria.

Un’icona moderna

(laPresse)

Alla “mia” Monica accadde di onorare il TG3 degli inizi accettando di commentare dalla Mostra di Venezia i film in concorso. Il direttore Sandro Curzi si era assicurato una sorta di critico-superstar. Fu un percorso a ostacoli per Monica e per Roberto Russo, quel fantastico compagno di vita che la sorte le ha messo vicino.

Non si andava in diretta, si registrava, ma la passione volava e le parole restavano indietro, facevano resistenza passiva. Lei davanti alla telecamera, che con infinita tenacia affrontava i mille ciak necessari, e noi intorno a darle il supporto possibile. Era un lavoro di squadra che durava per ore. Era la Monica forte che lo schermo mi aveva insegnato a conoscere in lotta con la sua nuova fragilità.

Perché è questa forza, insieme spavalda e cordiale, che ha fatto dell’attrice Monica Vitti l’icona di una femminilità moderna, combattiva e mai rassegnata. Siamo in tanti ad aver vissuto il suo approdo esplosivo alla commedia, ai ruoli brillanti, come una sorta di liberazione? Non lo so. Ma era come se dal bozzolo di sfinge dell’incomunicabilità che Michelangelo Antonioni le aveva cucito addosso fosse sbucata la farfalla.

Diventare farfalla

C’era un prima e c’era un poi: una cesura, una svolta. L’Avventura, La Notte, L’Eclisse e Deserto rosso appartenevano al tipo di cinema che ai giovanissimi incuteva soggezione. E poi di colpo, quasi in un battibaleno, la Monica della commedia era diventata di tutti, come di tutti era diventato il Gassman convertito all’universo dei Monicelli e dei Risi.

Le attrici capaci di farti ridere sono una rara benedizione, mosche bianche come l’immensa Franca Valeri. Sicuramente l’Italia ne aveva in serbo molte di più, a dargli spazio, ma la commedia era un impero rigorosamente maschile. A rileggerlo dal punto di vista del cinema, il boom degli anni Sessanta è un balzo ancora più prodigioso di quello economico.

A estrarre la farfalla Monica dalla crisalide, in quel frenetico tratto di tempo, collaborano cineasti celebri e no: Tinto Brass (Il disco volante) e Franco Rossi (La minestra, episodio de Le bambole), Citto Maselli (Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo!) e Luciano Salce (nei due episodi La sospirosa, in Alta infedeltà, e Fata Sabina, in Le fate, ma anche in Ti ho sposato per allegria), Ettore Scola (Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca) e Alberto Sordi (Amore mio aiutami).

Apertura e novità

(AP Photo, File)

Scola e il Mario Monicelli di La ragazza con la pistola, del 1968, stanno alle altre tappe come l’esame di maturità sta al cursus della scuola dell’obbligo. Sono film cuciti sulla pelle di Monica Vitti, respirano coi suoi tempi comici, senza di lei non potrebbero esistere.

Senza essere autrice in proprio, come lo era Franca Valeri, lei ha infranto il soffitto di vetro: di colpo Sordi e Tognazzi, Gassman, Mastroianni e Manfredi si confrontano alla pari con un gigante donna. Si scopre che la bellezza muliebre non fa a pugni con l’umorismo, che la versatilità del talento è una chiave di emancipazione.

Monica è un manifesto vivente di apertura e di novità, che molti francesi, e il Joseph Losey che la recluta per Modesty Blaise, hanno colto per tempo. Parlo degli anni Sessanta perché il resto è storia. La rivoluzione sta nella rivelazione: è in quella fase che Vitti diventa il “fenomeno Vitti”, e che si consacra la sua unicità.

Una donna lavoratrice

MONICA VITTI - MONICA VITTI, 01-00060359000129, 03-00014992

Insisto sulla bellezza perché per molte è stato un fardello. Monica lo ha sempre portato con leggerezza, quasi con distrazione, un dettaglio su cui non valeva la pena di perdere tempo. Meglio ancora: quel viso e quel corpo erano un pretesto strategico per prendersi in giro, per mettere in satira chi sulla propria immagine investe tutto.

Erano uno strumento del mestiere a servizio della comicità, mai un valore primario. Ai tempi nostri, con quei capelli inutilmente imitati da legioni di spettatrici, tutti i marchi di shampoo farebbero a gara per averla come testimonial.

Non c’è star, grande o piccola, che resista alle sirene delle sponsorizzazioni. Attrici e influencer, campionesse sportive e regine dei gossip: è una omologazione che esalta il successo tout court come unico, e deteriore, comun denominatore.

Lei resta il simbolo orgoglioso di un’epoca radicalmente diversa, con una industria del cinema che solo incidentalmente si mescolava ai commercials di Carosello e la recitazione, celebrità e retribuzione a parte, era un lavoro come un altro.

Questo mi piace dire di Monica: era una donna lavoratrice, e così si sentiva. Senza aureole e senza piedistalli. Mi impressiona non poco l’abuso di paroloni retorici – icona, regina e quant’altro – con cui le si rende omaggio oggi come per i novant’anni che ha avuto il tempo di compiere. Non perché non li meriti tutti, ma perché non le assomigliano. E mi par di vederla a leggere questi verbosi titoli gonfi di pletorica ritualità e a scoppiare in quella sua irresistibile, fragorosa, inimitabile risata.

© Riproduzione riservata