- La cifra di Muccino è scavare nell’animo dei personaggi. Lo ha fatto anche in questa serie in cui c’è tutto, un cast corale, colpe dei genitori che ricadono sui figli, inettitudine, segreti inconfessabili, droga e crimine.
- «Lo scontro verbale non fa bene a nessuno. In questi anni siamo stati disarcionati dalla capacità di verbalizzare le emozioni attraverso l’uso maldestro dei social».
- «Coi social si finisce a fare la guerra a persone che non hanno un volto. Siamo a un punto molto tragico della storia dell’uomo, non è mai successo prima».
Fare le quattro di mattina per vedere tutti gli otto episodi di una serie. È successo con la seconda stagione di A casa tutti bene di Gabriele Muccino su Sky e in streaming su Now – dove l’ho vista io – senza riuscire a fermarmi. La frase mantra del regista è: «Il ritmo che do alle scene viene dalla mia necessità freudiana di non annoiare. Io lo spettatore lo metto su un treno che va più veloce della sua capacità di annoiarsi». E se questo è un treno, è un Tgv che porta dritto alla meta senza fermate.
Incontro Muccino a Roma, all’Hotel Eden. Non è la prima occasione in cui lo intervisto, e ogni volta l’esercizio principale è frenare la mia accondiscendenza nei suoi riguardi. Non tanto per l’uomo, quanto perché ho davanti chi ha scoperto talenti italiani come Claudio Santamaria e Giorgio Pasotti in Ecco fatto, ha raccontato una generazione – la mia – in Come te nessuno mai con suo fratello Silvio quando era ancora idilliaco il loro rapporto.
E poi il boom al botteghino con L’ultimo bacio, che amai sebbene fossi ancora troppo giovane per sapere che quel film, che raccontava la crisi di chi non vuole diventare adulto, lo avrei capito meglio più avanti negli anni. Si mangiarono le mani Kim Rossi Stuart e Claudia Pandolfi che non accettarono i ruoli da protagonisti, che andarono invece a Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno, cambiando le loro carriere.
La cifra di Muccino è scavare nell’animo dei personaggi. Lo ha fatto anche in questa serie in cui c’è tutto, un cast corale, colpe dei genitori che ricadono sui figli, inettitudine, segreti inconfessabili, droga e crimine. Non manca niente. C’è anche una riflessione sulla dipendenza affettiva. A un certo punto – saranno state le due di notte – sono perfino tornata indietro di un minuto per sentire meglio la frase che pronuncia Laura Morante, capostipite della famiglia Ristuccia: «Ci si lega anche al dolore». Lo dice alla figlia, interpretata da Silvia D’Amico, che vorrebbe vendere l’albergo e dire addio a quel legame familiare ma tossico che le ha condizionato la vita.
Che voleva dirci?
I genitori sono inconsapevoli degli errori che fanno, ma quegli errori diventeranno la formazione dei figli che a loro volta passeranno questo testimone malefico e incurabile ai loro. Siamo prigionieri dell’educazione che abbiamo assorbito già prima di nascere.
Nella serie ci sono molti conflitti, come quelli tra i fratelli, mai complici. Oppure tra figli e genitori, e tra mariti e mogli. Non si salva nessuno. Quanto è autobiografica?
È il mio subconscio che elabora i dati che assimilo. Mentre scrivevo la sceneggiatura della sesta puntata, avevo letto da poco un libro sulla dipendenza affettiva e quei dati si sono ripresentati dentro le parole che ho fatto pronunciare a Ginevra e Diego (Laura Adriani e Antonio Folletto). Le storie che metto in scena non sono autobiografiche, ma il mio vissuto entra in personaggi a cui faccio dire quelle frasi.
Nel sesto episodio c’è un cameo anche di Fiorello, ha progetti con lui?
Fa un’apparizione alla Hitchcock. Nessun progetto, è un amico e fan della serie.
Peccato per il ruolo di Emma Marrone. Poteva evolvere invece l’ha dovuta mandare in esilio dai parenti al mare.
Sì, peccato. Ho scelto Emma due anni fa, ma oggi la sua carriera artistica non le consente di rimanere troppo sul set.
Dopo averci abituato alle sue esternazioni, ha cancellato il suo profilo Twitter.
Sono uscito perché ho capito che era nefasto. Sono solo su Instagram a scopo promozionale, mi sembra un mezzo più accogliente.
Perché?
Lo scontro verbale non fa bene a nessuno. In questi anni siamo stati disarcionati dalla capacità di verbalizzare le emozioni attraverso l’uso maldestro dei social. Non siamo pronti ad essere così esposti, violenti in modo pubblico. Coi social si finisce a fare la guerra a persone che non hanno un volto. Siamo a un punto molto tragico della storia dell’uomo, non è mai successo prima. Le guerre si sono sempre fatte, le famiglie sono sempre state disfunzionali, le colpe dei padri sono sempre ricadute sui figli, ci sono sempre stati dei Caini che uccidevano gli Abele, e dei frutti proibiti che ti condannavano all’inferno. Ma l’uso dei social ha creato una disfunzione, soprattutto negli adolescenti. Devono offrire alla società prestazioni che li porteranno nel baratro, parlano chiaro le statistiche sui suicidi. È un meccanismo che si è inceppato. L’uomo così non si evolve.
Mucciniano anche nel raccontare l’uscita da Twitter. È un aggettivo che si usa per distinguere certi film, più emozionali che estetici. Le piace?
Sì. Io sono un contemplatore degli esseri umani da quando ero bambino. Amavo la solitudine e il silenzio perché attraverso la solitudine potevo osservare gli altri senza essere distratto. Ma quella solitudine mi ha fatto elaborare tantissime cose che non avrei mai creduto potessero diventare il pane della mia vita.
Qual è il suo tratto distintivo?
La spavalderia. Devi essere un po’ spavaldo per pensare di scuotere qualcuno. Anche quando sono andato a Hollywood a fare il regista, e ci sono rimasto dodici anni, avevo un atteggiamento sicuro. Una volta a un produttore importante ho detto: «Se non mi prendete è un problema vostro, se mi prendete vincete due volte». È una frase talmente sbagliata che nasconde una parte di me che ama il rischio. Mi piace giocare col fuoco.
È ciò che la fa andare avanti nella vita e nel cinema?
È la parte che rischia di farmi andare fuori strada, di bruciarmi ogni volta.
Si è mai pentito di alcune frasi dette?
Certo, qualche ustione me la sono presa. Però è parte della mia natura andare incontro al pericolo. Il pericolo mi dà adrenalina e una strana ebbrezza creativa.
Ci si abitua anche all’adrenalina?
È una droga anche l’adrenalina. Ci sono reporter di guerra che continuano a sfidare il pericolo perché quando tornano a casa si annoiano. Sono forme di autodoping che il nostro corpo produce e del quale restiamo dipendenti. Ora che sono entrato in questa linea “crime” e ho sentito vibrazioni nuove, voglio riprovarle.
Chi sono gli attori che prima hanno detto sì e poi sul set non hanno più voluto lavorare con lei?
Non faccio nomi. È successo solo due volte. Capita con gli attori che non si fidano. Una volta è stata disastrosa, l’altra accettabilmente fortificante.
Se la famiglia non può essere felice, che consigli dà ai suoi figli?
Ci sono due o tre nozioni che ho imparato sulla mia pelle, e provo a parlare delle mie esperienze. Magari avessi avuto io dei consigli precisi su come salvarmi la pelle tipo, ad esempio, evita di innamorarti di una donna che ha avuto grossi problemi col padre. Magari avrei evitato determinate categorie.
Andrà avanti la serie?
Oggi non lo so. Devo finire un film entro settembre, ma non è escluso che continui a fare quest’esperienza.
© Riproduzione riservata