- In tempi di virtualità e di eventi annullati per il Covid, l’Associazione per il design industriale ha fatto il miracolo: è riuscita ad aprire un museo senza algoritmi e digitale, ma con la pura poesia degli oggetti made in Italy.
- Per una volta, i designer – col sostegno dei produttori – battono antichi compagni di strada nella difficile ricostruzione dell’universo degli oggetti, di come comunicarli e di come rendere la materia del progetto affascinante come merita: non solo per le ricche committenze private, ma per un grande pubblico e la sua cultura popolare.
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E perfino le merci, sostanza ultima del design, quando riescono a superare gli angusti confini della negoziazione tra invenzione e capitale e assumono significato culturale ed emozionale, entrano legittimamente nella storia dell’arte.
Il potente politico trasformista, dopo qualche frase di circostanza declamata all’inaugurazione e una brevissima visita, si avvia in fretta verso l’uscita del museo con i guardaspalle a debita distanza. Sulla sua traiettoria incontra uno degli emozionatissimi fondatori, che sommessamente gli chiede se gli è piaciuto: borbottato uno sbrigativo «Molto, molto bello», il potente politico trasformista prosegue dritto con falcata sicura, verso nuove e più incombenti mediazioni elettorali. Questa tranche de vie potrebbe adattarsi all’inaugurazione di un qualsiasi museo in qualsiasi città italiana, a descrivere il rapporto sadomaso tra progettisti e decisori, amministratori e utopisti, inventori e legislatori: soprattutto dopo la sconfitta subìta dai luoghi della cultura, per effetto dell’emergenza Covid-19 e dei non meno temibili Dpcm, con cui sono stati lasciati chiusi per quasi un anno non solo i musei, ma anche scuole, università, cinema e teatri.
A dichiarare questa storica sconfitta sono i dati statistici dello stesso ministero dei Beni culturali – con il suo ministro Dario Franceschini durante l’epidemia sempre schierato in prima fila per la linea dura, durissima: anzi intransigente, un po’ come quella della Dc ai tempi del rapimento Moro. Dal 2019 al 2020 gli introiti dei musei italiani sono scesi dell’80 per cento, i visitatori passati da quasi 55 milioni a poco più di 13, cioè meno 75 per cento. Tra le vittime, i luoghi della cultura più importanti per quantità e qualità. Alle Gallerie degli Uffizi meno 72,5 per cento di visitatori, da 4 milioni e 390mila a un milione e 206mila. In compenso a Firenze resta chiuso da anni il corridoio vasariano, e non è neppure iniziata la costruzione della loggia di Arata Isozaki e Andrea Maffei, vincitori di un concorso nel 1998. Come pure all’Accademia di Brera il palazzo Citterio (ora detto Brera Modern, forse perché il direttore James Bradburne è anglo-canadese), acquisito nel 1972, progettato da James Stirling nel 1988, ristrutturato quasi completamente, aperto e subito richiuso dopo un’inaugurazione civetta nel 2017, resta ancora in stand-by per chissà quanto.
Musei virtuali e musei reali
Nella difficoltà di far ritornare realmente visitabili le più importanti collezioni d’arte, nell’incantesimo che impedisce ai grandi musei italiani di intraprendere o completare la propria espansione fisica, il tentativo di surrogare con una generica digitalizzazione l’esperienza dello spazio e dell’opera sembra sorpassato dalla predominanza del reale sul virtuale.
Lo dimostra l’impresa compiuta dall’Adi, l’Associazione per il disegno industriale, dal suo presidente Luciano Galimberti, dal direttore Andrea Cancellato, dal curatore Beppe Finessi (con Matteo Pirola), dai progettisti degli allestimenti Ico Migliore, Mara Servetto e Pierluigi Cerri e una lunga lista di collaboratori e autori: che con un impegno eccezionale di tempo e di risorse sono riusciti a compiere un miracolo analogico, aprendo al pubblico a Milano, in maggio, il nuovissimo Adi design museum.
L’intero museo risulta una grande macchina informativa, didattica e popolare, basata non su big data, social media, algoritmi, indagini di mercato, influencer e tutto l’apparato della corrente pulsione digitale al consumo – ma sulla pura e semplice poesia degli oggetti, come la conosciamo dalle origini del design italiano e attraverso le sue infinite storie di idee e persone. Anche la curatela delle mostre appare insieme scientifica e romantica, perché non c’è niente di razionale nell’esporre vicine una recentissima Ferrari e una Fiat 1000 Zagato. Eppure l’idea di questi insoliti accostamenti è quella della mostra temporanea Uno a uno. La specie degli oggetti, che è la prima ad accogliere il visitatore, con un intrigante effetto di spaesamento che ne fanno il clou spettacolare del museo.
Né si può capire la mostra dedicata a Giulio Castelli, ingegnere e fondatore di Kartell, condotta per il design insieme alla moglie Anna Ferrieri, se non ricordando le sue eccezionali capacità di convincimento di altri imprenditori, di propaganda della sua testarda convinzione che un museo del design italiano fosse necessario, magari fatto «spingendo un bottone per far venire fuori a richiesta gli oggetti storici». Come Castelli dichiarava nella trasmissione Lezioni di design che abbiamo realizzato per la Rai con Anna Del Gatto e Maurizio Malabruzzi, e che ha a sua volta un importante postazione proprio nell’altra grande mostra Il cucchiaio e la città: parafrasi ironica del famosissimo ma frusto slogan di BBPR/Ernesto Rogers, che espone le collezioni storiche del premio Compasso d’Oro con un racconto di tutte le edizioni e un focus su 28 progetti premiati.
Un luogo industriale
Quadratura del cerchio geo-culturale, gli edifici del Museo attualizzano concretamente l’idea di archeologia industriale, così derelitta negli ultimi anni a Milano a favore di demolizioni di grandi edifici della sua age d’or. Questo luogo intenso di memorie milanesi nasce proprio dal recupero di un grande complesso anni Trenta, utilizzato sia come deposito di tram a cavallo sia come impianto di distribuzione di energia elettrica. Ne risulta un’imponente ma leggera e amichevole struttura, dalla superficie totale di oltre 5mila metri quadrati, articolata in spazi destinati alle esposizioni, ai servizi (caffetteria, bookshop, luoghi d’incontro), alla conservatoria museale e agli uffici. L’accesso avviene da una piazza alberata aperta al pubblico, intitolata allo stesso premio Compasso d’Oro.
Così, in piena tendenza inversa ad altre iniziative pubbliche a Milano (che, smentendo la stessa logica propagandistica della “città dei 15 minuti”, deportano le facoltà scientifiche della Statale nelle lande desolate dell’ex-area Expo a Rho Pero), il Museo Adi è collocato in un’area vivacissima e multietnica, da considerare ormai centro storico: letteralmente dentro Chinatown, ovvero il quartiere di via Paolo Sarpi, dove la gentrification immobiliare ancora non è riuscita a spazzare via gli abitanti originali della zona. Anche perché qui la comunità cinese trova una sua forte storia e identità, non solo gastronomica. Come pure i molti architetti, designer e intellettuali che qui resistono e, non potendo (volendo) permettersi i costi dello storico quartiere Brera/Garibaldi, trovano ancora sede per i loro studi a Chinatown.
Tra invenzione e capitale
Certo, questo nuovo museo del design italiano è il risultato del lavoro di moltissimi anni di un’associazione di professionisti e industriali, insolita combinazione per un’Italia ultra-sindacalizzata e divisa in mille correnti, lobby e corporazioni in feroce lotta tra di loro. Certo, il primo sindaco a firmare la convenzione per la costituzione di un museo del design fu nel lontano 2008 Letizia Moratti: che sognava anche di costruire un nuovo museo d’arte contemporanea, progettato da Daniel Libeskind per l’area di City Life, dove invece ora sta sorgendo un nuovo cluster di casupole extralusso, sempre dello stesso Libeskind. E la collezione permanente del museo è quella del Compasso d’Oro, il premio organizzato dalla stessa associazione, fondato nel 1954 da Gio Ponti e da La Rinascente, con altri imprenditori e progettisti. E se da allora il premio si è ingigantito (con qualche recente smagliatura nelle scelte dei vincitori, come la surreale premiazione di una bolletta dell’Enel, nel 2018), sicuramente rimane il riconoscimento più ricercato da designer e produttori, da qualche tempo anche internazionali.
Può dunque essere una buona lezione per altri àmbiti del progetto che l’iniziativa di un agguerrito gruppo professionale sia riuscita a creare finalmente con il nuovo museo Adi un “centro di gravità permanente” per il design a Milano e in Italia: sconfiggendo le miriadi di complicazioni burocratiche, vincoli e ostacoli che ancora immobilizzano l’aggiornamento e l’ampliamento dei luoghi della cultura. Forse con la stessa tenacia e determinazione sarebbe possibile creare il museo d’architettura che la città meriterebbe e incredibilmente ancora manca: così come latita un vero museo pubblico d’arte contemporanea. Purtroppo gli artisti operativi a Milano sono sempre meno, sempre più dispersi, e gli ancóra molti architetti faticano a coalizzarsi e ad agire uniti per promuovere la professione e le opere, la loro bellezza e criticità.
Invece, per una volta, i designer – col sostegno dei produttori – battono antichi compagni di strada nella difficile ricostruzione dell’universo degli oggetti, di come comunicarli e di come rendere la materia del progetto affascinante come merita: non solo per le ricche committenze private, ma per un grande pubblico e la sua cultura popolare, che nonostante tutto in Italia sopravvive e si nutre anche dei fenomeni della merce.
E perfino le merci, sostanza ultima del design, quando riescono a superare gli angusti confini della negoziazione tra invenzione e capitale e assumono significato culturale ed emozionale, entrano legittimamente nella storia dell’arte.
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