«Man manu ca passunu i jonna sta frevi mi trasi ’nda lI’ossa ’ccu tuttu ca fora c’è ’a guerra mi sentu stranizza d’amuri... l’amuri. E quannu t’ancontru ’nda strata mi veni ’na scossa ’ndo cori ’ccu tuttu ca fora si mori, na’ mori, stranizza d’amuri... I’amuri». È una famosa canzone, una delle poche in siciliano, del grandissimo Franco Battiato. Questa “stranizza” è il sintomo di una malattia chiamata amore, qualcosa che striscia nel corpo e nell’anima come una scossa che ti scuote e non la puoi controllare.
Facciamo un lungo salto all’indietro, di circa 2.600 anni. In quell’epoca una poetessa, la prima e forse più grande della civiltà occidentale, raccontava in modo identico i sintomi della sua stranizza d’ammuri, che però nella sua lingua si chiamava eros. Conosciamo le parole attraverso un autore antico che le cita, altrimenti sarebbero svanite, come la massima parte delle sue poesie: «Beato come un dio – diceva Saffo – mi sembra l’uomo che ti siede di fronte, e ascolta la tua voce gentile e il tuo dolce riso: e questo mi fa balzare il cuore nel petto. Ti guardo un istante e la voce si spezza, un fuoco sottile mi corre sotto la pelle, si offuscano gli occhi, ronzano le orecchie, sudo, tremo, divento più pallida dell’erba e mi pare davvero di morire».
Io non so se Battiato, uomo di grande cultura, si sia ispirato direttamente a questa famosa ode di Saffo; certo la conosceva come la conoscono tutti quelli che amano anche solo un poco la poesia. Ma ha poca importanza: quello che colpisce è che la canzone di Battiato descrive l’identico groviglio di emozioni, mentali e fisiche, che faceva soffrire Saffo e in cui ciascuno di noi può riconoscersi, se ha provato anche una volta nella vita un momento così. I meccanismi psicologici del desiderio non sono mutati, in tutti questi secoli, perché fanno parte della fisiologia dell’eros di quell’animale chiamato uomo.
Saffo descrive la sua “stranizza” guardando una ragazza, accanto al fidanzato, o forse marito, durante un banchetto. È gelosa, si sente esclusa dalla sua felicità, vorrebbe stare al posto dell’altro, sentire più da vicino le sue parole, destare il suo sorriso, ma non può, e ha il coraggio di confessare così davanti a tutti la sua malattia e la sua debolezza. Lui, quell’uomo, è felice perché le può sedere vicino; lei, Saffo, la sta perdendo e vorrebbe averla, forse anche per un solo sguardo. Ma la ragazza non se ne accorge e continua a sorridere e sussurrare parole all’uomo che è, sì, in quel momento, beato come un dio e non lo sa.
Tra una poetessa come Saffo e un poeta come Battiato esiste un altro punto di contatto: tutti e due cantavano; in loro le parole nascevano assieme alla musica, ed erano fatte per essere ascoltate da un pubblico. Così era del resto tutta la lirica greca: un mondo di cantori o di cantautori. Un rapper, un menestrello medievale, Bob Dylan, Battiato, Saffo, qualsiasi lirico greco: compongono e cantano davanti a un pubblico. Una sola linea unisce personaggi così lontani nel tempo, e certo anche nel livello, ma vicini nella certezza che la poesia e la musica possano dire l’indicibile. Tra una poetessa come Saffo e un poeta, diciamo, come Montale o Pound, la differenza è appunto questa: in lei la parola nasce per essere cantata e non detta o tanto meno letta. Ma naturalmente la musica che Saffo componeva non la conosciamo, come non conosceremo mai la sua voce; le commissionavano odi per occasioni come nozze o cerimonie; cantava davanti al suo gruppo di ragazze, e danzava con loro – almeno sinché gli anni le consentirono di farlo.
Il culto di Afrodite
Saffo dirigeva quello che si chiamava tìaso, cioè un gruppo femminile dove le fanciulle della buona società andavano a istruirsi: qualcosa di simile, si potrebbe dire, a un college. Il gruppo di Saffo era costruito attorno al culto di Afrodite, la dea dell’amore, e questo spiega anche perché l’amore fosse il suo tema prediletto; ma esistevano, al suo tempo, vari college, che cercavano di strapparsi le allieve l’un l’altro. Saffo per esempio deride la scuola diretta da una peraltro sconosciuta Andromeda: una “zoticona”, dice, una che non sa nemmeno come si fa a drappeggiare una veste attorno alle gambe.
A Lesbo nel VII secolo a.C. le donne – quelle di buona famiglia, s’intende – non stavano chiuse in casa a tessere e filare; dovevano essere istruite, saper cantare, danzare, comporre poesie, e naturalmente leggere e scrivere. C’erano persino concorsi di bellezza femminili, che si tenevano in un tempio di Era, dove solo le donne erano ammesse. Fu un mondo fragile, a suo modo unico nell’antichità che durò pochi decenni; Lesbo era allora considerata l’isola della poesia: ora dove Saffo cantava il filo spinato circonda i campi dei profughi siriani con la loro infinita miseria e disperazione.
Saffo, e il suo misterioso mondo femminile, ha per noi un fascino tutto speciale, non solo perché è la più antica voce femminile che conosciamo e non solo perché parlò in modo straordinario d’amore e non solo perché rappresenta un particolare tipo d’amore. Ma anche se la poetessa di Lesbo è da sempre un’icona gay, bisognerebbe tenere conto che l’identità sessuale nella Grecia arcaica aveva contorni ben diversi da quella della nostra civiltà. Più che di omoerotismo bisognerebbe parlare di bisessualità, connessa in particolare con rituali iniziatici dell’adolescenza (come spiega Eva Cantarella in un suo importante libro di alcuni anni fa, Secondo natura).
Quelli che si praticavano, lontano dalle famiglie, nel gruppo di Saffo erano indubbiamente amori e non vaghi sentimenti; e anche passioni, con una varietà di sensazioni che zampillavano da un mondo esclusivamente femminile e che Saffo descrive con la stessa violenza con cui gli eroi di Omero parlano delle loro passioni: l’amore, dice, è come una tempesta che scende dai monti e sradica querce. Ma poi ci sono tanti momenti sospesi e belli, solo per loro ragazze: ghirlande, danze, la luna che scivola nella notte e inonda la pianura con un fiume d’argento. E infine l’addio inevitabile perché per ogni ragazza la fine di questo percorso è il matrimonio: «Lei mi lasciava piangendo», dice Saffo della sua amata Attis.
Attorno al 600 a.C. l’isola di Lesbo era una ricca comunità di mercanti, e Saffo faceva parte dell’aristocrazia. Commerciavano -– Saffo stessa aveva un fratello minore chiamato Carasso che andò a fare affari in Egitto, dove s’invischiò in una storia poco edificante con una ragazza del posto che sembra non fosse molto raccomandabile – e talvolta si arruolavano come soldati al servizio di Egiziani e Assiri. Il poeta Alceo, suo contemporaneo e secondo quanto si diceva suo corteggiatore, era un guerriero e un uomo d’azione, invischiato in sanguinose lotte politiche che lo portarono in esilio; egli racconta di congiure, di tempeste e un po’ da sbruffone, parla del proprio fratello che fu arruolato come mercenario in Mesopotamia e tagliò in due con un solo colpo di spada una specie di Golia, un uomo alto più di due metri. Un mondo, il suo, fatto invece di violente passioni maschili. Saffo non aveva solo il suo college, ma una famiglia: un marito, un certo Cercila di Andro, ricco mercante; e una figlia chiamata Cleide: «Ho una bambina bella (scrive), bella come fiorellini d’oro, Cleide amata – Kleìs agapàta – e non la scambierei per tutto l’oro della Lidia». Del marito però non parla mai (destino comune alle coniugi e ai coniugi di scrittori e scrittrici); altri erano i suoi amori e le sue emozioni, le stesse che talvolta capita di provare ancora in Grecia quando la luna appare enorme e inquietante a riempire il cielo. La sua poesia parla di una lotta continua con le passioni e le emozioni: e più di tutte con quella che definisce «dolceamara invincibile fiera» e non la si può domare mai, e si chiama amore.
© Riproduzione riservata