Tra leonesse in gabbia e paludi prosciugate, motori a gasogeno e foreste elettriche, deserti in fiore e razze imperiali, il regime di Mussolini sviluppò una sua ecologia politica nella quale la mobilitazione della natura era funzionale alle narrative fasciste e agli interessi nazionali.

Parlare di un’ecologia politica fascista non significa affatto immaginare una qualche sensibilità ambientalista del regime; di certo, il fascismo non si dimostrò particolarmente attento alle tematiche della conservazione ambientale, neppure nelle sue tanto celebrate politiche in materia di parchi nazionali. La mobilitazione della natura era una questione ideologica prima che scientifica o tecnica.

La retorica bellicista

Il fascismo aveva l’ambizione di bonificare, ovvero di migliorare la nazione e i suoi abitanti; di conseguenza, la sua missione non poteva essere conservare ciò che aveva ereditato dal passato.

Persino il discorso ruralista á l’Arnaldo Mussolini era, in realtà, una celebrazione dell’ingegno umano e delle culture contadine, in altri termini di un paesaggio costruito nel quale era impossibile e senza senso provare a separare la natura dal popolo. Dopotutto il discorso fascista sulla razza era intrinsecamente una narrativa che mischiava natura, storia e umani.

Se il discorso sulla domesticazione della natura era sostanzialmente il manuale d’uso delle colonie, la situazione non era molto diversa nella madrepatria, dove tra battaglie del grano, autarchia e bonifica il fascismo aveva dichiarato guerra alla natura. La retorica fascista rende esplicita questa attitudine, quasi senza lasciare troppo spazio all’interpretazione.

Non è un caso la proliferazione nel discorso fascista di battaglie di ogni tipo, prima fra tutte quella del grano, ma anche la battaglia autarchica e la bonifica, per tacere della guerra alle capre. La metafora bellicista non rimanda solo a una incapacità del regime di articolare un discorso di mobilitazione civile autonomo dalla retorica e dalla pratica di violenza costitutive del fascismo.

Natura nemica

Le battaglie naturali implicavano alcuni presupposti che potremmo definire teorici e che svelano gli assunti dell’ecologia politica fascista. Per dichiarare guerra c’è bisogno di un nemico e in effetti per il regime il mondo naturale non sembra essere molto di più. Parlare di battaglie implicava infatti riconoscere nella natura un nemico da sconfiggere e uno spazio da conquistare. La stessa bonifica era, in fin dei conti, una guerra contro la palude e la malaria, una guerra coloniale interna per conquistare lo spazio vitale necessario all’espansione di una prolifica Italia fascista.

Anche quella per l’autarchia era ovviamente una battaglia del regime che, come abbiamo mostrato, aveva molto a che fare con la natura. E anche in questo caso si trattava di una guerra di conquista; e non solo laddove il progetto autarchico si sposava esplicitamente con quello coloniale. L’autarchia significava occupare ogni millimetro del suolo, del mare e del sottosuolo; era un’espansione in intensità e spesso in profondità – visto il ruolo cruciale rivestito dalla ricerca di minerali e combustibili – del controllo del regime sulla natura.

Occupare, conquistare, mettere a valore erano i corollari ideologici ma anche estremamente pratici di questa ecologia politica del fascismo, così fortemente bellicista. Acque in eccesso o assenti, frane, zanzare, un sottosuolo avaro di minerali e di sostanze nutritive: questi sono solo alcuni dei tropi ricorrenti nel discorso fascista su una natura che se non apertamente nemica per certo non sembra un’alleata dei progetti di gloria del regime. Una natura così non restava che combatterla, confrontarla, addomesticarla. 

Ambivalenza contraddittoria

Tuttavia, come spesso accade nel discorso fascista, non mancano le contraddizioni. La povertà della natura, in patria come nelle colonie, si scontrava con la retorica che invece celebrava le immense ricchezze della natura italiana, la superiorità estetica dei paesaggi o l’unicità di alcune specie animali e vegetali. Dopotutto, finanche il discorso bellicista non avrebbe avuto senso dentro una rappresentazione tutta al negativo della natura: perché mai lottare per conquistare una terra senza alcun valore?

In questo senso ci sembra che l’immagine del nemico sia più calzante di una semplice rappresentazione “negativa” della natura. Come i nemici in guerra, così la natura sembra nascondere i suoi tesori; tutti gli eserciti sanno bene che nei territori occupati la ricchezza non è mai in mostra. Bisogna perquisire, requisire, spaventare, costringere, estorcere fino all’ultima goccia; il tutto con una buona dose di violenza e, come è noto, la violenza era forse l’unica cosa di cui il fascismo non mancava.

Ecco, la visione di una natura nemica, gelosa di tesori nascosti e comunque non messi a valore, spiega le molte guerre naturali del fascismo e, più in generale, gran parte dell’ecologia politica del regime. E come in ogni guerra che si rispetti, anche quella fascista per conquistare la natura avrebbe portato il suo bagaglio di distruzione; si pensi, ad esempio, ai disastri idroelettrici e minerari, alle bonifiche pagate con la salute e la vita dei lavoratori, ed infine all’imposizione di un regime ecologico razzista nelle colonie.

Questione di narrazione

La natura nemica e le guerre naturali fasciste furono, insomma, tanto dispositivi narrativi quanto pratiche di governo dell’ambiente; le ritroviamo scritte nei discorsi del duce ma anche nei paesaggi creati dalla bonifica, nei documentari dell’Istituto Luce, nelle coperture forestali e nel disegno ecologico delle colonie tra sfruttamento delle risorse locali e tentativi di riprodurre i sistemi agroecologici della madrepatria.

Sono le storie che ancora oggi restano scritte nei monumenti fascisti, nella toponomastica del regime, sulle pareti di edifici pubblici o di montagne. È nostra convinzione che narrative e pratiche di governo abbiano entrambe avuto effetti significativi; in altri termini, sebbene spesso emergano le contraddizioni tra certi discorsi e certe pratiche del regime (si pensi ad esempio alla retorica ruralista e alla repressione della Milizia forestale), non è nostra intenzione proporre una banale opposizione tra proclami e azioni, parole e opere.

L’ecologia politica del fascismo si comprende dentro quel sistema di narrazioni e pratiche, entrambe estremamente materiali. La celebrazione dei rurali, ad esempio, si colloca all’interno di un’ecologia popolazionista antiurbana che celebrando la memoria della Grande Guerra come forgia dell’Italia rurale in armi si incastra perfettamente con la militarizzazione della Milizia forestale e finanche con la trasformazione delle vallate alpine in motori idroelettrici.

Discorsi scritti nel paesaggio

Il ruralismo fascista, infatti, faceva rima non con autonomia o libertà, ma con disciplina e obbedienza ai superiori interessi della nazione, fossero essi resistere sul Piave o produrre elettricità per l’industrializzazione del paese. Una diga nella Sila calabrese e un parco nazionale dedicato alle memorie della Prima guerra mondiale sullo Stelvio erano davvero le due facce della stessa medaglia, discorsi scritti nel paesaggio e proclamati da qualche balcone di una città italiana.

Quando parliamo di un’ecologia politica fascista intendiamo che la natura di cui parla e si occupa il regime è sempre un campo di forze dove interessi contrapposti si confrontano e si contendono il diritto a definire e governare quella stessa natura. L’ecologia politica fascista chiarisce che quella natura non è fuori ma dentro il sistema di potere del regime, dentro il suo discorso sulla razza, dentro le fantasie autarchiche e i disegni coloniali. Che siano leonesse o campi di grano, bacini idroelettrici o piantagioni coloniali, la natura, non era mai solo una questione ecologica.

Insomma, occorre stare attenti e ricordare che ci si sta muovendo in una galleria di specchi deformanti dove ci sembra di vedere una montagna e invece era una guerra, ci appare una foresta e invece era un motore, conserviamo un monumento al lavoro e invece era all’impero, intravediamo una leonessa docile nella gabbia e invece era un’intera nazione. O forse solo un gattino di Villa Torlonia.


La natura del duce. Una storia ambientale del fascismo (Einaudi 2022, pp. 200, euro 24) è un libro di Marco Armiero, Roberta Biasillo, Wilko Graf von Hardenberg

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