- All’interno del nostro «primo mondo», delle nostre società tecnologiche e consumistiche, la produzione e il consumo di immagini è continuo e insistente. Tale insistenza ha prodotto una sorta di tranquilla assuefazione.
- Questo è un errore. Il presente testo ritorna a interrogarsi sulla natura dell’immagine collocando quest’ultima all’interno dell’intreccio luce/sguardo/immagine.
- L’ipotesi che si propone può essere così formulata: il soggetto umano non è solo illuminato, come il semplice oggetto, ma è egli stesso luce, è egli stesso illuminante; lo sguardo è la luce con la quale egli illumina e va incontro alla realtà che gli viene incontro; frutto dello sguardo è l’immagine.
All’interno del nostro «primo mondo», delle nostre società tecnologiche e consumistiche, la produzione e il consumo di immagini è continuo e insistente. Tale insistenza ha prodotto una sorta di tranquilla assuefazione; così come non ci si interroga più sul consumo e soprattutto sul consumismo, analogamente si considera l’immagine, qualsiasi immagine, come una realtà del tutto ovvia e in fondo a-problematica. L’uso e l’abuso delle immagini sono vissuti come una sorta di inevitabile effetto collaterale del nostro stile di vita. Questo è un errore.
Luce, sguardo, immagine
Il presente testo ritorna a interrogarsi sulla natura dell’immagine collocando quest’ultima all’interno dell’intreccio luce/sguardo/immagine; l’ipotesi che si propone può essere così formulata: il soggetto umano non è solo illuminato, come il semplice oggetto, ma è egli stesso luce, è egli stesso illuminante; lo sguardo è la luce con la quale egli illumina e va incontro alla realtà che gli viene incontro; frutto dello sguardo è l’immagine.
Per sviluppare una simile ipotesi si ricorre al termine «metafisica» che tuttavia viene qui assunto in un significato particolare, ben delineato, privo, questa è almeno l’intenzione, di qualsiasi tipo di enfasi, un significato che accetta senza vergogna di essere qualificato come «piccolo»; esso, più che un’altezza o una superiorità, intende soprattutto marcare uno scarto e una differenza irriducibili.
Esiste, infatti, una fisica della luce con i suoi termini e le sue leggi; esiste un’ottica come «parte della fisica che studia i fenomeni luminosi, cioè quelli relativi al comportamento delle radiazioni atte a impressionare il nostro occhio o talvolta, più in generale, di tutte le radiazioni elettromagnetiche». La fisica, e di conseguenza anche l’ottica, si istituisce sulla base della rappresentazione di un certo oggetto e sul funzionamento di un certo lessico: questo oggetto determina il lessico che lo interroga e questo lessico, evidentemente, determina a sua volta l’oggetto stesso ch’esso interroga.
All’interno della fisica la luce viene considerata solo in quanto essa è radiazione, onda elettromagnetica, energia; di conseguenza l’ottica legge e interpreta la luce all’interno di un universo semantico formato da angoli, rette, campi, piani, prospettive, impressioni, ecc., in altre parole: all’interno dell’universo della geometria.
Tuttavia, non appena la luce si imbatte in quel «corpo» che è l’uomo, o meglio, non appena essa attraversa e abita quel «corpo» esclusivo che (in quanto uomo) è soggetto e non solo individuo, ecco che subito la fisica si trova presa in un intrigo di riflessi e riflessioni, speculazioni e pulsioni, fantasie e fantasmi, visioni e vedute, immagini e immaginazioni, intrigo nel quale lo spazio si curva e la retta si intreccia, il punto esplode e si dissemina, l’apparire risplende e sfavilla. In questo «luogo», all’interno del particolare modo d’essere dell’uomo, la luce segue delle leggi che non sono più quelle della fisica. In effetti, da qualsiasi parte l’uomo si volga sempre, incontrando la luce, egli si trova coinvolto in ciò nei confronti del quale la fisica non manifesta alcun interesse e anzi sembra essere, o voler essere, quasi del tutto cieca; per l’appunto, riflessi e riflessioni, immagini e immaginazioni, fantasie e fantasmi, visioni e vedute, ombre e abbagli.
Oggettivo e soggettivo
[…] Che cos’è, allora, un’immagine? A questa domanda si è già risposto: essa è ciò che corrisponde a uno sguardo. L’immagine è il frutto di uno sguardo; di conseguenza la questione che sempre l’accompagna rinvia in modo essenziale alla questione relativa alla natura stessa dello sguardo.
Tuttavia, una volta riconosciuta una simile connessione, la facilità iniziale si trova subito trasformata in difficoltà; in effetti, che cos’è uno sguardo? A questa nuova domanda bisogna rispondere: esso è la luce con la quale l’uomo illumina e va incontro alla realtà che viene incontro, e tale realtà viene incontro solo all’interno della luce, cioè dello sguardo, che la sollecita, la illumina e le va incontro.
Il soggetto, infatti, come si è ripetuto più volte, non è solo illuminato ma è egli stesso illuminazione, luce che illumina, e questa luce è, per l’appunto, quella del suo sguardo che illumina avanzando verso la realtà che avanza. È per questa ragione che l’espressione «immagine di» deve essere sempre intesa sia nel senso del genitivo oggettivo (ogni immagine è immagine di questo e di quello), sia nel senso del genitivo soggettivo (ogni immagine «parla» di colui che con il suo sguardo avanza e illumina la realtà, essa è «significante» del soggetto che la mette in opera).
Da questo punto di vista lo sguardo, in quanto luce che illumina, in quanto illuminazione umana, è da interpretare secondo il modo d’essere, non dell’impressione, quanto piuttosto dell’espressione: esso esprime il soggetto secondo quella misura dell’esperienza, la propria, che tuttavia eccede sempre ogni suo sapere e ogni suo volere. L’esperienza del soggetto, infatti, pur essendo sempre «propria» non è mai una sua pura e semplice «proprietà».
L’immagine rinvia alla luce dello sguardo e a sua volta quest’ultima rinvia al rispondere del soggetto; in tal senso, nel rinviare alla luce dello sguardo, l’immagine rinvia inevitabilmente anche al soggetto che è all’origine dello sguardo, vale a dire rinvia a quel «luogo» dove, come si è già accennato, tutto si complica e ogni ovvietà si dissolve. È proprio pensando al soggetto, e più precisamente al «soggetto del desiderio che è l’essenza dell’uomo», che Lacan sente il dovere di affermare: «In questa materia del visibile tutto è tranello, e in modo singolare – com’è così ben designato da Merleau-Ponty nel titolo di uno dei capitoli del Visibile e l’invisibile – entrelacs, intrecci. Non c’è una sola delle divisioni, uno solo dei doppi versanti che la funzione della visione presenta, che non ci si mostri come un dedalo. Man mano che vi distinguiamo dei campi, ci accorgiamo sempre più di quanto si incrociano» (Seminario XI, trad. it., p. 95).
Condizione emotiva
[…] Nella Retorica Aristotele giustifica la necessità da parte del retore di conoscere le passioni dell’animo umano osservando che: «Le cose non sembrano le stesse a chi vuol bene e a chi odia, né a chi è adirato o chi si trova in uno stato di calma, bensì appaiono del tutto differenti o in gran parte differenti» (Retorica, 1377 b 30).
Nella traduzione italiana del testo di Aristotele si traduce con «sembrano» il greco fainestai, ma questo verbo più che «sembrare» significa propriamente «apparire», e infatti poco oltre il traduttore traduce lo stesso verbo con «appaiono». Dovremmo allora dire che le stesse cose, ancor prima di essere giudicate in modo diverso, più che sembrare, appaiono differenti a chi vuol bene o a chi odia.
A questo livello, dunque, la condizione emotiva del soggetto – e come insegna Heidegger, l’uomo è situato non solo fisicamente ma anche emotivamente: egli si trova sempre all’interno di uno stato emotivo – interviene nella percezione stessa della realtà. Affermazione impegnativa che solleva infiniti interrogativi soprattutto perché essa mette in questione una certa concezione ingenua dell’evidenza come ciò che si impone, che si autoimpone proprio perché sarebbe impermeabile allo stato d’animo di colui di fronte al quale essa si rivela.
[…] La metafisica che così si propone è una «piccola metafisica»: un tale termine, come si è già accennato, non intende rinviare, almeno in prima battuta, ad alcun «al di là», ad alcun «oltre», poiché esso dichiara esplicitamente che il proprio interesse è tutto per quel «al di qua» che è l’uomo, per quel «qui» assoluto e concreto che è ogni singolo uomo; questa «metafisica» è dunque tutta assorbita dal modo d’essere del soggetto in atto nell’unicità della sua esperienza, e sarà solo per fedeltà a quest’ultima ch’essa non vivrà come uno scandalo l’insistente apertura «al di là» di un simile «al di qua».
La «metafisica» qui proposta è una «piccola metafisica» perché essa non si riferisce al «cielo», ma alla «terra», al tutto di quella «terra/cielo» che è sempre ogni singolo uomo; in conclusione, il termine «metafisica» viene qui assunto in riferimento all’esperienza umana della luce in quanto sguardo.
Il testo è tratto da: Silvano Petrosino, Piccola metafisica della luce. Una teoria dello sguardo, Vita e Pensiero, Milano 2021, pp. 155, euro 16.
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