La piattaforma di streaming ha un mix di ingredienti che ne stanno decretando il successo internazionale. Come nessuna altra realtà, può contare sul budget e la libertà per dare vita ai suoi prodotti originali
- Per quanto mi sembri eccessivo attribuirle tutto questo potere, è senz’altro vero che l’azienda di Los Gatos ha raggiunto una dimensione che ne fa qualcosa di più di un servizio on demand di serie e film.
- SanPa avrebbe ottenuto tutta questa attenzione sui media se fosse stata fatta da Rai, da Mediaset, da Sky? È una domanda che contiene alcune trappole, ma è utile da porre.
- Quando Netflix arriva in Italia è già sinonimo di disruption e di libertà. È il sogno realizzato del progressismo, è la tv che guarda Obama, la tv a forma di Silicon Valley. Netflix ha inventato un’offerta per una élite di massa.
Pare che dopo La regina degli scacchi, il finto biopic di Netflix su una prodigiosa scacchista orfana e alcolizzata, le vendite di scacchi su eBay siano aumentate del 250 per cento e che il numero di giocatori presenti su chess.com sia quintuplicato. Recentemente si è molto discusso della capacità di Netflix di incidere sulla realtà, si pensi, per venire all’Italia, al caso di SanPa e all’influenza che ha avuto sulla nostra agenda culturale e politica.
Per quanto mi sembri eccessivo attribuirle tutto questo potere, è senz’altro vero che l’azienda di Los Gatos ha raggiunto una dimensione che ne fa qualcosa di più di un servizio on demand di serie e film. SanPa avrebbe ottenuto tutta questa attenzione sui media se fosse stata fatta da Rai, da Mediaset, da Sky? È una domanda che contiene alcune trappole, ma è utile da porre.
Netflix in Italia
Netflix arriva in Italia nel 2015, nello stesso anno di Australia, Giappone e Spagna, tre anni dopo lo sbarco in Germania e Inghilterra, e due dopo la Francia. L’anno successivo, al Ces di Las Vegas, una delle più importanti fiere di settore, Reed Hastings, dopo 48 minuti di showcase, annuncia che il servizio diventa globale, restano fuori solo Cina, Corea del Nord, Siria e Crimea.
Andrebbe precisato, come fa Ramon Lobato nel suo Netflix Nations (Minimum fax), che non esiste una sola Netflix nel mondo, ma tante quante sono i paesi nei quali è presente: cambiano i cataloghi, il costo degli abbonamenti, le normative, la velocità di banda, il successo culturale ed economico. Ma è pur vero che il marchio è lo stesso e si porta dietro la stessa aura. Così quando Netflix arriva in Italia è già sinonimo di disruption (in Italia potremmo pure chiamarla “rottamazione”) e di libertà. È il sogno realizzato del progressismo, è la tv che guarda Obama, la tv a forma di Silicon Valley.
Gli argomenti di Netflix a favore della sua novità sono molteplici e la comunicazione aziendale ne ha saputo sfruttare al meglio ogni retorica. Anche se all’inizio Netflix è un fenomeno per pochi, in Italia come nel resto d’Europa, quei pochi non sono persone qualsiasi ma gatekeepers, come si chiamavano un tempo e che oggi, moltiplicatisi come gremlins, sono diventati influencer. Così, a furia di parlarne il numero degli abbonati cresce. La platea non è composta più solo dagli innovatori ma si radica all’interno della famiglia italiana.
È impossibile dire con esattezza la penetrazione di Netflix nel nostro paese perché, com’è noto, è un dato che l’azienda non dichiara, ma secondo diverse stime, per esempio quelle di Digital research, il numero magico si aggira intorno ai quattro milioni di abbonamenti. Un parterre considerevole, quindi, anche se non tutti usano il servizio ogni giorno, a differenza di quanto accade per la tv.
Il modello
Nel 2020 la cifra investita nell’acquisto e produzione dei contenuti è stata di circa 17 miliardi di dollari. Ripeto: 17 miliardi. Avere una mole di contenuti sempre fresca fa parte del modo peculiare in cui funziona la macchina di questo colosso: nuove uscite ogni settimana, così tante che è impossibile per chiunque tenere il passo. Sono necessarie a restituire un’idea di ricchezza per tutti i palati, in modo da trattenere nella propria orbita chi è già abbonato e portarci chi ancora non lo è.
Perché gli abbonati sono l’indicatore primario della ricchezza di Netflix, le fondamenta della sua fortuna, che è finanziaria e non industriale. Il valore delle sue azioni sul mercato cresce trimestre dopo trimestre sostenute dall’aumento del numero di abbonati nel mondo: 50, 100, 200 milioni. Così nel 2020, in piena pandemia, supera persino la capitalizzazione di Disney.
Per chi venisse dal Novecento il successo di Netflix sarebbe inspiegabile, dal momento che spende più di quello che guadagna. Apparirebbe un po’ come il presunto talento del calabrone: con quel corpo lì, quelle alucce così, mica potrebbe volare mai, eppure vola. Fino a che cresceranno gli abbonati, Netflix continuerà a prosperare, poi dovrà alzare i prezzi o introdurre una quota di pubblicità, o vendere. Non c’è quindi da stupirsi che l’azienda continui ogni anno a investire cifre all’apparenza così spropositate. Ovviamente, più titoli produci più aumenti le possibilità di fare flop ma anche di trovare quelle perle che sono in sintonia con ciò che vai dicendo in giro del tuo brand.
Nonostante le parodie che circolano da tempo, Netflix non produce tutto quello che le viene proposto. I criteri sono molteplici e poggiano sull’enorme mole di dati che macina ogni singolo secondo della sua vita. Quali showrunner, registi, attori mettere sotto contratto? Cosa comprare? Cosa produrre per andare incontro alle esigenze di tutte quelle nicchie che ricomposte danno vita a un’audience di massa globale?
Netflix ha inventato un’offerta per un pubblico che non è l’élite (quella è Hbo) e non è il nazionalpopolare. La sua è piuttosto un’idea di élite di massa, qualcosa che nel mondo dei marchi, soprattutto di moda, ha preso piede da qualche tempo con il nome di mastige: il prestige per le masse. È una categoria molto più diffusa di quanto pensiamo nelle nostre vite: è la cucina gourmet accessibile, sono i mobili di design per tutti, sono i filtri Instagram con i quali rendiamo migliore la nostra vita. Netflix ha trovato la formula alchemica per sintetizzare un ibrido tra la più esclusiva pay tv e la televisione commerciale. Vive di forze contrapposte che si rispecchiano e trovano il loro equilibrio dinamico istante dopo istante all’interno di un catalogo che offre tutto e il suo contrario.
Una scienza che oltre all’analisi dei dati di consumo della piattaforma ha bisogno di un’analisi costante dei gusti e delle tendenze, soprattutto sui social. In un sistema di questo tipo è del tutto naturale che nascano successi globali e locali, com’è successo con SanPa. Se ci soffermiamo su questo titolo dal punto di vista delle tendenze interne ed esterne a Netflix ci troviamo davanti a: il tema delle dipendenze (centrale nei teen drama presenti sulle piattaforme, dalla droga al sesso; così come nei numerosi docu dedicati ai due temi); il tema del controllo (dalle distopie ai social), quello dell’impegno civile/denuncia sociale (Sotto la mia pelle, When They See Us, un numero imprecisato di docu), l’ossessione per i personaggi larger than life (Wild Wild Country, Tiger Man).
Come nota Dario Rossi su Le parole e le cose, cos’altro è SanPa se non la versione locale di Wild Wild Country, con Vincenzo Muccioli al posto di Bhagwan Shree Rajneesh (Osho)? Senza contare la smania italiana per personaggi che rispondono al tipo del “giustiziere”, ovvero, colui che in ragione di una personale e insopprimibile etica si sostituisce a uno stato assente nel praticare giustizia.
SanPa ha saputo fare anche di più, ha denudato il mito degli anni Ottanta, altra presenza forte sulla piattaforma (Stranger Things). Li ha scoperchiati nei loro aspetti più bui agli occhi di una generazione che li concepiva schiacciati sullo stereotipo dell’edonismo individualista, del craxismo, di Berlusconi e della tv commerciale, della Milano da bere, di Gerry Calà, del cinema high concept, del synth pop… come se gli anni Settanta fossero terminati per miracolo nel 1980, con la marcia dei quarantamila, come scritto nei libri. Con Andrea Pazienza e Stefano Tamburini morti per overdose, insieme a migliaia d’altri, e l’Aids dimenticati sullo sfondo, sulle note ansiogene di O Superman di Laurie Anderson.
È anche questione di stile
C’è poi il tema dello stile, che non è secondario. Nel mondo seriale Netflix ha codificato una certa estetica funzionale alla comunicazione del suo marchio con la prestige tv: una serialità che fa ricorso alla forza dei nomi, grandi registi, showrunner, attori. Nomi che dicono il valore del prodotto senza neppure il bisogno di vederlo. Ci sarà tempo per restarne delusi, in caso, ma ancora prima della messa in onda è già un successo.
Rientrano in questa categoria più o meno tutti i film e le serie che Netflix promuove con maggiore forza su scala internazionale. Ma così come ha declinato una versione più accessibile della serialità complessa di Hbo, Netflix ha saputo anche nobilitare il factual con produzioni di grande impatto basate sull’estetica della non fiction, con storie prese dalla realtà ma costruite come fossero una serie tv. Laddove non c’è una vera libertà creativa, perché è la realtà che disegna i contorni delle vicende, entra in gioco la disposizione dei fatti, la creatività del montaggio, l’uso delle tecniche narrative messe a punto dalla letteratura prima, e dalle serie tv poi, fino a dare vita a un ibrido che è la quintessenza dal factual, del sembra vero. Che poi significa intrattenersi mentre si ha l’impressione, o l’illusione, fate voi, di imparare qualcosa di utile. C’è un pubblico, quello più evoluto, che ha sempre bisogno di una giustificazione per potersi divertire. Capolavoro di questo genere perfezionato da Netflix è forse Making a Murderer, il titolo a cui Gianluca Neri, creatore di SanPa, ha dichiarato di avere guardato a modello.
Visto col senno di poi, quindi, non stupisce che SanPa abbia avuto tanta attenzione, è una serie perfettamente a suo agio in questo tempo. Oggi Netflix è nella posizione per dire agli spettatori che qualcosa è eccezionale, ha il budget e la libertà per farlo (anche perché è regolata da norme meno stringenti rispetto a quelle di un editore tv), ha tutti i dati che le servono, delle carte di credito e persino dei nostri sospiri mentre guardiamo qualcosa, ha la stampa ai piedi e la politica che più volte l’ha usata come modello da seguire (Di Maio e la “Netflix italiana” vaticinata nel 2018, senza rendersi conto che una Netflix italiana non può strutturalmente esistere), ha la forza di presentare qualcosa come unico e, in un certo senso, ha ragione.
Alla luce di quello che abbiamo detto, torniamo alla domanda iniziale, cioè se SanPa avrebbe ottenuto questa attenzione se fosse stata fatta da altri. La risposta è che né Rai, né Mediaset, né Sky, per il loro modello, l’avrebbero prodotta. Al più, Rai ci avrebbe fatto un’inchiesta per Report, Mediaset uno speciale delle Iene, la cosa più vicina per linguaggio a SanPa, Sky una serie. Questa tipologia di prodotto, il suo stile e il suo linguaggio, non hanno spazio nell’offerta di queste tv. E comunque, nessuna di esse avrebbe potuto contare su quel Netflix effect, risultato delle forze di cui abbiamo parlato, che è attualmente un potente ingrediente magico.
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