Rosy, Mondadori 2024, è l’ultimo romanzo di Alessandra Carati. La scrittrice, a partire dalla figura di Rosy, l’assassina-bambina di cui oggi alcuni sostengono l’innocenza, costruisce un libro che trascina il lettore nell’esplorazione dell’incomprensibile
Rosy, accusata di aver ammazzato, a colpi di coltello e spranga, tre donne e un bambino, non desidera essere scagionata e nemmeno la verità. Lei se ne starebbe pure tutta la vita in quella stanza, dietro alle sbarre, che più di imprigionarla la proteggono dal male.
L’importante è solo che lui resti con lei, che Olindo, suo marito, al quale sono imputati i suoi stessi atroci delitti, non le venga estorto, che il suo amore simbiotico, inderogabile e talmente necessario da apparire mostruoso agli occhi degli altri non venga reciso da nessuna regola, perché è lui l’unica legge che nomina tutto.
Non un semplice amore, ma, per l’uno e per l’altra, il «contenitore dell’esistenza» intera: così lo descrive Alessandra Carati, con parole potenti ed esatte, nel suo romanzo Rosy, Mondadori, 2024. «Funzionavano come una persona sola, in uno stato fusionale di cui era impossibile raggiungere il nucleo» scrive Carati a proposito del rapporto che legava i coniugi condannati all’ergastolo per la strage di Erba, raffigurando l’uno come il prolungamento dell’altra, come «l’unica possibilità di proiettarsi all’esterno e sopravvivere come essere sociale».
L’assassina-bambina
La scrittrice, a partire dalla figura di Rosy, l’assassina-bambina di cui oggi alcuni sostengono l’innocenza (il 10 luglio dovrebbe riunirsi la camera di consiglio per decidere sull’istanza di revisione del processo), costruisce un libro che trascina il lettore nell’esplorazione dell’incomprensibile.
La tecnica narrativa sfrutta l’irresistibile piacere che ciascuno di noi prova nello sbirciare, senza essere visto, nelle pieghe più intime dell’animo di chi soffre: così, Rosy è osservata dagli occhi di un’anziana vicina che raccoglie le poche cose che la “coppia diabolica” ha chiesto dal carcere, innanzitutto le fedi nuziali che racchiudono l’universo simbolico senza il quale Rosa e Olindo non possono sopravvivere; quindi, su Rosy si posa lo sguardo di diversi osservatori – gli avvocati, i giornalisti, il prete, i carcerati, gli psicologi e psichiatri – i quali, a turno, accendono su di lei una luce capace di illuminare ben oltre il personaggio che dà il nome al romanzo e di offrire un’analisi sociale profonda che non può che scuotere intimamente chi legge.
Più di un romanzo
Rosy non è solo un romanzo su Rosa, Rosina. Grazie a una narrazione efficace e spietata, la scrittrice ricostruisce i disperati tentativi di resistenza della coppia nei confronti della realtà; la loro affezione, la loro reciproca idolatria, viene mostrata al mondo attraverso i goffi, aberranti errori in cui entrambi cadono ogni volta che tentano di negare la dissolubilità del loro amore.
Quel che importa a chi scrive e, di conseguenza, a chi legge, non è determinare gli eventi sulla base del principio di realtà; l’osservatore è chiamato ad accantonare ogni pretesa di stabilire cosa sia verità e a eleggere un altro criterio di discernimento: la coscienza. Perché, insieme a Rosy, nel romanzo che non la assolve né la perdona, quell’11 dicembre 2006, a Erba, molte cose sono state frantumate e inghiottite: il beneficio del dubbio, la gratuità della menzogna e dell’offesa, il diritto alla difesa e a una simmetria informativa, la possibilità del segreto, la protezione dell’ombra, la facoltà di essere padroni, almeno, delle proprie parole, il potere di nominare, prima di venire irrimediabilmente nominati.
«Non siamo niente»
«Non siamo assassini! Non siamo niente!» urlava Rosy il giorno stesso dell’arresto, prima che avesse luogo il processo, contro i giornalisti che la incalzavano, contro i curiosi che le auguravano la morte, contro i detenuti che «avevano battuto le posate sulle sbarre per tutta la notte» e che «per lei invocavano la stessa fine del bambino, lo sgozzamento».
È in quel «niente» che risuona lo spaesamento radicale in cui si trova Rosy dall’inizio alla fine del romanzo, dal principio della sua vita, dal momento in cui ha fatto la prima esperienza di rifiuto, apprendendo di essere invisibile, sino a quando, visibilissima, spettacolarizzata, tra piacere e sgomento, stringe la mano di Olindo nella gabbia che, per la loro esibizione, è stata preparata. Olindo, ti prego aiutami, non voglio stare qui, non andare via, non lasciarmi sola, è la supplica di Rosy al marito che, intanto, le sussurra «mia dolce sposa, piccola colomba, vita della mia anima».
Vittima e carnefice
Due polli in trappola, due cani abbandonati, così i due coniugi di Erba descrivono loro stessi, persistendo nella paradossale confusione tra vittima e carnefice, mentre tutto il paese li identifica come coloro che hanno scannato e bruciato quattro corpi in pochi minuti e senza lasciare traccia.
Nel frattempo, Rosy e Olindo implorano gli inquirenti – gli stessi a cui stanno confessando il plurimo omicidio – di assegnargli una cella matrimoniale, di dividere la pena in due, sostenendo di averne il pieno diritto perché «il matrimonio è un’istituzione dello stato … È tutelato dalla Costituzione» è «un’unione inscindibile, superiore anche alla legge umana». Invocano la legge di Dio come fosse il loro personalissimo statuto dell’amore, l’amuleto capace di offrire loro sempre una fuga dalla realtà.
«La coppia è stata divisa e nella divisione si è estinto l’unico mondo per loro reale».
Perché non posso stare con lei se l’ho sposata?, è la domanda disperata e disperante che Olindo continua a rivolgere a tutti mentre tenta di trattenere quell’ordine cosmico che ora, improvvisamente, si sgretola davanti ai propri occhi: non sono i cadaveri bruciati al piano di sopra a far tremare le fondamenta della sua persona, non è la colpa, ma è l’agghiacciante evidenza che quel loro grande amore non può tutto, esistono leggi capaci di piegarlo.
Alessandra Carati non ha paura di offrire la propria abilità di scrittura per sviscerare l’orrore che è contenuto nell’ordinario, come in un amore che mostri come «c’è qualcosa di più spaventoso dell’essere dipendente: il non esserlo più».
«Per fuggire la de-realtà cerco di tenere i contatti col mondo attraverso il malumore» scriveva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso. Alessandra Carati dà forma narrativa a questo assunto, mentre racconta dell’incessante lamento di Rosy, tiranna delle conversazioni, noncurante dell’interlocutore, interessata, più che a dialogare, a risentirsi, a protestare, a rendere impossibile ogni via di comunicazione. «Storta, cattiva come l’aglio», arrabbiata, vulnerabile, depressa, fragile, affetta da un ritardo mentale, da una «minorità»: persino la scrittrice, quando la incontra e la ascolta parlare, alla sola idea di essere legata a lei da un filo narrativo, si vergogna.
Perché Rosy è la prova vivente del fatto che la teoria della scelta razionale è derogabile e che un essere umano è capace di trasformarsi nel peggior nemico di sé stesso. «La condizione di Rosa è stata un intralcio, ha deciso l’impianto difensivo, che si è piegato a lei, e non viceversa» scrive Carati riportando la frustrazione dell’avvocato davanti a una donna che è stata «un fardello», non «un’assistita normale». Sempre più lontana dal reale, tagliata fuori persino da sé stessa, non ha saputo neanche lottare perché fosse riconosciuta la propria innocenza.
La forza dell’indicibile
Rosy è un libro che affronta più temi e incrocia più registri, accostando la cronaca scarna, essenziale, incalzante, a una narrativa letteraria, poetica, che inchioda e trascina il lettore nel luogo, drammatico, in cui l’emotività incontra l’autocoscienza.
Un romanzo trainato da una narratrice che in principio è terza, esterna, spettatrice obiettiva dei fatti, poi diviene interna e, da co-protagonista, comincia a condurre il racconto in prima persona. Il rapporto diretto tra la scrittrice e la condannata diviene la cartina tornasole che mostra una società disposta a tutto, persino a rinunciare al concetto di giustizia, pur di non sottrarsi al grande spettacolo del male.
Rosy è un romanzo che scuote, con la forza dell’indicibile, affondando lo sguardo in materie così oscure che non possono essere viste, oltre l’amore, oltre la dipendenza, oltre il linguaggio, oltre la ragione, oltre il senso, oltre il vuoto, oltre l’integrità morale, oltre l’orrore, oltre la dissipazione del sé. Dalla prima all’ultima parola il lettore è disposto a chiedersi: chi è qui il mostro? Coloro che, secondo la verità giuridica, hanno ucciso con ferocia oppure io che leggo?
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