L’incredibile viaggio dell’inviato speciale Antonio Moresco continua. Abbandonata la guida del professor Occultis, un nuovo e insolito accompagnatore ci conduce all’abitazione di un immortale poeta
- Riprendo a camminare da solo. Il professor Occultis se ne è andato per fare ritorno nella città dei vivi. Mi sto addentrando in una zona sempre più periferica, perché ci sono le periferie anche qui nella città dei morti.
- Eppure… mi sembra da un po’ di tempo di vedere una lontana figura che sta camminando verso di me. Però è lunga, sottile, filiforme. Quando è ormai a poche decine di metri da me la riconosco. «Ma tu sei Pinocchio!»
- «Cosa ci fai in questa città?» mi domanda d’un tratto. «Sono l’inviato di un giornale. Perché non si capisce niente dei vivi se non si mettono in relazione i vivi e i morti».
Riprendo a camminare da solo. Il professor Occultis se ne è andato per fare ritorno nella città dei vivi. Mi sto addentrando in una zona sempre più periferica, perché ci sono le periferie anche qui nella città dei morti, periferie che poi diventano a poco a poco centri abitati irti di grattacieli sghembi e di ipermercati e poi di nuovo periferie, per l’espandersi esplosivo di questa città sotto l’urto di sempre nuove carovane di morti che arrivano dalla città dei vivi. Mi guardo attorno. Nella zona in cui mi trovo non c’è anima viva… è il caso di dirlo. Si vedono solo grandi condomìni isolati in mezzo a enormi estensioni deserte invase dalla sterpaglia. Eppure, eppure… mi sembra da un po’ di tempo di vedere una lontana figura che sta camminando verso di me in tutta questa desolazione. Però è lunga, sottile, filiforme. «Chi sarà quell’omino che sembra fatto di filo di ferro?» mi domando «E perché starà venendo verso di me?».
Ci avviciniamo sempre più, stiamo camminando l’uno verso l’altro, senza modificare la traiettoria dei nostri passi. Poi, quando è ormai a poche decine di metri da me, e poi quando infine ce l’ho di fronte, la riconosco.
«Ma tu sei Pinocchio!» gli grido.
«Sì, sì, io Pinocchio, io Pinocchio!» mi risponde con esultanza, agitando le sue lunghe braccine di legno.
Lo guardo, guardo il suo corpicino ricoperto da una blusa di carta e da una braghetta larga da cui spuntano le sue gambine di legno, i suoi occhietti dipinti, il suo lungo naso, il suo cappelluccio a punta.
«Come mai sei arrivato in questa città da burattino?» gli chiedo, «alla fine non eri diventato un bambino?».
«Ma no, quello se l’è inventato Collodi! Io sono morto da burattino, impiccato!»
«Sapevo già che eri in questa città» gli dico, «Me l’aveva detto il dottor Freud, quando lo avevo incontrato».
«Sì, sono in analisi da lui. La mia vita è dura, non so chi sono, sono terribilmente solo…»
«Ma non ci sono altri burattini in questa città?»
«Sì, per esserci ci sono, ci sono anche quelli del teatrino di Mangiafuoco, la compagnia drammatico-vegetale. Ma io avrei bisogno non di una burattina di legno ma di una signorina di carne...»
Una lacrima sta sgorgando da uno dei suoi occhietti di legno, gli sta scendendo lungo una guancia. Lo guardo con stupore.
«Non so più come fare!» si continua a disperare Pinocchio «Le signorine morte non vogliono saperne di un burattino! E io non ce la faccio più a vivere senza amore!».
«E allora come te la cavi?» mi scappa da chiedergli, stupidamente. Mi guarda con imbarazzo, abbassa gli occhi.
«Be’… sai… Mi arrangio da solo, con la mia manina di legno…»
Non credo alle mie orecchie.
«Ma, scusa se mi permetto…»
«Oh, permettiti pure! Anche il dottor Freud si permette… Dice che ho un grosso problema, che quella cosa lì si chiama onanismo».
«Non avrei mai pensato che Pinocchio… insomma, che ce l’avesse!»
«Ce l’ho eccome!» esclama Pinocchio, risentito.
«Non credevo che tu ce l’avessi, sotto quelle braghette… Nessuno ci aveva mai pensato, ho dovuto venire nella città dei morti per scoprirlo, se no nessuno al mondo l’avrebbe mai saputo».
«Certo che ce l’ho! Che cosa credi… Geppetto era un bravo falegname, ha lavorato bene, mi ha fatto anche il pisellino!»
Lo guardo e mi viene da ridere, ma mi trattengo.
«Se è per quello ce l’ho sempre duro!» dice ancora Pinocchio, con orgoglio.
«Per forza: è di legno!»
Ci mettiamo a ridere tutti e due. Così, dopo esserci presentati, ci mettiamo in cammino insieme. Restiamo in silenzio, per un po’. Si sente solo il rumore della sterpaglia che si spezza sotto le mie scarpe e sotto i suoi piccoli e duri piedi di legno.
«Cosa ci fai in questa città?» mi domanda d’un tratto.
«Sono l’inviato di un giornale».
«Ah, sì? E perché ti hanno mandato qui?»
«Per fare delle interviste ai morti. Perché non si capisce niente dei vivi se non si mettono in relazione i vivi e i morti, la vita e la morte, se non si mettono a confronto le verità dei vivi e quelle dei morti, se non si fanno delle verifiche incrociate. Perché la vita e la morte e la morte e la vita sono strette tra di loro in un inestricabile abbraccio, da sole non sono niente, e allora anche le sole notizie dei vivi non sono niente».
«E adesso dove stai andando?» mi domanda ancora Pinocchio.
«Vorrei incontrare Dante, perché ho appena saputo che nella città dei vivi c’è chi lo vuole evocare in una seduta spiritica, non so ancora chi…»
«Io quello lo conosco!» si infervora Pinocchio. «È anche lui in analisi dal dottor Freud. Lo incrocio certe volte quando vado là. Mi guarda sbalordito, perché anche se ne ha viste di tutti i colori credo che non abbia mai incontrato un burattino che si muove da solo, parla, saluta».
Mi fermo improvvisamente.
«Chi lo sa dove vive?» mi chiedo, pensando a voce alta. «Come farò a trovarlo?».
Pinocchio si inorgoglisce, solleva e agita le sue filiformi braccine di legno, che scricchiolano sulle loro giunture.
«Io lo so dove sta, ti accompagno».
Riprendiamo a camminare. Tutt’intorno vuoto, silenzio, solo caseggiati lontani da cui escono macchinine azionate da guidatori morti, che si spostano lungo strade che da qui non si riescono a distinguere. Si vedono, disseminati sul terreno incolto attraverso cui stiamo camminando, lontani tralicci della luce e ripetitori per le connessioni dei cellulari dei morti, e anche per quelle tra i vivi e i morti e tra i morti e i vivi, come ho verificato anch’io di persona quando ero venuto per la prima volta in questa città e il capocultura era riuscito a raggiungermi fin qui con il cellulare.
«Ma non avevi quella fatina?» mi viene da chiedere ancora a Pinocchio, di punto in bianco. «Non è anche lei qui nella città dei morti?»
«Oh, quella…» mi risponde, con amarezza. «Quella si prendeva gioco di me, mi trattava come un burattino, piangeva e moriva per finta, appena vedeva che il mio naso si allungava invece di consolarmi mi faceva la predica…»
«Perché dicevi le bugie!»
«Le bugie, le bugie… Certi dicono le bugie e certi altri non dicono la verità…»
Resto senza parole.
«Be’, sì, forse hai ragione, forse non dire la verità è anche peggio che dire le bugie, perché dire bugie significa conservare ancora un’idea della verità e pretendere di sostituirla con un’altra verità, mentre non dire la verità vuol dire non dargli voce in nessuna forma, uccidere la sua presenza nella vita umana e nel mondo, cancellare persino il suo ricordo…»
Mi interrompo, perché mi sono lanciato troppo in avanti, mi sono dimenticato che sto parlando con un burattino.
Invece, con la coda dell’occhio, vedo che Pinocchio mi sta ascoltando attentamente, in silenzio.
«A cosa stai pensando?» mi chiede dopo un po’, all’improvviso.
«Sto pensando al mondo in cui viviamo, anche all’Italia… Tu sai come è fatto il mondo, sai come stanno le cose nel nostro paese, lo hai attraversato da parte a parte con la tua povera vita da burattino di legno pensante e parlante. Proprio perché eri così diverso da tutti gli altri e non avevi un posto dove stare nel consorzio umano e nel mondo hai potuto vedere e far vedere le cose fino all’osso, hai messo a nudo il servilismo, la schiavitù, le ingiustizie, la sopraffazione, la frode, la mancanza di verità, di fratellanza, di amore, a cui hai opposto le tue povere bugie che si vedevano immediatamente per via del naso».
Pinocchio mi sta continuando ad ascoltare senza parlare, assorto, la sua piccola testa trema un po’ sotto il cappelluccio a punta, come se stesse cercando di corrugare la sua fronte di legno per concentrarsi.
Continuo: «Sto pensando al nostro mondo umano, che è sempre dilaniato dalla sua ferocia e imprigionato nella sua ottusità e cecità, persino adesso che si trova di fronte a un precipizio di specie e non riesce a inventarsi una nuova vita e un nuovo mondo reinventando nello stesso tempo se stesso. Sto pensando alla tragica sproporzione delle strutture umane, economiche, politiche, culturali con quanto sta veramente accadendo. Sto pensando che, in una condizione simile, dovrebbe cambiare tutto: le priorità, le forme, per attuare i compiti nuovi che abbiamo di fronte, persino le nostre strutture mentali, psichiche, di giudizio, mentre tutto continua come se niente fosse, come se questa specie non potesse modificare di un millimetro la propria rotta suicida…».
Le non verità
Mi giro a guardare Pinocchio, per capire se posso continuare così. Il suo silenzio mi dice che posso.
E allora continuo a dire: «Sto pensando al nostro povero paese che non riesce mai a crescere e a compiersi, che si perpetua attraverso strutture mentali fratricide, da Romolo e Remo in poi. Devono esserci sempre due cose opposte o rese opposte per cui dilaniarsi: guelfi o ghibellini, bianchi o neri… Nelle grandi come nelle piccole cose, Michelangelo o Raffaello, Coppi o Bartali… Gli italiani non riescono mai a pensare se non attraverso sudditanze e contrapposizioni servili, perché il loro orizzonte è piccolo e non può trascenderle, come se non si potessero amare nello stesso tempo Michelangelo e Raffaello, Coppi e Bartali… Adesso, per esempio, è in corso una grave crisi politica e forse non solo politica ma di sistema. Eppure è tutto un gioco al massacro per cercare di accoltellare alla schiena e fregare l’altro, per sopravvivere in tutto questo fango. Hai ragione tu, non si tratta solo di bugie, non c’è verità, non c’è verità perché la verità non viene mai detta fino in fondo, non si capisce mai quello che sta veramente accadendo, e allora che democrazia è se le persone non vengono messe in grado di capire veramente che cosa sta succedendo, quali sono davvero le forze in campo? Tutto il nostro sistema – che pure è meglio di altri privi di mediazioni politiche e delle odiose tirannidi – si regge sul non detto, quando non sull’inganno, la frode. Voti per delle persone e per dei partiti ma non viene mai detto in modo limpido e che possano capire tutti che cosa questi rappresentino, da cosa sono agiti, non viene mai messo al primo posto il bene comune e la verità, di cui pure tutti si riempiono la bocca.
Voti per dei pupazzi, per delle controfigure agite non solo dal proprio ipertrofico ego e dalla propria vanità smisurata ma anche da altre forze più grandi. Ma allora, mi verrebbe da dire, perché ad esempio, sulle schede elettorali, invece di una selva di nomi e di sigle di prestanomi non viene stampato ad esempio: confindustria, massoneria, banche, sindacati, confcommercio, Vaticano… Europa, Stati Uniti, Russia, Cina… e poi, certo, anche sigle e presenze aliene ma che davvero abbiano una visione e siano portatrici di invenzione e prefigurazione e che per questo si siano conquistate il diritto e l’onore di poter chiedere ai propri simili la loro fervente solidarietà e il loro combattente amore. Non ci sarebbe niente di male a dire le cose come stanno, almeno tutto sarebbe chiaro… Scusami, Pinocchietto, se mi sono lasciato trasportare, forse sto dicendo delle idiozie, tanto più che anche queste forze che danno o credono di dare le carte sono dilaniate al loro interno da continui conflitti fratricidi e sono agite a loro volta da altre forze più grandi, biologiche, psichiche, genetiche, chimiche… Però anche a me la mancanza di verità sembra intollerabile».
Mi fermo, perché adesso anch’io tremo un po’. Non riesco a girare la testa verso Pinocchio. Continuiamo a camminare, di nuovo in silenzio, per un po’ o per molto, non saprei dire. La sterminata brughiera metropolitana piena di sterpaglie si sta ricoprendo a poco a poco di discariche abusive e immondizie. Si vedono, disseminati qua e là, materassi sventrati, stracci, scarpe da donna dai tacchi spezzati, scolorite e indurite dal sole nero e sfavillante che in questo momento sta splendendo sulla città dei morti, giocattoli sbudellati, cestelli di lavatrici.
«Ma sei sicuro che Dante abiti da queste parti?», chiedo a Pinocchio.
«Sì, certo!» mi risponde.
«Come fai a saperlo?».
«Una volta sono stato a casa sua, mi ha invitato. Abbiamo parlato molto…».
«Ah, sì? E di che cosa?»
«Voleva capire che tipo di creatura ero, mi ha fatto molte strane domande. “Che creatura sei?” mi diceva. “Io non ne avevo mai vista una simile nella città dei vivi, ma neanche in quella dei morti. Se ti avessi conosciuto prima avrei messo anche te in uno dei tre regni… Ma dove ti avrei potuto mettere? Nell’inferno? No, avevi già sofferto anche troppo, non te lo meritavi. Nel purgatorio? Ma tutta la tua vita era già un purgatorio. Nel paradiso? Sì, forse avrei potuto metterti nel paradiso. Ma come facevo? Un burattino in paradiso? Chissà cosa mi combinavi là dentro, che scompiglio avresti creato!”»
Si mette a ridere. Rido anch’io.
«Ma, a parte il dottor Freud, non vedi mai nessuno in questa città?»
«No, qualcuno vedo. Si sono messi in testa che io abbia una doppia personalità, burattinesca e umana. Adesso mi fanno fare delle sedute con l’uomo ragno e con batman. Dicono che anche loro hanno dei gravi disturbi della personalità… Te li farò conoscere. Può darsi che prima o poi tu ne abbia bisogno, nell’impresa impossibile in cui ti sei imbarcato».
Lo guardo. Anche se la sua boccuccia è dipinta e fissa mi sembra che stia sorridendo. Ci stiamo avvicinando sempre più a un immenso caseggiato con la facciata piena di balconcini di muratura, di fili e di panni stesi. Escono dalle finestre rimbombi di televisori e canzonette a tutto volume, di quelle che vanno per la maggiore qui nella città dei morti. Ci sono bambini morti che corrono senza scarpe, che si lanciano il frisbee, bambine morte che giocano a campana, saltellando con un piede solo su quei quadrati tracciati per terra col gesso. Pinocchio fa uno scatto improvviso, acchiappa al volo il disco del frisbee che gli era passato poco distante e lo rilancia a uno dei bambini. Si applaude da solo, si sente il rumore delle sue manine di legno che battono l’una contro l’altra in segno di esaltazione. Siamo ormai molto vicini all’ingresso, che è un grande varco rettangolare privo di portone.
«Ma dove è andato a vivere Dante?» mi domando guardandomi intorno, però ad alta voce.
«È in esilio, mi ha detto!» mi risponde Pinocchio.
«L’hanno messo in esilio anche nella città dei morti?»
«Per forza!»
Adesso siamo nel cortile interno, che sembra un alveare, gremito com’è di finestre aperte. Il pavimento è pieno di biciclette, bidoni della spazzatura e grandi sacchi di plastica gonfi, perché si vede che fanno la raccolta differenziata anche qui. Ci sono delle piccole rampe di scale esterne, prima di ogni androne che porta alle varie scale interne. Pinocchio me ne indica una.
«Lui sta in quella scala, all’ultimo piano!»
«Sali anche tu con me?» gli domando.
«No, ti aspetto fuori. Io sono soltanto un burattino».
Ci avviciniamo alla scala. La imbocco. Pinocchio si va a sedere su uno dei gradini esterni. L’ultima immagine che ho di lui prima di salire è quella di un corpicino di legno seduto sul gradino, con le gambine raccolte ad angolo acuto, le braccine filiformi che abbracciano le gambine e la testolina di legno posata sulle ginocchia appuntite.
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