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È passato esattamente un secolo dalla nascita, a Trieste, di uno dei più straordinari protagonisti del nostro passato.
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Ideatore del Piccolo teatro di Milano, ha costruito i suoi spettacoli partendo da una cornice di dolore e di speranza.
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La storia così viveva sia al di fuori della scena sia sul palco, in un incrocio che in fondo ci ha resi quello che siamo.
La scissione di Livorno; il debutto italiano dei programmi alla radio; a Oristano si fonda il Partito sardo d’azione; Coco Chanel debutta col suo N°5; Hitler scala il vertice del Partito Nazionalsocialista dei lavoratori Tedeschi; al Vittoriano viene inumata la salma del milite ignoto; Milano inaugura l’Università cattolica. E a Trieste, sul lungomare di Barcola, il 14 agosto nasce Giorgio Strehler.
Anniversario
Tutto nel 1921. Sarà l’anniversario, un secolo tondo, o forse altro, resta la grazia di una biografia a modo suo definitiva su quell’artista, intellettuale, genio della regia, teatrante per vizio, virtù e professione, amato anche se non sempre, ineguagliato almeno nel farsi descrivere come la perfezione calata su testi, volti, anime giurate ai palcoscenici, materia che magistralmente e maestosamente modellava come creta. O lo faceva credere. Cristina Battocletti al più conteso e contestato uomo di teatro che l’Italia abbia avuto ha dedicato il racconto di una vita, (Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vita, morte e miracoli; La Nave di Teseo). E forse lo ha iniziato nella sola maniera possibile: scorrendo le parti assegnate, costumi e tempi d’entrata e di uscita, protagonisti e comparse, dell’ultima scena, quella del congedo.
Niente rumore, se muoio
Giorgio Strehler nasce a Trieste e a Trieste ritorna, sepolto al cimitero di Sant’Anna, quando al passaggio del millennio mancano solo tre anni e il Natale è passato da qualche giorno. A Santo Stefano lo aveva salutato il suo mondo radunato al Piccolo teatro di Milano, la casa di una vita spesa a trasformarla nel Tempio che è, venerato nel mondo. Ci sono tutte e tutti, un elenco che impressiona per la trama del tempo riflesso in quell’accavallarsi di generazioni. Il suo Arlecchino è lì, ha qualche anno in meno, ma aver fatto tuffi e capriole per mezzo secolo lo ha preservato. Con lui ci sono gli altri, donne e uomini che del Maestro hanno scortato l’esistenza, il talento, la furia. La seconda moglie e l’ultima compagna, le passioni trascorse, una rassegna infinita di nomi che, nei decenni, di quel luogo hanno riempito locandine e camerini giostrando in un’altalena di autori consegnati, come il Regista che stanno salutando, a una memoria lunga.
Se mai dovesse esistere, in realtà credo esista, un cerimoniale delle onoranze funebri quella sarebbe stata la commissione più difficile da gestire e la biografia lo descrive nei dettagli, fino a distanze fisiche regolate come metronomi o, più propriamente, dettagliatissime note di regia. “Niente rumore, se muoio” aveva scritto in un biglietto qualche mese prima, parole che in bocca o nella penna di chi non doveva difettare nell’ego parrebbero poco più che un esorcismo.
Partigiani
Al fondo Strehler, come altri, apparteneva a una filiera di nati a ridosso della Marcia su Roma, cresciuti immersi in quel regime, giovanissimi al passaggio decisivo, l’8 settembre del 1943 quando non è la patria a morire, ma lo Stato a dissolversi. Per tanti quello fu il momento della scelta, da Giorgio Amendola che la definirà “di vita” a Carlo Azeglio Ciampi. Ventenni, poco meno, poco più, catapultati nella clandestinità dove si portano addosso qualche traccia timida di un’adolescenza bruciata in fretta. Alessandro Barbero, lo storico, racconta di partigiani piemontesi che scelgono per nome di battaglia gli eroi dei romanzi di Salgari o Dumas, ma capita pure un Bonaventura sottratto dritto dritto al Corriere dei Piccoli. Strehler la sua scelta di campo la consuma presto. Arruolato nel 1941 e spedito in Iugoslavia simpatizza coi partigiani meditando persino di cambiare divisa. Poi attraversa Slovenia, Croazia e Grecia. Subentra una pausa all’ospedale di Cividale, in Friuli, sfrutta qualche licenza per tornare a Milano e a Novara presso la Casa Littoria, sotto l’occhio già addestrato di Paolo Grassi, vanno in scena tre atti unici di Pirandello, il primo allestimento firmato da lui.
Non ha ancora ventidue anni, ma la missione artistica e il sodalizio con chi materialmente dopo la guerra costruirà il Piccolo sono battezzati. Il 25 luglio si festeggia per le strade di Milano la caduta del fascismo, lo fa anche Strehler in una città “allo stremo”. L’animo, però, è forgiato, sposa la causa della libertà e a ottobre dello stesso anno, è il 1943, si sposa davvero per la prima volta. Sarà partigiano tra l’Italia, la montagna valtellinese, e la Svizzera dove ripara dopo una condanna alla fucilazione per attività antifascista, coerente anche in quel caso nel coltivare la passione che lo assorbe e sostiene, progetterà allestimenti che non farà e coltiverà idee destinate a compiersi. Per chi ha dovuto attraversare quella tragedia qualche impronta, comunque, rimane. Nel caso suo il calendario lo riporta a Trieste all’inizio di luglio del 1995.
Dalla fine della guerra sono passati cinquant’anni esatti e dentro la Risiera di San Sabba, il solo campo di sterminio nazista in Italia, intellettuali e attori tra i più noti leggono testi e poesie sulla Resistenza. Ad ascoltarli sono tremila cittadini, altri settecento premono da fuori. Nessuno di loro sa che pochi giorni più tardi a mezz’ora di volo da dove stanno, in località Srebrenica, Bosnia, si sarebbe consumato il genocidio di ottomila musulmani, il primo sul suolo dell’Europa dopo il nazismo.
L’internazionalismo
Racconta Cristina Battocletti, facendo un balzo all’indietro, del primo innamoramento col mondo che lo avrebbe segnato e consacrato. Galeotta l’ultima commedia scritta da Goldoni prima di lasciare Venezia per Parigi. “Una delle ultime sere di Carnovale” produce sul ragazzo Strehler una commozione inattesa, ma è la scintilla di una dedizione da quel giorno in avanti impossibile da dominare. A Milano entrerà all’Accademia dei Filodrammatici, all’epoca “la migliore scuola di teatro” della città. La cadenza triestina (per inciso, lassù non si usano vocali aperte, escono proprio spalancate) avrebbe potuto penalizzarlo nella dizione, ma è un dettaglio. Saranno presto tutt’altre doti a farlo salire gradini preclusi quasi a chiunque. Gli autori che lo ispireranno, da Brecht a Čhecov e Strindberg e Wedekind, li aveva scoperti a guerra ancora in corso grazie a comuni compagni di lotta e divulgatori coraggiosi di testi a lungo proibiti. A quel punto l’uomo, l’intellettuale, l’artista si sono come fusi e si aprono le porte di un’Italia da ricostruire.
Quella che De Gasperi rappresenta a Parigi, alla conferenza di pace del ’46, dove l’esordio è consapevole dell’ostilità dei “vincitori”, ma prevale l’orgoglio di un capo del governo che prende parola a nome di una nazione figlia dell’umanitarismo di Mazzini, del solidarismo cristiano, del nuovo internazionalismo dei lavoratori. Strehler e Grassi di quell’Italia saranno a modo loro protagonisti godendo di un osservatorio, un palcoscenico, privilegiati in ogni senso.
Il teatro
Il Piccolo teatro di Milano si inaugura ufficialmente il 14 maggio 1947 con “L'albergo dei poveri” di Maksim Gor'kij. 1947 vuol dire l’anno del Piano Marshall, che poi il nome vero, quello ufficiale intendo, era European recovery program, tanto per dire dei corsi e ricorsi, almeno della lingua. La sala, Via Rovello, aveva alle spalle una storia tortuosa, da ultimo tragica. In origine palazzo del conte di Carmagnola, “capitano di ventura della Repubblica di Venezia”, successivamente era stata convertita in granaio, banca, archivio civico, tribunale, circolo ricreativo, cinema col nome Broletto e, infine, luogo di tortura praticata dai fascisti della brigata Muti. Saranno nel tempo i camerini frequentati da Mackie Messer, Galileo, il Mago Marvuglia, a rammentare le urla delle vittime coperte dal sonoro dei film.
A scegliere quella sede era stato Antonio Greppi in persona, il sindaco socialista della ricostruzione. Partigiano a sua volta, scrittore di romanzi e opere per il teatro, aveva intuito che dopo la barbarie i milanesi avevano fame di cibo, di normalità e, assieme di cultura. “Altro pane” lo chiama così, “quello che serve a nutrire la testa e che è necessario quanto le infrastrutture e il lavoro”. Se valeva all’indomani delle bombe e delle deportazioni, varrebbe la pena ricordarlo oggi, alle prese come siamo con una società slabbrata e conformista nelle forme del pensare. Certo, allora pesarono non poco i tormenti sopportati e, si sa, le classi dirigenti non sempre trovano linfa nelle scuole d’eccellenza, più spesso originano negli scarti e nei conflitti.
Nasce, dunque, in quella cornice di dolore e speranza l’ambizione visionaria di un “teatro sostenuto dal comune” con una commissione artistica quasi fotocopia, per metodo, del CLN: dentro cattolici, socialisti e il critico comunista de L’Unità. La mescolanza, però, non durerà. Grassi e Strehler, con l’apporto decisivo di Nina Vinchi, hanno personalità dominanti. Quella sala diverrà a pieno titolo la “loro” sala e luci, trionfi, ombre, ogni sorta di polemica, santificazione, scomunica, apparterrà a quelle tre figure legate in un sodalizio umano prima che altro.
Etica milanese
Quella è una Milano che fa della società da rifondare una molla di riscatto. Anni addietro Tommaso Padoa Schioppa aveva descritto bene la natura del civismo milanese, compresa l’etica della sua borghesia e di una classe operaia matura più che altrove. La tesi, in sintesi, era che a differenza di Torino, Firenze, Roma o Napoli la città non era mai stata Capitale. Insomma, non aveva mutuato nell’animo qualità, ma anche vizi delle consuetudini e delle burocrazie incistate nello Stato ed era appunto questa sua natura a rendere tanto importante il governo locale, e al contempo più responsabile del proprio destino un popolo organizzato. Riferimenti che forse aiutano a capire la vitalità del momento. Dal 1945 al 1947 Elio Vittorini fa vivere Il Politecnico, titolo rubato all’omonima rivista fondata da Carlo Cattaneo. In Via Borgogna, dietro San Babila, sempre nel 1946 è Antonio Banfi a fondare la Casa della cultura, polo e stimolo animato da Vittorini stesso, e Alberto Mondadori, Giulio Einaudi, Mattioli, Musatti o Rossana Rossanda che per un decennio lo dirigerà.
Intanto il Piccolo si avvia per il suo tragitto e in poco tempo si ritaglia uno spazio a sé. Spazio enorme se comparato al resto, per alcuni persino esagerato. La rassegna degli allestimenti incrocia cronaca e storia di un’Italia proiettata dalla ricostruzione all’euforia del boom, ancora monoculturale sul fronte della televisione, con una solida “egemonia” comunista su quello cinematografico. Un paese distante dall’esplosione di piazze e cortei e di quei movimenti che a Milano avrebbero vissuto la loro tipicità. Seguiranno il 12 dicembre, Piazza Fontana, e anni tormentati.
In scena
L’Arlecchino immortale del Goldoni amato da Strehler al pari di Mozart, l’epopea brechtiana col trionfo dell’Opera da Tre Soldi, siamo nel 1956, e sette anni più tardi il Galileo di Buazzelli preferito al primo attore della compagnia, quel Tino Carraro che avrà tempo e modo di rivalersi vestendo i panni di Prospero nella Tempesta. Alle ultime prove dell’Opera da Tre Soldi assiste di persona l’autore e l’innamoramento tra drammaturgo e regista ne uscirà cementato.
Strehler rilegge l’allegoria in forma di commedia, Brecht seduto in platea alle spalle di lui ride quasi stupito d’aver prodotto quel genere di effetto. Il Galileo, pochi anni dopo, avrà un’esistenza più travagliata, quasi turbolenta. Già alla vigilia delle prove scatenerà accuse di blasfemia e offesa alla religione, al Vaticano e al Papa. Per Grassi e Nina Vinchi è una prova tra le più difficili. Il Maestro si è ritirato per alcuni mesi a Venezia in casa di Toscanini dove studia scene, musiche, regia. Intanto le accuse si moltiplicano e con quelle la richiesta di non proseguire nello sfregio di sensibilità poco dialettiche. Del “caso” Galileo discuterà il consiglio comunale nell’aula di Palazzo Marino mentre la Curia userà l’arma della diplomazia al solo scopo di limitare i danni.
Il dramma, alla fine, debutta con uno sforzo notevole per le casse del Teatro, decine tra attori e comparse, un coro di voci bianche, alcuni artisti circensi e una durata non tipica per il tempo. Eppure il successo travolge attese e paure. A vederlo accorrono da fuori, si organizzano pullman da mezza Italia e in Via Rovello entrano studenti, operai, casalinghe, pensionati, perché dietro il testo, l’abiura dello scienziato, forse si intuiscono fuochi di là da divampare, ma non è anche questa capacità di trasferire un’opera esattamente dove la si rappresenta un’arte nell’arte?
Lo specchio
Paolo Grassi lascerà il Piccolo, senza davvero mai abbandonarlo, nel 1972. Per lui si apre un quinquennio come sovrintendente della Scala, poi al culmine degli anni di piombo seguirà un triennio da presidente della Rai. Strehler prosegue la sua opera con alterni tributi e fratture. Cristina Battocletti le indaga col garbo dell’archeologa che sa scavare con le mani se intuisce di non poter infierire su oggetti, ma lo stesso vale per storie e vite talmente dense da miscelare assieme a talenti rari anche fragilità e persino atteggiamenti deboli quanto odiosi. Il genio capace di cogliere nella più sottile lama di luce l’uguale potenza drammatica di un verso shakespeariano, l’uomo che prostrava attrici e attori sino all’alba se lo riteneva un dovere, di quelle fragilità doveva conservarne parecchie, solo in parte moderate o compensate dai profili che scorrono, uno appresso all’altro, di compagne amate, deluse, ricambiate.
Perché poi, alla fine, cosa è una biografia, o il racconto di una vita per quanto incredibile e intensa, se non l’affresco di un tempo storico e di un universo di valori e pretese verso un tempo prossimo? “Io non sarei diventato Paolo Grassi senza Strehler, e Strehler non sarebbe diventato quel grande regista che è senza di me”, così Paolo Grassi sull’amico e il compagno di una parabola unica. Magari entrambi non avrebbero fatto quel che fecero senza Nina Vinchi. E comunque parafrasandolo forse si dovrebbe dire che l’Italia, la sua cultura, non sarebbero state precisamente quel che sono diventate senza Strehler e Grassi. E Pasolini, Eduardo, Elsa Morante o la Magnani. Ma anche quelle figure straordinarie, donne e uomini in un paese da ricostruire, hanno potuto essere ciò che sono state perché c’era un’Italia carica di desiderio e passione verso il dopo. E allora questo bellissimo affresco di Strehler magari può servire a questo: guardarci di sfuggita allo specchio, ma non per commemorarci. Semplicemente per riconoscerci.
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