- Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1999, Monica Bonvicini è tra le artiste italiane che hanno ricevuto più riconoscimenti internazionali
- Bonvicini porta spesso il pubblico fuori dalla comfort zone, lasciando emergere in modo liberatorio e divertente correlazioni tra desiderio sensuale, emotivo e consumistico
- Il suo lavoro contiene riflessioni sul ruolo dell’artista e su come l’organizzazione collettiva possa rispondere all’oppressione che le donne e diverse minoranze affrontano quotidianamente
Sin dagli esordi Monica Bonvicini (Venezia, 1965) ha esplorato il modo in cui l’architettura, i media e le istituzioni riflettono le strutture di potere – storicamente maschili – che perpetuano gerarchie sessuali e di genere. «Il mio obiettivo è indagare soggetti, come lo spazio e l’architettura, in modo analitico e critico. Per quanto alcuni di questi siano apparentemente neutri, in realtà mantengono complesse relazioni di fondo con idee di potere, controllo e identità», precisa artista.
Il suo lavoro contiene una pregnante riflessione sul ruolo dell’artista, sulle aspettative a esso relative, e su come l’organizzazione collettiva possa essere la migliore risorsa per rispondere agli abusi e all’oppressione che le donne e diverse minoranze affrontano quotidianamente.
Abbattere l’idea di debolezza
Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1999, Monica Bonvicini è tra le artiste italiane che hanno ricevuto più riconoscimenti internazionali. Sue opere sono inoltre presenti in diverse prestigiose collezioni pubbliche e private. Considerata una presenza tra le più significative nella scena dell’arte contemporanea, Bonvicini vive a Berlino dove dal 2017 è titolare della cattedra di Scultura all’Universität der Künste.
In Hausfrau Swinging, un video del 1997, una donna nuda tenta di liberarsi a testate della casa di cartone che le imprigiona la testa. Sul piano simbolico, l’opera dà immagine al tentativo di affrancarsi da una dimensione domestica forzata, espressione della cultura patriarcale, cultura che, rimarca l’artista, si manifesta anche nelle diverse concezioni dell’architettura.
Lo sforzo fisico della donna che si agita nel tentativo di liberarsi del modellino di casa che le copre il volto – le chiedo – evoca fatica, dolore e impotenza di fronte alle costrizioni della condizione femminile? Scuote la testa: «Alla base del mio lavoro l’accento è posto sulle tante energie creative e antagoniste che lottano per abbattere l’idea di debolezza della donna intrappolata. È più un agire che un reagire, si tratta di attribuire potere a chi ne è rimasto privo per troppo tempo. Queste forze dirompenti sono al centro delle mie opere».
Fuori dalla comfort zone
Bonvicini porta spesso il pubblico fuori dalla comfort zone, lasciando emergere in modo liberatorio e divertente correlazioni tra desiderio sensuale, emotivo e consumistico. È in tal senso emblematico l’uso che fa nelle sue installazioni della cintura da uomo, oggetto di uso quotidiano che assurge a simbolo culturale di mascolinità, ordine e disciplina. Associando le cinture di cuoio ad abusi fisici, a pratiche sessuali, violenza e piacere, ne fa oggetti che tendono a demolire associazioni e categorie culturali stereotipate e dominanti, senza tuttavia prenderli troppo sul serio.
Oggetti come un divano, un tavolo o un asciugamano, fatti o ricoperti di cinture, vengono privati della loro funzione primaria e riconfigurati in pesanti corpi neri composti da strisce di pelle accuratamente intrecciate. Queste opere riflettono il complesso intreccio tra lavoro, ruoli di genere, violenza e vita domestica, incoraggiando chiunque a continuare a smantellare strutture di potere dominanti obsolete.
Lavorare con il linguaggio
La recente installazione Never Tire, realizzata da Bonvicini nel 2020 durante il periodo di lockdown e presentata alla Kunsthalle di Bielefeld in occasione della sua personale Lover’s Material, include diverse citazioni di scrittori come Roland Barthes, Judith Butler o Andrea Dworkin, realizzate con spray-paint su carta fissata su pannelli di alluminio.
Le chiedo se i lavori testuali fatti negli anni segnati dalla pandemia, oltre che da movimenti sociali come Black Lives Matter, l’abbiano portata a ripensare o ridefinire il suo ruolo di artista. «Lavoro con il linguaggio da più di vent’anni, molti dei miei disegni e delle mie opere sono nati da citazioni e rielaborazioni di frasi scritte per lo più da donne, scrittrici e poetesse del XIX e XX secolo. La serie Never Tire contiene riferimenti a ciò che ho letto prima e durante la pandemia: Soraya Chemaly, Andrea Dworkin, Roland Barthes, Judith Butler, Natalie Diaz, Philip Johnson. Sono tutti libri e autori con cui ho instaurato un dialogo che mi ha portato a mettere in discussione molte cose. E tra queste anche il mio ruolo di artista. Lavorando alle diverse frasi da utilizzare per questa serie, frasi che riguardano amore, relazioni, aggressività, rabbia, protesta, ho avuto la sensazione che fossero gli stessi autori a rispondere alle mie domande. Never Tire respira l’urgenza di promuovere forze emancipatrici, femministe e antirazziste. Questi lavori toccano le ambiguità delle relazioni che hanno origine in norme e ruoli socialmente definiti e politicamente consolidati».
In opere come Lover's Material, Picked Up & Thrown e Your Words ciò che emerge dalle frasi è la passività e l’oggettivazione con cui il corpo viene descritto e trattato. Sembrano quasi profetiche se lette all’indomani delle molteplici scosse politiche e sociali che ci hanno accompagnato negli ultimi due anni.
Sapore di rabbia
Parte delle opere della serie Never Tire contengono frasi che parlano di rabbia. Woolf scriveva che il dolore è fondamentalmente un oggetto personale che sfida il linguaggio. Il sapore della rabbia, invece, è più palpabile e facile da tradurre in arte. Le chiedo se ritiene che la rabbia sia uno stimolo per spingere altre persone ad agire. E lei: «Una delle mie opere si chiama Anger is the Best, molti dei miei lavori si riferiscono al sentimento di collera. Per molti può essere una spinta creativa. Quando la rabbia è tutto ciò che ti rimane, può e deve divenire una forza trainante. Ma non è né il punto di partenza né quello di arrivo».
Nella serie Never Tire appaiono infatti anche parole gioiose come “Humour”, “Joy” e “Best Time of My Life”. Per Hannah Arendt, l’ironia era un mezzo per tenere a distanza l’angoscia e una modalità per esercitare la propria indipendenza, per affrontare problemi sociali in maniera critica e distaccata. E Bonvicini: «Nella mia pratica ci sono molto umorismo e ironia. Li reputo strumenti importanti per navigare diverse situazioni, ma non al fine di affrontare problemi in modo distaccato: sono coinvolta, ho bisogno di essere coinvolta. Ed è questo coinvolgimento che produce a volte rabbia».
Proseguendo la sua indagine sul linguaggio, Bonvicini ha prodotto altre serie di lavori, Doors e Pleasant, recentemente presentate alla Galleria Raffaella Cortese di Milano, che includono citazioni di Amelia Rosselli, Diane Williams, Sylvia Plath, Natalie Diaz, Lydia Davis. Realizzata su specchio con stencil, lacca o pittura spray, la loro componente testuale raccoglie e trasmette uno specifico “dizionario”, un insieme di connotazioni che lo spettatore può comprendere e a cui può relazionarsi.
Rovine
Bonvicini ha adesso in corso ben tre mostre personali, di cui due in Germania e una in Svizzera. «Hurricanes and Other Catastrophes al Kunst Museum di Winterthur, a Zurigo, è la prima presentazione completa di una delle serie a cui tengo di più, a cui ho lavorato per 14. È una grande soddisfazione poter presentare gli oltre 70 disegni insieme».
Iniziata nel 2008, la serie Hurricanes and Other Catastrophes può essere considerata un archivio di paesaggi in bianco e nero, in cui la perdita e la distruzione costituiscono l'orizzonte. Il progetto documenta la continua rovina di case e architetture a seguito dei danni climatici antropogenici in diverse località del pianeta.
In Germania invece ha appena aperto al pubblico una installazione site-specific nello storico edificio della Bauhaus, a Dessau, dove Structural Psychodrama #5 occupa l’intero spazio espositivo. Bonvicini: «L’opera è composta da circa dieci metri di superficie specchiante che, inclinata, permette di creare nuove prospettive sulla famosa facciata di finestre della Bauhaus. È una scultura che evoca idee progressiste, dogmi e utopie del design che rimangono iscritti anche nell'edificio della Bauhaus a Dessau».
Il 24 novembre Bonvicini inaugurerà inoltre una personale in un altro edificio iconico, questa volta a Berlino: la Neue Nationalgalerie, progettata dall’architetto modernista Mies van der Rohe. Entrando a far parte della lista delle poche artiste donne invitate a presentare una mostra personale nella sala superiore del museo berlinese, Bonvicini rivela: «I do You sará una indagine sull’architettura, l’edificio stesso, il museo e le sue condizioni politiche e sociali consolidate. Proporrò diverse installazioni site-specific, opere performative e sonore, che andranno ad offrire una percezione completamente nuova dello spazio».
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