Giovedì 18 febbraio sarà diffuso online sui canali social di Iperborea e del Teatro di Roma un reading in due tempi per raccontare la città, con le voci di Emanuela Fanelli e Valerio Mastandrea e i testi di Letizia Muratori e Daniele Manusia, entrambi tratti dal nuovo numero di The Passenger. Le letture sono state realizzate sul palco del Teatro Argentina che, per via delle disposizioni anti-Covid19 che ancora impediscono gli spettacoli dal vivo, si mostra vuoto ma non meno suggestivo, con i due attori che danno le spalle alla platea a sottolineare l’eccezionalità del momento che il mondo dello spettacolo sta attraversando.

Tra le riflessioni tratte dal nuovo volume di The Passenger dedicato a Roma, Leonardo Bianchi traccia una panoramica della cosiddetta rivolta delle periferie romane.

Sequestro di persona [casal bruciato]

Imer Omerovic, la moglie Senada e i loro dodici figli hanno ricevuto la buona notizia nell’aprile del 2019: il comune di Roma ha accolto la loro domanda per l’assegnazione di una casa. Era da dieci anni che aspettavano; ora possono finalmente lasciare il campo rom in cui vivono da quando sono arrivati in città. «Il campo è dove c’è la comunità» dicono in un’intervista «ma non è una casa. Non ci si vive bene, e i bambini se ne vergognano».

L’appartamento si trova in un complesso di edilizia popolare in via Sebastiano Satta, a Casal bruciato, nel quadrante nordorientale della capitale. Il quartiere, come molti altri, è popolare e variegato. Negli anni Settanta è stato attraversato da lotte per il diritto all’abitare, mentre nei decenni successivi agli abitanti autoctoni si sono aggiunti immigrati sia interni che stranieri. Ultimamente la tensione è palpabile – così come l’insofferenza verso rom e altre minoranze. I segni sono visibili anche sui muri, dove compaiono manifesti con croci celtiche e invettive contro la «società multiculturale».

Gli Omerovic entrano nell’abitazione il 6 maggio. Mancano ancora luce, gas e mobili, ma è comunque l’inizio di una nuova vita. Tuttavia, già dal primo pomeriggio alcuni residenti – spalleggiati dai militanti di Casapound, il movimento dei sedicenti «fascisti del terzo millennio» nato nel 2003 con l’occupazione di un palazzo nel quartiere multietnico dell’Esquilino – si radunano sotto il palazzo.

Per loro, quella casa doveva andare «prima agli italiani». Poco importa che i figli della coppia siano nati in Italia, o che la casa sia stata legittimamente assegnata. L’atteggiamento è tutt’altro che pacifico: contro la famiglia piovono urla, insulti e intimidazioni; un residente urla che «tanto vi tiriamo una bomba». A un certo punto arriva la polizia in assetto antisommossa, che però non interviene e si limita a osservare in disparte.

Il giorno seguente, il 7 maggio, i neofascisti si piazzano nel cortile del complesso con le loro bandiere (che hanno una tartaruga frecciata come logo) e montano un gazebo. Da quel momento, agli Omerovic viene di fatto sottratta la libertà di circolazione. La famiglia è aiutata dagli attivisti di Nonna Roma, un’associazione di sinistra che si occupa di povertà e diseguaglianze, ma nel frattempo il clima si è fatto pesantissimo.

Quando Senada e la figlia più piccola rientrano nel palazzo dopo una breve uscita, scoppia il finimondo. Una decina di residenti e militanti di estrema destra si avventano contro di loro e gli agenti di scorta faticano a tenerli a bada. All’altezza del portone si sfiora la rissa: i manifestanti cercano di sfondare il cordone di polizia, incluso un simpatizzante di Casapound che grida: «Troia, puttana, fai schifo!» e la minaccia di stupro.

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La scena è sconvolgente e nell’arco di pochissimo tempo approda sulle cronache nazionali. La sindaca Virginia Raggi va sul posto per incontrare la famiglia, venendo contestata da residenti e neofascisti. In quei momenti terribili, Imer Omerovic prova a dire ai figli che le aggressioni sono il frutto di un grosso equivoco, ma al tempo stesso riconosce che è difficile spiegare il vero motivo di quella violenza.

«Lo sanno di essere attaccati perché sono rom, li chiamano zingari» confida alla giornalista Annalisa Camilli della rivista Internazionale.

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Quanto successo a Casal bruciato, tuttavia, non è un episodio isolato: al contrario, si tratta dell’ultimo di una lunga catena. Per tutta la seconda metà degli anni Dieci, alcune zone periferiche di Roma sono state investite da proteste organizzate da sedicenti «cittadini esasperati» dalla presenza di centri d’accoglienza e campi rom. A guardare bene, però, di spontaneo c’è stato ben poco; piuttosto, si è trattata di una sorta di «strategia della tensione» xenofoba cavalcata da diversi attori politici – su tutti, quelli di estrema destra.

Ma per capire come queste zone siano diventate dei «depositi di polvere da sparo» pronti a esplodere da un momento all’altro, bisogna fare qualche passo indietro.

La pace è terminata [fori imperiali, settecamini, torre angela]

Alla fine di via Cavour, all’incrocio con i Fori imperiali, centinaia di manifestanti sono disposti ordinatamente in blocchi separati. È un torrido mezzogiorno del 12 luglio 2014: il corteo è partito qualche ora prima da piazza dell’Esquilino per chiedere «un’azione decisa contro gli insediamenti abusivi che stanno avvelenando la vita in tanti quartieri della capitale».

La manifestazione è promossa da Casapound e vede la partecipazione di diversi comitati di quartiere, tra cui quelli di Nuova ponte di Nona, Tor Sapienza e Settecamini. Si tratta di aree situate a Roma Est, a cavallo del Grande raccordo anulare, e molto diverse tra loro: alcune sono di nuova costruzione (come Nuova ponte di Nona), altre sono sorte negli anni Venti del secolo scorso (è il caso di Tor Sapienza).

Sicuramente, di «pasoliniano» – aggettivo fin troppo abusato per descrivere le periferie romane – non hanno davvero nulla. Sono invece inserite a pieno titolo in una metropoli che si è espansa senza alcuna pianificazione urbana, lasciando che i palazzinari facessero il bello e il cattivo tempo e rinunciando a fornire servizi pubblici adeguati a una vasta fascia della popolazione. La quale si sente per l’appunto abbandonata e cerca in tutti i modi di attirare l’attenzione sui suoi problemi.

Proprio a Settecamini, nell’aprile dello stesso anno, c’era stata una mobilitazione contro la possibile apertura di un centro d’accoglienza. «Viviamo in un quartiere dove non c’è niente» aveva detto un residente «senza i servizi minimi, e già in lotta contro il degrado». Al fianco degli abitanti si erano schierati i «fascisti del terzo millennio» e l’eurodeputato della Lega Mario Borghezio, da sempre vicino all’estrema destra.

La sua presenza a Roma – città che il leghista originario di Torino ha denigrato più volte, dicendo che «fa schifo» ed è «sporca come Calcutta» – non è affatto casuale; è grazie ai voti di Casapound che Borghezio è stato eletto a Bruxelles. L’alleanza elettorale, ribattezzata «fascioleghismo», fa inoltre parte di un piano strategico più ampio: il nuovo segretario della Lega, Matteo Salvini, vuole nazionalizzare il partito, esportarlo al centro-sud; per farlo, però, ha bisogno di appoggiarsi a formazioni già radicate nei territori. In cambio, la Lega garantisce copertura politica e mediatica.

È anche per questo che Borghezio partecipa alla manifestazione nel centro di Roma, chiudendola con un appassionato comizio. «È l’inizio della resistenza dei veri romani al degrado, alla criminalità, all’invasione» grida al megafono. «Passate parola in tutti i quartieri, perché comincia la resistenza attiva all’invasione e ai centri d’accoglienza. Forza, romani, in guerra fino alla vittoria! La pace è terminata!»

A distanza di qualche giorno da quel corteo, un altro quartiere di Roma Est (Torre Angela) entra in fibrillazione. La sera del 28 luglio 2014, decine di persone scendono in strada per protestare contro la presunta apertura di un maxi centro d’accoglienza in un centro commerciale abbandonato. Un gruppo decide di bloccare un tratto di via Casilina (una delle strade consolari romane): in quel frangente, riporta il sito RomaToday, appaiono «striscioni con la sigla A.f., acronimo di Azione frontale», un piccolo movimento di estrema destra attivo nella capitale.

La prefettura di Roma fa però sapere che non è mai stata prevista alcuna apertura di un centro d’accoglienza. La smentita ufficiale mette a tacere le voci e fa cessare le proteste – ma solo a Torre Angela. Perché altrove, come del resto ha preannunciato Borghezio, la «pace» sembra essere finita per davvero.

Daniele Leone/LaPresse

Caccia al nero [corcolle, tor sapienza]

Corcolle, a quasi trenta chilometri dal centro storico, è uno degli ultimissimi lembi orientali del comune di Roma. Sorto abusivamente alla fine degli anni Sessanta, con il tempo è diventato un tranquillo insediamento di palazzine e villette che – scrive l’urbanista Antonello Sotgia – dall’alto «appare come il dispiegarsi delle ali di un grande rapace».

Alle 19:34 di sabato 20 settembre, almeno in base alle prime versioni, un autobus della linea 042 è assaltato da una «trentina di immigrati». Il giorno successivo un altro veicolo, questa volta sulla 508, subisce un attacco a colpi di pietre, e l’autista racconta che a scagliarle sarebbero stati «quattro sudafricani» (sarebbe anche da capire come ha fatto a stabilire che fossero sudafricani, ma lasciamo perdere). Come ricostruirà il giornalista Riccardo Staglianò sul settimanale Il Venerdì, il doppio assalto «gronda incongruenze» e – particolare piuttosto curioso per fatti di una tale gravità – ha un unico testimone indiretto.

Nonostante ciò, e senza la minima prova, una parte degli abitanti del quartiere addossa la responsabilità dell’accaduto ai 53 richiedenti asilo che sono ospitati nel centro d’accoglienza in via Novafeltria, aperto di recente. La sera del 21 parte così una vera e propria «caccia al nero»: due persone sono prelevate da un autobus e pestate sul posto; la terza vittima è un cittadino di colore che abita a Corcolle da vent’anni. Si salva dal linciaggio solo perché altri abitanti del quartiere lo riconoscono.

Non è chiaro chi abbia materialmente compiuto le aggressioni. Secondo la giornalista Lucrezia La Gatta di Tiburno.tv, almeno metà dei presenti al raid «non erano di qui». Un testimone riferisce al magazine Alla fiera dell’Est che «una frangia di ragazzi del quartiere, quelli che si professano “di destra”, decise di radunarsi sulla Polense [la strada principale che attraversa Corcolle, N.d.A.] per picchiare qualche nero. Non avevano un’idea ben precisa di cosa stessero facendo e perché, volevano solo sfogarsi». Nel corso della settimana diversi esponenti politici di destra si recano a Corcolle per gettare altra benzina sul fuoco – tra cui la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e l’immancabile Mario Borghezio, accompagnato dai militanti di Casapound. Molti residenti condannano l’aggressione del 21 settembre e il comitato di quartiere se ne dissocia.

Un copione analogo si ripeterà a Tor Sapienza. Fondato nel 1923 dal ferroviere antifascista Michele Testa, il quartiere è incastonato tra via Prenestina e via Collatina e – come ricostruisce l’antropologa Adriana Goni Mazzitelli sul sito Comune-info – racchiude al suo interno diverse «tipologie d’insediamento». La prima è il «quartiere operaio» originario, con «case basse e una fisionomia da piccola città»; la seconda è quella dei palazzi popolari costruiti negli anni Settanta e Ottanta; la terza è formata da campi rom e centri d’accoglienza per richiedenti asilo; la quarta, infine, è composta dalle occupazioni per il diritto all’abitare.

A causa dell’assenza di pianificazione e dell’abbandono delle istituzioni, col tempo il quartiere è diventato una «periferia d’enclave» composta da «insediamenti casuali e frammentari» che non sono mai stati messi in condizione di «interagire e crescere insieme per diventare società». Al contrario, i vari frammenti sono in perenne tensione tra di loro. Da tempo infatti cittadini e comitati di quartiere lamentano l’incuria generalizzata, i roghi tossici che si levano dal campo rom di via Salviati e una generale sensazione di insicurezza. 

Il 10 novembre del 2014 si accende la miccia. La notizia di una tentata molestia ai danni di una ragazza è percepita come la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso, e la rabbia esplode contro il centro d’accoglienza in viale Giorgio Morandi – uno spicchio di quartiere abbarbicato sopra una collinetta, composto da palazzoni di edilizia pubblica disposti a ellisse. Anche in questo caso i richiedenti asilo non c’entrano nulla con il fatto di cronaca, ma poco importa: i colpevoli devono essere loro.

Nuove proteste a Tor Sapienza: Giorgia Meloni incontra i residenti (Daniele Leone/LaPresse)

L’assedio inizia alle undici di sera tra inni a Benito Mussolini e grida di questo tenore: «Ve bruciamo vivi», «Ne*ri demmerda», «Non uscite più perché v’ammazzamo». Altri residenti, parlando con i giornalisti presenti sul posto, dicono «non ne possiamo più, gli zingari di là, dall’altra parte i ne*ri». La sera del 12 viene indetta un’altra protesta, che degenera subito in scontri: una settantina di manifestanti a volto coperto scaglia sassi e bombe carta contro il centro d’accoglienza e incendia cassonetti; la polizia risponde con i lacrimogeni. Il bilancio finale è pesante: otto volanti della polizia danneggiate e una quindicina di feriti tra agenti, manifestanti e un cameraman.

Per tentare di placare gli animi, l’allora sindaco Ignazio Marino (del Partito democratico) visita Tor Sapienza. Viene accolto da una fitta contestazione ed è costretto ad andarsene con la coda tra le gambe. Va meglio a Borghezio e ai militanti di Casapound, che fanno l’ennesima passerella a favore di telecamere. La stampa intanto cerca di capire se ci sia stato un coinvolgimento diretto da parte di frange di estrema destra.

In un’intervista alla trasmissione televisiva Piazzapulita, un abitante sostiene che «c’è una regia dietro, li ho visti con i miei occhi [i fascisti, N.d.A.], sono arrivati qui e hanno cominciato a istruire, hanno preparato». La procura di Roma indagherà sei residenti per diversi reati, tutti commessi con l’aggravante della «discriminazione razziale».

L’amministrazione comunale, d’accordo con la prefettura, dispone infine il trasferimento dei minori in centri diversi per «evitare il generarsi di altri incidenti». Ad avviso dell’antropologa Annamaria Rivera, questo «svuotamento forzoso» del centro d’accoglienza è un «cedimento istituzionale al violento ricatto razzista», nonché un «precedente assai grave».

E in effetti, almeno sul piano mediatico, questo modello di protesta sembra funzionare. «Prima il dibattito pubblico viene spostato su temi cari [alla Lega e all’estrema destra, N.d.A.] con una martellante campagna su sicurezza, rom e centri d’accoglienza» scrive il giornalista Valerio Renzi, autore del saggio La politica della ruspa (Edizioni Alegre, 2015). «Poi si raccolgono i frutti dei problemi che scoppiano sui territori, fomentati ed esacerbati dalle forze dell’estrema destra; infine gli attori istituzionali passano all’incasso legittimando dall’alto quello che apparentemente è scoppiato dal basso».

Nel dicembre del 2014, tuttavia, il meccanismo si inceppa all’improvviso. L’operazione giudiziaria Mondo di mezzo porta in carcere una trentina di persone e ne mette sotto indagine più di un centinaio (tra cui alcuni politici di destra e centrosinistra) con una sfilza di accuse che vanno dall’associazione per delinquere di stampo mafioso – non riconosciuta nei successivi gradi di giudizio – alla corruzione, passando per il dirottamento degli appalti per campi rom e centri d’accoglienza.

Conferenza stampa operazione 'Mondo di mezzo' LaPresse

Stando agli inquirenti, i pilastri di questa organizzazione criminale (denominata Mafia capitale) sarebbero l’ex terrorista fascista Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, un ex «detenuto modello» e presidente della cooperativa 29 giugno. In una serie di intercettazioni lo stesso dice che «il traffico di droga rende di meno» dell’«emergenza immigrazione» e aggiunge che «tutti i soldi [...] li abbiamo fatti sugli zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati».

Nonostante lo scandalo, dopo qualche mese di tregua le proteste riprendono tra la primavera e l’estate del 2015. I casi più significativi si verificano a Boccea, un quartiere residenziale nella parte occidentale della città, dopo un incidente stradale mortale che vede il coinvolgimento di un ragazzo rom; e poi a Casale San Nicola, un abbiente comprensorio di Roma Nord fuori dal Grande raccordo anulare, dove militanti di Casapound e residenti si scontrano con la polizia per non far arrivare un gruppo di richiedenti asilo in una scuola abbandonata adibita a centro d’accoglienza.

All’incirca nello stesso periodo, tuttavia, l’alleanza tra i «fascisti del terzo millennio» e la Lega finisce rovinosamente tra accuse reciproche e recriminazioni. Si viene così a creare un vuoto nel format della «ribellione delle periferie» – un vuoto riempito tempestivamente da altre formazioni di estrema destra, che fino a quel momento erano rimaste relegate sullo sfondo.

Roma ai romani [trullo, tiburtino III]

Dalle finestre dell’ultimo piano del Ferrhotel, uno stabile di proprietà delle Ferrovie dello stato nei pressi della stazione Tiburtina, sventolano un tricolore e uno striscione che recita: «Roma ai romani / Le case agli italiani». Sotto, decine di persone intonano slogan quali «immigrato manovrato dallo stato» e denunciano la «sostituzione etnica» del popolo italiano.

È il 21 gennaio del 2017; qualche giorno prima, quell’edificio è stato designato per accogliere i migranti in transito nella capitale. La manifestazione, riportano Maurizio Franco e Maria Panariello sul sito Vice Italia, è una foto di gruppo della destra romana: ci sono militanti di Fratelli d’Italia, Noi con Salvini (lo spin-off della Lega per sfondare nel Centro e nel Sud Italia) e una sigla fino ad allora inedita – Roma ai romani.

Si tratta dell’evoluzione di un altro gruppuscolo (il Fac, Famiglia azione casa) legato al partito neofascista Forza nuova. Il portavoce è sempre lo stesso – Giuliano Castellino, volto noto dell’estrema destra capitolina e assiduo frequentatore delle cronache giudiziarie. E anche la funzione è la medesima: essere un «comitato per il diritto all’abitare» che si appropria, pervertendole, delle pratiche e del linguaggio dei movimenti di sinistra.

Dopo l’occupazione del Ferrhotel, il 24 gennaio Castellino e i suoi camerati si spostano nel quartiere popolare del Trullo, nella zona sudoccidentale della città, per picchettare un appartamento dell’Ater (l’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica) in via Montecucco. L’obiettivo è quello di impedire l’ingresso ai legittimi assegnatari, una famiglia egiziana, e far rimanere dentro una giovane coppia italiana. Alla fine, il blitz riesce anche grazie a una circostanza abbastanza inusuale: a fianco dei militanti di Roma ai romani ci sono quelli di Casapound.

Nel commentare l’accaduto, il giornalista Guido Caldiron – esperto di estrema destra e autore di diversi saggi sull’argomento – sostiene che i due gruppi «stanno competendo sullo stesso terreno» per «ritagliarsi un ruolo da protagonisti» dentro la crisi abitativa, materiale e sociale delle zone periferiche di Roma. Entrambi si ispirano esplicitamente alla formazione neonazista greca Alba dorata, continua Caldiron, cercando di copiarne il «volontariato sociale» su base etnica, l’infiltrazione nei comitati di quartiere e la «presenza di piazza militante e militarizzata».

La competizione tra Forza nuova e CasaPound è ancora più evidente in un’altra zona di Roma, il Tiburtino III. Racchiuso tra via Tiburtina e via Grotta di Gregna, a poca distanza da Casal Bruciato, il quartiere è stato una roccaforte del Partito comunista italiano e il fiore all’occhiello delle politiche abitative promosse dalle giunte di sinistra negli anni Settanta e Ottanta. Negli ultimi anni, l’area è entrata in una fase di forte declino: non ci sono poli culturali né spazi di aggregazione, la speculazione edilizia la fa da padrona e lo spaccio di stupefacenti è piuttosto diffuso. In rapida successione, inoltre, vengono aperti tre centri d’accoglienza – tra cui uno, il presidio umanitario della Croce rossa in via del Frantoio, dentro uno stabile sequestrato dalla magistratura nell’ambito dell’inchiesta su Mafia capitale.

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse Roma Manifestazione di Roma ai Romani e Forza Nuova al Tiburtino III contro il centro per migranti della Croce Rossa in Via del Frantoio. Nella foto Giuliano Castellino

L’estrema destra non si lascia sfuggire l’occasione di trasformare il quartiere in uno dei principali scenari della lotta contro i migranti. La prima formazione a muoversi in tal senso è Casapound, che organizza presidi per chiedere la chiusura dei centri e fonda un comitato di quartiere «apolitico» (Tiburtino terzo millennio) per soppiantare quello vecchio. Roma ai romani si innesta in seguito mediante una presenza in strada più aggressiva e una campagna di comunicazione che punta a presentarli come i salvatori di una zona «dimenticata dalla sinistra».

L’azione combinata delle formazioni neofasciste alza al massimo la tensione, che deflagra il 30 agosto del 2017. Nel quartiere gira la voce che un migrante avrebbe lanciato sassi contro un gruppo di bambini, arrivando addirittura a sequestrare una donna all’interno del centro. Un pugno di residenti decide così di «farsi giustizia» da sé e assalta il presidio della Croce rossa con modalità simili a quelle viste a Tor Sapienza. Durante gli scontri, un cittadino eritreo è ferito alla schiena con un’arma da taglio.

Per una parte della stampa, l’episodio è l’ennesima conferma dei guasti prodotti dall’«immigrazione incontrollata». Dopo l’assedio viene dato grande spazio alle lamentele di alcuni residenti, i quali raccontano di migranti che «pisciano e cagano per strada» e «fanno il cazzo che vogliono». Le televisioni calcano la mano, facendosi portare in giro al Tiburtino III da esponenti neofascisti travestiti da abitanti o semplici «cittadini indignati».

Ma questa narrazione scricchiola e si sfalda nel giro di poco. Anzitutto, la donna che aveva dichiarato di essere stata sequestrata si era inventata tutto. La violenza poi è unidirezionale, rivolta solo verso i migranti: un ospite del centro, l’8 settembre del 2017, viene picchiato per strada da quattro uomini. Infine, il resto del quartiere respinge le manovre propagandistiche dell’estrema destra scendendo in piazza a più riprese. In una lettera pubblicata sui quotidiani, alcuni genitori spiegano che «la convivenza con il centro e i suoi ospiti non è mai stata causa di alcun problema, disagio o pericolo per nessuno», ricordando che «i molti problemi di questo territorio non sono certo recenti, né da imputare all’apertura del centro e all’arrivo di nuovi abitanti e/o ospiti».

Lo schema della «rivolta delle periferie romane» subisce dunque una pesante battuta d’arresto al Tiburtino III; ancora una volta, però, riesce ad aprire nuovi fronti in altre zone. E per andare ancora sul sicuro, torna a prendersela con il bersaglio per eccellenza – una popolazione che da sempre sta in cima alla gerarchia sociale dell’odio.

Nun me sta bene che no [torre maura]

Da almeno trent’anni a questa parte, le amministrazioni comunali di Roma (di ogni colore politico) hanno trattato rom e sinti come se fossero una calamità naturale. Il rimedio è sempre stato uno soltanto: segregarli in campi fatiscenti, ai margini estremi della città, esclusivamente sulla base dell’etnia e di antichi pregiudizi.

Il sistema ha permesso a molti di lucrarci sopra economicamente e politicamente, ma ha avuto costi sociali altissimi e ha attirato più volte i richiami delle autorità europee. «I campi nomadi» ha scritto l’ex senatore dei Verdi e del Pd Luigi Manconi «sono allo stesso tempo causa ed effetto della discriminazione di rom e sinti».

Nel 2017, la giunta guidata da Virginia Raggi comunica trionfante l’approvazione di un piano per «superare i campi rom». L’Associazione 21 luglio – che si occupa dei diritti di questa minoranza – lo contesta duramente, dicendo che «la giunta non sta chiudendo dei campi, ne sta aprendo di nuovi» sotto un’altra forma: i cosiddetti «centri monoetnici», già sperimentati dall’amministrazione di destra di Gianni Alemanno con risultati disastrosi.

In sostanza, allo sgombero del campo segue un ulteriore «confinamento etnico» in un edificio, senza alcuna reale possibilità di inclusione. I rom si trovano così in una situazione impossibile: non possono più stare nel campo, ma non possono comunque inserirsi nella società perché, venendo da un campo, sono considerati un pericoloso corpo estraneo. E in quanto tali vanno rimossi; anche con la forza, se necessario.

È esattamente questa la dinamica che si viene a creare a Torre Maura, un quartiere popolare di Roma Est a ridosso del Gra. Nella zona, ricorda il presidente della 21 luglio Carlo Stasolla, «il tasso di residenti stranieri è molto alto e altrettanto elevato è quello delle famiglie rom che da decenni vivono, in una convivenza pacifica, in case private o in alloggi dell’edilizia residenziale pubblica».

Eppure, il 2 aprile 2019 si scatena una protesta particolarmente violenta. Nel pomeriggio, un gruppo di settanta rom (tra cui 33 bambini e 22 donne) è trasferito all’interno di un «centro di raccolta» in via dei Codirossoni. Un residente chiede cosa stia succedendo e inizia ad avvisare tutto il quartiere; la voce dell’arrivo si sparge incontrollata e in breve accorrono altre persone. L’atmosfera si surriscalda: vengono rovesciati e incendiati dei cassonetti per tirare su delle barricate, e come al solito partono le minacce. «L’unica cosa da fare per liberarci del problema è dare fuoco alla struttura» esclama un uomo.

LaPresse Carlo Lannutti

Sul posto piombano anche i militanti di Casapound, Forza nuova e Azione frontale, che spalleggiano la manifestazione e la trasmettono in diretta su Facebook. L’assedio sfocia in un episodio agghiacciante: il pasto serale destinato ai rom viene scaraventato a terra e calpestato al grido di «Dovete morire di fame». In serata, un’automobile noleggiata dalla cooperativa che dovrebbe gestire il centro è data alle fiamme. Nella notte, il comune capitola e – com’era successo a Tor Sapienza – annuncia lo svuotamento del centro e il trasferimento degli ospiti in altre sistemazioni.

LaPresse

Per alcuni residenti e i militanti neofascisti, tuttavia, l’annuncio non è sufficiente: i rom devono andarsene subito. L’indomani mattina viene indetto un altro presidio in via dei Codirossoni, mentre attivisti di sinistra e residenti di Torre Maura vanno lì per esprimere vicinanza agli ospiti asserragliati dentro il centro. È in quell’occasione che viene ripreso uno scambio di battute tra gli esponenti di Casapound e un adolescente del posto di nome Simone. Dopo averli pazientemente ascoltati, il 15enne li accusa di «fare leva sulla rabbia della gente per racimolare voti» e dice che «sta cosa di anda’ sempre contro le minoranze a me nun me sta bene che no. Nessuno deve essere lasciato indietro, né italiani, né rom». I neofascisti gli chiedono di che fazione politica sia, ma Simone spiega di non averne e rivendica orgogliosamente la sua appartenenza territoriale: «Io so’ de Torre Maura, che è diverso.»

Il video diventa virale all’istante e manda in frantumi il dispositivo retorico costruito ad arte dall’estrema destra dal 2014 a oggi. La sola presenza di ragazzi come Simone, infatti, significa che non tutti gli abitanti sono disposti a prendersela con chi sta peggio di loro, a farsi strumentalizzare da esterni, né tanto meno a passare per razzisti. «Non è vero che è tutto morto» scrive sulla rivista Jacobin l’attivista di Nonna Roma Alberto Campailla «c’è una rete di persone e associazioni che in questi quartieri si muovono e fanno attività di sostegno alle persone più svantaggiate, anche se il clima è profondamente cambiato nella città e nel paese».

Mamma Roma premia Simone di Torre Maura LaPresse

Lo si vede plasticamente a Casal Bruciato. Dopo la minaccia di stupro rivolta a Senada Omerovic, associazioni e movimenti antifascisti organizzano una partecipata manifestazione per le strade del quartiere, imponendo l’uscita di Casapound dal cortile del palazzo e la rimozione del gazebo. Alla fine, la famiglia potrà rimanere nella casa che ha ottenuto rispettando la legge.

Come nota Campailla, inoltre, la stragrande maggioranza del quartiere non è scesa in piazza per cacciare gli Omerovic. Ma del resto, a ben vedere, a Corcolle è stata solo una piccola minoranza a compiere la «caccia al nero»; la stessa cosa vale per il centro d’accoglienza preso a sassate a Tor Sapienza; e in altre zone, la solidarietà degli abitanti ha prevalso sulle forme d’intolleranza.

Il punto cruciale – sostengono i ricercatori Caterina Froio, Pietro Castelli Gattinara e Tommaso Vitale in un articolo pubblicato sulla rivista il Mulino – è che l’estrema destra «non esprime né rappresenta un malessere sociale. Lo crea semmai, dentro una strategia di azione tutta finalizzata alla comunicazione pubblica» e alla spettacolarizzazione mediatica.

In altre parole, non sono le periferie a rincorrere l’estrema destra. È l’estrema destra a rincorrere le periferie, inasprendo i conflitti e spacciando soluzioni false per problemi reali che restano lì, irrisolti, anche quando si spegne l’ultima telecamera.


Questo testo è un estratto dal nuovo volume di The Passenger, la rivista-libro pubblicata da Iperborea, il cui ultimo numero dedicato a Roma è stato pubblicato nel mese di gennaio 2021

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