«Il finale di Don’t look up», diceva un’amica a un paio d’ore dal brindisi che avrebbe chiuso i conti col 2021, «a me ha messo molta allegria». Prendo questo ricordo recente, lo metto da parte e lo sostituisco con uno ancora più recente, che ha sempre a che fare con immagini incontrate dentro al perimetro di uno schermo.

Il 14 gennaio è infatti uscita su Netflix la terza e ultima stagione della serie After life. Ideata, prodotta, diretta e recitata nel ruolo di protagonista da Ricky Gervais, questa è probabilmente la miglior narrazione pop-mainstream sul lutto che, al momento, abbiamo a disposizione.

Sempre su Netflix troviamo anche The last word, dramedy tedesca sulle vicende di una vedova che si reinventa cerimoniera funebre. Godibile e molto ben fatta, The last word si è per ora fermata alla prima stagione e non sappiamo se ne verranno di successive. Al contrario la creatura di Gervais è giunta, a tutti gli effetti, a completare un ideale percorso nell’elaborazione della perdita.

Il lutto

Il personaggio di cui seguiamo le vicende è Tony, che compare per la prima volta nelle vite dei telespettatori a marzo del 2019. Tony lavora come redattore presso lo squinternato e localissimo Tambury Gazette, ha un cane e non ha più una moglie.

Lisa è morta a causa di un cancro, lasciando dietro di sé i ricordi di un matrimonio profondamente felice, e molti video. Alcuni sono stati realizzati dallo stesso Tony nel corso delle loro vite quotidiane (un compleanno, un matrimonio, un momento di scherzi e risate del tutto casuale…), altri li ha registrati in segreto la stessa Lisa durante la malattia.

La vediamo rivolgersi dallo schermo direttamente al marito, con il capo coperto da un foulard e una stanza d’ospedale alle spalle. Lisa conosce Tony meglio di chiunque altro e più di chiunque altro desidera che riesca a vivere anche senza di lei.

Tony soffrirà in modo indicibile e attraverserà gli angoli più bui del lutto. Con le persone che ha intorno sarà caustico, arrabbiato, fuori luogo, non di rado ci farà molto ridere, e poi soffrire di nuovo.

In mezzo al verde

Una pausa al dolore Tony riesce a trovarla su di una panchina. Il luogo in cui usa sedersi è un bel parco, l’atmosfera è british e verdeggiante.

Potrebbe da un momento all’altro arrivare qualcuno del cast di Downton Abbey e invece arriva Ricky Gervais, cioè Tony, con le sue maglie slabbrate e una lattina di birra. Si siede al fianco di una signora di una certa età, che si chiama Anne e sembra sostare lì da almeno un secolo.

Questo accade fin dalla prima stagione, Anne è una vedova e il parco verdeggiante è un cimitero. Avere dei posti in cui sedersi con agio nei camposanti e frequentarli senza il rischio di essere scambiati per strambi o fan della scena goth nei paesi anglosassoni è tipico, e molto bello.

In questo caso diventa il pretesto per far nascere un’amicizia tra due anime ferite. Anne (una favolosa Penelope Wilton che, in effetti, viene proprio dal cast di Downton Abbey) sarà di grande aiuto a Tony, così come lui sarà di grande aiuto a lei.

La loro interazione evidenzia come a volte, specie in momenti molto traumatici, le aperture casuali con persone esterne al nostro quotidiano – dalle quali non percepiamo pressioni né aspettative - possono rappresentare dei punti di svolta decisivi. O almeno essere un attimo di requie in un marasma di dolore.

Un salvavita

Si può allora dire che Anne faccia parte della famiglia allargata di Tony. Ma cos’è poi la famiglia di Tony? Questa è composta da lui stesso, da un cane preso con Lisa, dalle amicizie e da un padre malato. Tony e Lisa non avevano figli.

Non c’è peraltro nessuna retorica del pentimento e del rimpianto, perché a Tony manca Lisa, non i figli che non hanno avuto. In compenso nell’economia dei suoi affetti il cane è di importanza cruciale.

È, nel senso più letterale del termine, un salvavita. A nessuno importerà mai questionare l’esistenza o meno dell’anima nell’animale. Forse anche perché Tony è un ateo dichiarato, e non dà esattamente per scontata la presenza di un’anima nell’umano.

Gennaio

A Capodanno eravamo in quattro e ci eravamo chiuse in casa previo tampone. In generale, conosco più persone che si sono sigillate nelle proprie dimore, stanze, mono e bilocali, isolate in una sorta di lockdown auto imposto, che persone disposte ad avere contatti esterni a rischio proprio e altrui.

Certo la mia esperienza non fa statistica, è una bolla, e ogni bolla è fatta a modo suo. C’era l’amica che scongelava la cena con i genitori, e l’amico che ha accettato un ricovero per un piccolo intervento perché «meglio approfittare prima che le terapie intensive si riempiano di nuovo». C’era pure quell’altra, che si interrogava sull’assenza di botti, e la madre le rispondeva: «Non ne fanno perché la gente non ha più entusiasmo per il futuro».

A prescindere che il 31 si sia bevuto o meno, che si debba tornare seduta stante al lavoro o che si benefici di una pausa prolungata fino all’Epifania, dopo l’Epifania succede che c’è ancora tutto il resto di gennaio ad attenderci e, da che mondo è mondo, gennaio è fatto della stessa materia di cui è fatto lo stato confusionale. Questo gennaio specifico, poi, prima ancora di arrivare aveva l’aria di essere più strano del solito. Aveva l’aria di essere costellato di pensieri da fine dei tempi.

Sarà stato il discorso di congedo all’anno vecchio di Mattarella, fatto in piedi, in apparenza così pronto a chiudere con il settennato; erano poche settimane fa ma potremmo giurare sia passato un secolo. Sarà stato incontrare vicini e conoscenti in coda ai chioschi fuori dalle farmacie, scambiare auguri e chiacchiere di circostanza fingendo di non essere nervosi per gli esiti dei tamponi. Sarà stata l’uscita in streaming di quel film di cui a un certo punto parlavano proprio tutti.

Il lutto del mondo

Photo by Evan Agostini/Invision/AP

Don’t look up è l’ultimo film di Adam McKay e la sua trama ormai la conoscono anche i sassi: un team di astronomi statunitensi scopre che una cometa grande quanto l’Everest sta per schiantarsi sulla Terra e che servono manovre immediate affinché il pianeta non venga distrutto. Provano a relazionarsi con le istituzioni, restano inascoltati.

Anche questo film è distribuito da Netflix e disponibile sulla piattaforma dal 24 dicembre appena trascorso. Più di qualcuno ha notato un certo accenno di crudeltà nello sganciarlo tra capo e collo alla vigilia di Natale, con la culla nelle mangiatoie dei presepi ancora vuota di bambinello e belle speranze.

Si è parlato della sua gridatissima metafora sulla crisi climatica, si è detto del suo esser capolavoro assoluto o inaccettabile schifezza (come tutti i grandi successi, Don’t look up non si è certo risparmiato con la polarizzazione di reazioni e opinioni). Quel che non si è detto è che è stato un modo per parlare a un pubblico ampio di morte e di consapevolezza della fine delle cose.

Per parlare del fatto che se non accettiamo questa cosa che a un certo punto si muore, di sicuro non possiamo essere in grado di salvaguardare un intero pianeta dalla sua plausibile fine. In altre parole è stato un modo eccellente per fare death education su vastissima scala.

Vedevamo da un lato la scienziata Kate Dibiasky interpretata da Jennifer Lawrence gridare che moriremo tutti; dall’altro la presidente Janie Orlean interpretata da Meryl Streep affermare che «dire che esiste il 100 per cento di possibilità che un meteorite colpisca la terra sarebbe stupido come dire alle persone che hanno il 100 per cento di possibilità di morire».

Attraverso la grossolana ottusità dei suoi antagonisti il film ha saputo mettere in luce il tema del rifiuto dell’idea di mortalità nel mondo statunitense, ovvero in tutto il mondo occidentale. Senza cadere nell’eccesso di spoiler possiamo anche aggiungere questo: i rappresentanti delle forze del bene, in Don’t look up, scelgono di effettuare scelte consapevoli e comunitarie proprio nel momento in cui tutto sembra vano e inutile. In una situazione in cui pare che non ci sia più niente da fare, niente da decidere, niente da celebrare, scelgono di riallestire il rito dello stare insieme. E questa, pur nella disperazione, è una forma di allegria.

After life

La terza stagione di After life arriva all’alba del terzo anno di pandemia. È quella finale, e sarebbe bello provare a pensarla come benaugurante, perché una storia può essere tale anche se parla di un lutto tremendo.

In questa, come nelle precedenti, incontriamo una narrazione che fa saltare il manuale delle fasi del lutto e racconta l’elaborazione con l’onestà riservata a ciò che non può stare stretto in uno schema rigido. Se è dunque vero che in un momento così difficile si passa per negazione, senso di colpa, rabbia, depressione, è vero anche che niente e nessuno può stabilire l’ordine e la durata di queste fasi, né tanto meno garantire che non ci siano numerosi passi avanti e indietro, cambiamenti di rotta e spirali.

Tony prova una rabbia costante che finisce con il trascendere in esplosioni incontrollate. Agli occhi di chi guarda la sua attitudine sublima il desiderio intimo di non assolvere sempre a comportamenti sociali accettabili, di non rispondere sempre con la formula giusta e più rassicurante alla richiesta di essere performanti anche nei momenti peggiori.

Ma Tony – specie nelle prime due stagioni – è anche preda dei pensieri e dei moti più cupi e disperati. Riguarda costantemente i video di Lisa, che a volte lo riagganciano alla vita a volte lo trascinano più a fondo, perché la riproducibilità porta vantaggi, svantaggi e inevitabili contraddizioni. Tra i vantaggi c’è la possibilità di trovare in quei video tracce delle volontà dei propri cari. È quel che succede a Tony quando si imbatte in un vecchio video del padre. In quelle immagini è in forze e sorridente, parla con Lisa di cremazione e dispersione in un luogo caro. Sembra un gioco, e invece è una forma di autodeterminazione.

Storie che raccontiamo

Uscendo dalla fiction nuda e cruda, nel 2012 un esperimento eloquente nel campo dell’elaborazione del lutto per mezzo di video è stato portato avanti dal documentario Stories we tell.

Il progetto è dell’attrice, regista e sceneggiatrice canadese Sarah Polley che, a onor del vero, in quella sede non è intenta solo nel sondare la storia della madre (morta quando la regista aveva solo nove anni), bensì nell’elaborare vissuti, gioie, traumi e segreti dell’intera famiglia.

Polley passerà al microscopio il matrimonio dei genitori, farà sedere davanti alla telecamera ogni fratello e sorella (sono davvero molti), zie, amiche e amici dei genitori, vecchi colleghi di lavoro. Ognuna di queste voci sarà intervistata in separata sede e così, sulle medesime vicende, emergeranno pareri anche diametralmente opposti.

Vedremo riprese e foto d’epoca, ritagli di giornale e foto, perfino riproduzioni di scene specifiche interpretate da attori, in quella che a tratti sembra legittima ricerca di risposte, a tratti vera ossessione. Per sua stessa dichiarazione la regista sottoporrà a un vero e proprio interrogatorio l’anziano padre, Micheal Polley, che principierà la sua testimonianza leggendo un testo che, già da solo, sembra rispondere a tutto: «All’inizio, la fine. Io sono unico. Nell’esatto momento in cui dal ventre di mia madre sono venuto alla luce in questo freddo mondo, io ero perfetto. Un amalgama del Dna trasmessomi da mia madre e mio padre. E anche loro erano nati perfetti, con il Dna trasmessogli dai rispettivi genitori, e così all’infinito. Sono convinto di essere sempre esistito, nel Dna dei miei antenati, in attesa di nascere. Questo ragazzo unico è sempre esistito, anche nel mistero del nulla».

Ricominciare

L'orologio del clima al ministero delle Transizione ecologica (LaPresse)

Alla fine, l’inizio. Gennaio è stato strano e immenso come di consueto. A chiosa di dicembre salutavo l’estenuante anno vecchio passando in macchina davanti a un grande display, il display diceva che abbiamo sei anni e qualcosa per evitare che l’emergenza climatica produca danni davvero irreversibili.

Lo chiamano climate clock e si trova sulla facciata del ministero della Transizione ecologica. Mi ero da pochi giorni imbattuta in Don’t Look up e pensavo che, in effetti, pare di trovarsi in un film sulla fine del mondo in cui la gente guarda un film sulla fine del mondo.

La verità è che non sappiamo fino a che punto ci troviamo in tempi di disgregazione. Quanto la disgregazione sia vicina. Tuttavia possiamo accettare che valga ancora la pena fare tutto. In particolare, che valga la pena fare il possibile per fare cose buone.

Anche se qualche tipo di fine potrebbe arrivare tra sette anni, tra due mesi, tra cinque minuti, tra un attimo. Possiamo pensare alla signora Anne sulla panchina di After life, in quelle ultime puntate che vedono Tony prepararsi a evolvere il suo dolore per metterlo a servizio della propria comunità di riferimento.

È un momento che pare quasi fare eco alle parole che Vonnegut riserva al giovane Joe in Un uomo senza patria (Minimum Fax, 2005) quando alla richiesta per favore, «mi dica che prima o poi andrà tutto bene», risponde «di regola io ne conosco una sola: "Cazzo, Joe, bisogna essere buoni!”». È il momento in cui Tony esprime tutta la potenza della sua ricerca di senso, e dice all’amica: non voglio trovare un rimpiazzo, voglio trovare una ragione per vivere. E Anne conclude: «Se vuoi essere un angelo devi esserlo quando sei in vita, sii buono, fai cose buone».

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