- Il rivelatorio blackout di lunedì 4 ottobre, che ci rammenta quanto è vasta l’umanità che si affida oggi a un singolo editore che accentra ogni controllo sui contenuti, mi ha fatto pensare a una poesia di Mandelstam su Ariosto, che dice: «Il potere è ripugnante come le mani del barbiere».
- Il rasoio è un’arma che pare meno pericolosa nelle mani di un professionista: quelli moderni che abbiamo in casa sono pieni di guarnizioni per non farci del male.
- Se Mark Zuckerberg ammettesse di essere un editore, un barbiere che esige che gli ci si ceda, che gli ci si affidi, non è detto che smetteremmo di farci radere da lui, ma almeno non crederemmo più di essere soli e al sicuro sulle sue piattaforme.
Mi metto a scrivere queste righe di lunedì e non so per certo se Facebook e le altre piattaforme di Zuckerberg torneranno online quando il pezzo sarà stampato sul giornale. Contattare la redazione (ma anche mia mamma, mio zio, la mia amica del cuore) in Italia è improvvisamente complicato, perché non sono mai stato su quest’altro lato dell’Atlantico senza WhatsApp. E dire che mi ero appena messo d’accordo col direttore per organizzare dirette video dall’account Instagram di Domani…
Il mezzo non giustifica i fini
L’economia della connessione si regge chiaramente su uno scambio di fiducie, un commercio del controllo: ti lascio gestire tutto quello che mi riguarda e, in cambio, me lo restituisci indicizzato, continuamente accessibile da me e da chi a me si interessa, facile; pago il mantenimento, la velocità, la disponibilità della mia rete di affetti e di influenze con l’assenso al loro uso per scopi commerciali che non governo e di cui non beneficio. È un cedersi, un abbandonarsi.
Ricordo che l’avvento del cosiddetto web 2.0 negli anni Zero si salutava come un passaggio di paradigma: dalla contemplazione passiva dell’internet al suo uso attivo, dalla ricezione alla produzione di contenuti. E tuttavia chi si occupa di testualità sa che non c’è niente di meno passivo di un’intelligenza che legge, mentre chi scrive è inevitabilmente in balìa d’altro: di quel che precede il suo testo (cioè, di nuovo, di ciò che ha letto), dei cruciali incidenti che animano quel testo (la lingua, il momento storico, il cosiddetto contesto) e, soprattutto, di coloro a cui lo affida perché raggiunga chi lo leggerà (ciò che oggi chiamiamo “editore”).
Le lamentele su quest’ultimo nodo essenziale della filiera della comunicazione si sprecano nella storia della letteratura: pensate al capitolo ventisette dei Promessi sposi, in cui Manzoni descrive come Renzo, analfabeta, debba affidarsi a intermediari perché i suoi messaggi raggiungano per iscritto i loro destinatari, trasfigurando immancabilmente («accade anche a noialtri», dice Manzoni «che scriviamo per la stampa»), oppure a Tasso, che non poté impedire a numerosi editori di diffondere il suo capolavoro, la Gerusalemme liberata, che lui avrebbe voluto invece obliterare con l’assai meno fortunata Gerusalemme conquistata. Cedersi a un medium, stampato o social che sia, ci mette in una posizione di subalternità – e nessuna subalternità, per quanto ci si abbandoni a essa volontariamente, è davvero confortevole.
Mandelstam e Rembrandt
Il rivelatorio blackout di lunedì 4 ottobre, che ci rammenta quanto è vasta l’umanità che si affida oggi a un solo scrivano di lettere, a un singolo editore che accentra ogni potere, mi ha fatto pensare a una poesia su cui ragiono da almeno cinque anni e che non sono ancora sicuro di capire. L’ha scritta Osip Mandelstam nel 1933, al confino in Crimea, mentre concepiva la Conversazione su Dante che pochi mesi fa Serena Vitale ci ha restituito in uno scintillante italiano per Adelphi.
Non è però una poesia su Dante, ma bensì su Ariosto, di cui in quell’anno si celebrava il quarto centenario dalla morte. È scritta, ovviamente, in russo, per cui non so leggere l’originale.
Ho dunque a lungo rimuginato su un verso della traduzione inglese di Richard ed Elizabeth McKane («Power is repulsive, like a barber’s hands») e finalmente, lo scorso giugno, ho trovato a Roma la splendida versione italiana dei Quaderni di Mosca che Pina Napolitano e Raissa Raskina hanno curato per Einaudi. Il verso, in quella traduzione, recita così: «Il potere è ripugnante come le mani del barbiere». Che diavolo significa, e che c’entra con Ariosto?
Non ho ancora una risposta certa ma, interrogato, un collega slavista (Michael Wachtel, grande esegeta di Pushkin) mi ha chiesto se mi fossi mai trovato nella posizione che, per secoli, gli uomini borghesi di mezzo mondo hanno assunto al cospetto del barbiere: corpo abbandonato e fasciato di stoffa candida sulla sedia rialzata, che s’inclina impedendoti di saltare in piedi con facilità; spalle tese, colonna vertebrale estesa, testa reclinata. Alle mani del barbiere, armate di una lama proverbialmente affilata, si offre la gola. La carne più nuda, la più tenera. E resta inteso che, se resterai completamente immobile in quella postura che non ti permette di vedere cosa succede, il barbiere non ti ucciderà. È un cedersi, un abbandonarsi.
Mi domando se la repulsione di Mandelstam sia la stessa che provo dal dentista, offrendo il nervo al trapano. È forse significativo che nel medioevo il dentista e il barbiere fossero la medesima figura professionale, deputata al governo di barbe, ascessi, salassi e piccole chirurgie dei soldati prima e dopo le battaglie, o dei gentiluomini di borgo.
Tra i primi oli di Rembrandt figurano quattro allegorie dei sensi e la quarta, dedicata al tatto, rappresenta un barbiere-chirurgo che sembra torturare il suo paziente – non si capisce se lo stia radendo o stia estraendo qualcosa dal suo cranio. Pare che nel volto di quel sereno aguzzino in camicia viola, le cui mani si posano leggere e in assoluto controllo sul corpo rappreso che gli si affida, Rembrandt abbia ritratto suo padre. Il potere è ripugnante. Come le mani del barbiere.
Giardinaggio di sé
Forse per capire la natura inquietante del nostro patto quotidiano con Mark Zuckerberg bisogna figurarsi di essere maschi ai tempi di Mandelstam, e di avere abbastanza denaro per trovarsi spesso, se non ogni giorno, sulla sedia del barbiere. C’è del resto chi lo fa, compiacendosi di affidare la propria gola a un professionista in grado di adoperare la classica, iconica lama singola, da affilare sulla cinghia abrasiva. Quell’arma pare meno tremenda nelle mani (pur sinistre, ripugnanti appunto) del barbiere che non nelle proprie di uomo qualunque.
I rasoi che abbiamo in casa moltiplicano infatti le lame e ne nascondono l’anima di metallo vivo in morbide guarnizioni colorate, cuscinetti protettivi e balsamici, accorgimenti di design che ci aiutano a fidarci delle nostre assonnate abitudini. Radersi da sé è un massaggio e una pulizia, un fatto personale. Per me che mi rado anche la testa è addirittura un’esplorazione di zone di me medesimo che altrimenti dimenticherei, un contatto intimo (immagino che l’esperienza delle donne che si depilano col rasoio sia in qualche modo simile).
C’è perfino chi si rade dappertutto: una pratica tipica dei giovani Millennial e dei più maturi maschi della generazione successiva, che in America si chiama “manscaping” (un gioco sulla parola inglese per giardinaggio, un maschile giardinaggio di sé). Le pubblicità dei rasoi elettrici deputati al corpo, e in special modo all’inguine, insistono su come siano innocui, incapaci di tagliare alcunché se non i peli: i modelli li fanno scorrere su palloncini e frutti, se li poggiano attivi sul palmo della mano per mostrare che non presentano alcun rischio.
Abitare i social network dà l’impressione di fare del giardinaggio di sé, di avere il potere di controllare la propria narrazione e la propria immagine, di condividersi attivamente, scientemente, con una selezione di persone altrimenti remote. In parte è così. Ma questo potere, come quello di scrivere lettere o comporre poemi epici, è infine affidato a un (pur competente) estraneo. Non è vero che su Facebook o su Instagram siamo narcissicamente allo specchio, con in pugno rasoi multilama (o elettrici) disegnati per curarci sbadatamente (o con perizia) di noi stessi senza rischiare di ferirci. Entrando su quelle piattaforme ci distendiamo sulla sedia di un barbiere, che brandisce il rasoio di Rembrandt. È un cedersi, un abbandonarsi.
Sospetto che Mandelstam avesse capito la frustrazione dominante della vita (e della poesia) di Ariosto, un umanista che si fingeva incantato tessitore di favole lunari ma che continuamente denunciava la necessità di compromettere la poesia con il potere, il proprio lavoro creativo con le convenienze degli altri.
Se Mark Zuckerberg ammettesse di essere un editore, un barbiere che esige che gli ci si ceda, che gli ci si affidi, non è detto che smetteremmo di farci radere da lui – d’altro canto, ora che chiudo il pezzo, Instagram è di nuovo operativo e sto già pensando alla storia che metterò insieme per lanciarlo. Il fatto è che non siamo (o almeno non crediamo di essere) sotto gli Este o sotto Stalin come Ariosto e Mandelstam, e dunque qualche strumento per fare meno repellenti le mani di un barbiere, di un editore, lo avremmo.
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