- L’arma più formidabile dell’epica cavalleresca non è una spada. È lo scudo magico di Atlante, capace di sgominare chiunque lo guardi: una difesa talmente aggressiva che l’eroe Ruggiero si vergogna a usarla.
- Al liceo cercavo di capire chi difendessero coi loro scudi antisommossa le forze di polizia al G8 di Genova del 2001. All’università ho imbracciato uno scudo a forma di libro per protestare in piazza. Proteggersi significa evadere dalla realtà, come sembrano suggerire gli scudi istoriati in Omero e Virgilio?
- Forse la soluzione è dismettere il paradigma democristiano e poliziottesco di Capitan America e lasciarsi invece difendere dallo scudo di Wakanda, o da quelli di Dr. Strange, o ancora meglio da quello di Perseo, metafora della letteratura. Questo contributo è parte del nuovo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.
L’arma più formidabile dell’epica cavalleresca non è una spada. Non è una lancia né un’alabarda, né una faretra di frecce da arco o da balestra: non ha né punta né lama, e non è nemmeno l’anacronistico fucile a polvere da sparo del perfido Cimosco. A dire il vero, tecnicamente, non si può neanche dire che sia proprio un’arma. È uno scudo: lo scudo che il mago Atlante imbraccia nel quarto Canto dell’Orlando furioso.
Quell’incantato scudo fiammeggiante è talmente micidiale che il mago deve tenerlo coperto sotto un drappo di seta vermiglia, perché quando lo si espone sprigiona una luce devastante capace di stordire fino alla perdita dei sensi chiunque la subisca. È un potere sproporzionato a qualsiasi potenza di fuoco gli si opponga: l’equivalente poetico di un deterrente nucleare. L’eroico Ruggiero, che lo eredita, è infatti troppo cavaliere per usarlo, e lo tiene sempre velato. Vi ricorre solo se si trova a combattere contro chi non è degno di un duello o se, al contrario, si scontra con forze sovrannaturali altrimenti imbattibili, come l’armata di mostri della fata Alcina o la gigantesca Orca da cui salva Angelica.
Quando, durante una battaglia più ordinaria, il velo cade per sbaglio e attiva l’invincibile luce, tramortendo all’istante gli avversari, Ruggiero si vergogna di quella vittoria senza onore al punto da gettare il tremendo scudo in un pozzo. Neanche il più oculato e giudizioso dei cavalieri può infatti cedere alla tentazione, troppo rischiosa, di portarlo con sé, un po’ come avviene con la bacchetta di sambuco di Albus Silente o con l’anello del potere di Sauron. A differenza di quegli altri oggetti magici però, uno scudo è in teoria uno strumento di difesa: un’estensione tecnologica dei gesti della mano che servono a parare, a riparare, a proteggere. Quand’è che la difesa – quest’arte marziale così virtuosa, così legittima – diventa aggressiva al punto da mettere in imbarazzo un guerriero?
Scudi da guardia e da studente
Avendo praticato il karate da bambino, sono cresciuto con l’idea che la difesa fosse l’unica vera autorizzazione alla violenza. Arrivato al liceo nel 2001 però non avevo più tempo per gli allenamenti, e l’immagine degli scudi antisommossa delle forze di polizia a Genova mise in dubbio quella mia semplice regola mentale. Chi (cosa?) difendevano gli agenti schierati contro le centinaia di migliaia di giovani donne e uomini che, da ogni parte del mondo, si erano riuniti per contestare il vertice del G8, all’apice del movimento contro la globalizzazione? La difesa trasfigurava in controllo, poi in tortura, infine nella morte di un ragazzo, Carlo Giuliani – e ancora chiamava sé stessa difesa.
Pochi mesi dopo, alle assemblee d’istituto, si discuteva sulla guerra appena scoppiata in Afghanistan. Ci si chiedeva se fosse legittima, se gli Stati Uniti si stessero difendendo invece che vendicando. Ricordo che sul prato del Circo Massimo, alla marcia per la pace cui partecipai l’anno successivo, una delle ragazze col megafono raccontò di alcuni no-global italiani che stavano manifestando, in quegli stessi giorni, in Palestina. Erano andati a Ramallah per formare, coi loro corpi, uno scudo umano tra i civili e l’esercito israeliano. Pochi anni dopo lo scudo diventò l’emblema più felice delle proteste della mia generazione.
Quando ero all’università, il movimento che chiamavamo “onda” tendeva scendere in piazza munito di gigantesche copertine di libri a mo’ di scudo: Calvino, Morrison, Pavese, Morante, Saffo e Borges a proteggerci, come una falange. Il mio era Fortini, che stavo studiando per un esame e mi pareva impenetrabile, come lo scudo di Atlante. Una professoressa assai saggia e un po’ anziana mi redarguì però, ricordandomi che lo scudo non è il più azzeccato dei simboli per chi si sente rivoluzionario: «Ma come Giammei, non lo sa che era il simbolo della Democrazia cristiana?».
La radice materna
In effetti è così, il famoso scudo crociato. Nei manifesti la Dc lo metteva al braccio della nazione, incarnata come al solito in un’avvenente donna materna, per proteggerla dall’assalto della falce e del martello.
È curioso come tendiamo a declinare l’eccesso aggressivo della protezione sempre al femminile, spesso appunto in funzione materna: la matrona spartana che in 300 intima a Leonida di tornare col suo scudo o su di esso, la mamma orsa, o tigre, nel cui territorio non bisogna avventurarsi, quella di Harry Potter che sconfigge Voldemort facendo del suo corpo uno scudo.
A ragionare in termini d’oggetti, d’altronde, il mostruoso accoppiamento di violenza e difesa si materializza più intuitivamente nella trappola che nello scudo – e le trappole le raccontiamo come cose da femmine: Scilla, Cariddi, le piante carnivore di Poison Ivy, la vagina dentata che ricorre nei miti folkloristici e in alcuni film horror degli anni Zero. Lo scudo risponde a un’altra logica, incarna una difesa paradossalmente attiva. Può esprimere la sua supposta virilità nell’uso, non come dispositivo di sicurezza ma di sfondamento. Così precede più che resistere, apre la strada: si fa avanguardia di chi lo porta. E tuttavia il più divino scudo della mitologia greca, l’ègida, era forse anche quello, letteralmente, una madre: la pelle della capra di Amaltea che aveva allattato Zeus sul monte Ida. Almeno così sembra descriverlo Omero, che mette l’ègida anche al braccio di Atena. È del resto Wonder Woman a ereditarlo, dopo la modernità: gli indistruttibili bracciali del più quintessenziale supereroe donna sono infatti forgiati, a dar retta ai fumetti classici, dalle spoglie di quell’antico Aegis.
Evadere dalla realtà
A questo punto non ci si può stupire della conclusione ovvia: Capitan America, l’eroe definito dal suo scudo di vibranio, è un po’ democristiano e un po’ poliziotto. Ma che dire, invece, di Achille? Omero ci descrive i rilievi sul suo scudo, prodotti dalla divina metallurgia olimpica, come una cosa viva, quasi un film. Sono scene achee di gioia: una finestra sulla pace domestica nel teatro per eccellenza della guerra in terra straniera.
Copiandolo un po’, Virgilio intesse sullo scudo di Enea la storia mitica di Roma di là da venire, facendo del metallo una macchina del tempo proiettata nel trionfale futuro della stirpe di Venere. È Venere stessa del resto a commissionare quello scudo a Vulcano per suo figlio, come la protettiva nereide Teti aveva commissionato quello di Achille a Efesto: ancora madri, dunque, alla radice dell’emblema della difesa.
Più che una difesa, però, con simili animati intarsi gli scudi degli eroi epici sembrano fornire una via di fuga, di evasione, e forse questo era il vero problema degli scudi-libro che levavamo per protesta noialtri studenti intorno al 2008. Se non si può difendere opprimendo, si può davvero protestare al riparo di uno scudo – di un libro, di una poesia, di un infrangibile schermo di vetro temprato su cui scorrono notizie e immagini di guerra accanto a catene di messaggi ed episodi di Bridgerton?
Il poeta W. H. Auden, negli anni Cinquanta, scrisse un libro di versi sullo scudo di Achille in cui Efesto rifiuta di forgiarlo con le serene scene vitali che Teti si aspetta, e lo popola invece di aride visioni desolanti, più vere e atroci. Il pittore Achille Funi, nella sala dell’Arengo del palazzo municipale di Ferrara, affrescò scene dell’epica estense su commissione dell’amministrazione fascista della città, i cui notabili si fecero ritrarre nei corpi dei cavalieri di Tasso. E tuttavia dipinse sé stesso come Ruggiero, sul lato della sala dedicata al Furioso, e ancora oggi da quel muro ci mostra direttamente lo scudo magico di Atlante, senza velo, aggredendoci con l’illusione fascista di potersi rifugiare nell’illusione di un qualche glorioso passato.
Dr. Strange e Perseo
Anche nell’universo dei supereroi l’arma più formidabile è forse uno scudo, ma non c’entra Capitan America. È lo scudo immateriale che protegge l’utopia afrofuturista di Wakanda dagli occhi del Mondo, consentendole di prosperare, e che nella guerra contro Thanos si mostra anche all’altezza di una pesantissima artiglieria spaziale. Persino gli scudi evocati dal Dr. Strange e dagli altri stregoni di quell’universo sono da preferire al classico paradigma poliziottesco e democristiano: sono piccoli, agili, e si formano sui pugni dei fattucchieri come gli eleganti brocchieri rinascimentali che Machiavelli descrive nell’ultimo capitolo del Principe.
Uno degli incantesimi più efficaci di Strange d’altronde è una specie di scudo dimensionale che confina i nemici oltre una barriera inespugnabile: la dimensione specchio. E lo specchio, direi, è la più felice variante dello scudo al cui riparo un maschio può crescere senza perdere d’occhio la realtà.
Quello di Perseo non aveva mirabili sculture sulla superficie levigatissima, ma proprio riflettendo le immagini del mondo (mentre da quel mondo lo difendeva) ha permesso all’eroe di sconfiggere Medusa, nella più perfetta allegoria della letteratura mai congegnata.
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