- Non c’è regista che, più e meglio di Jane Campion, sappia coniugare nello stesso istante immediatezza espressiva e potenza metaforica. Nella sua ultima prova, come in un trio musicale, i protagonisti sono tre solisti che si confrontano e anzi competono tra loro senza pietà, con una sorta di virtuosismo malvagio.
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Il ranch è il set ideale di questa pienezza frustrata, con l’esibizione della maschilità e dei suoi riti che adombrano il desiderio impossibile e il cuore straziato del protagonista. In questo senso il film è un western quasi più per via di metafora che di fatto.
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La maschilità tossica del protagonista non è che un paravento, l’epifenomeno della repressione e della compressione dell’intelletto e del sentimento: qualcosa che può succedere a ognuno di noi, uomo o donna che sia. Clicca qui per iscriverti gratuitamente alla newsletter e segui tutti i contenuti di Cose da maschi.
Non c’è regista che, più e meglio di Jane Campion, sappia coniugare nello stesso istante immediatezza espressiva e potenza metaforica. Ogni inquadratura di The Power of the Dog, mentre fa procedere nitido e implacabile il racconto (tratto dal romanzo di Thomas Savage), dà corpo alla psicologia dei personaggi, ai loro segreti.
Come in un trio musicale, i protagonisti sono tre solisti che si confrontano e anzi competono tra loro senza pietà, con una sorta di virtuosismo malvagio. Si tratta di Phil Burbank, sadico ranchero che vive nel ricordo del suo mentore, il cowboy Bronco Henry, ed è pronto a difendere fino alla morte un’esistenza immobile, disertata dall’amore e dal senso; dell’ambigua vedova e neo-cognata Rose, che insediandosi in casa Burbank minaccia questa esistenza e i suoi paradossali “valori”; del figlio di Rose, Peter, ragazzino apparentemente inerme, che per la sua omosessualità pare condannato a soffrire nello sperduto Montana del 1925, più che mai in un ranch.
L’improbabile trio è messo insieme da George Burbank, fratello di Phil, che vive in equilibrio tra ingenuità, stoltezza e inconfessabile consapevolezza delle dinamiche del “nido”. Qui, alla prova del mondo maschile e violento del ranch, i ruoli inaspettatamente si ribaltano, e Peter, anziché soccombere all’aguzzino Phil, ne intuisce il segreto e lo colpisce dove sa di fargli più male.
Sublimare il western
Jane Campion maneggia simbolismi tratti dalla natura e dalla Bibbia, sfodera la sua sapienza visiva (pittorica) e antropologica. Crea una continua pienezza di significato per raccontare un mondo vuoto in cui il male prende il sopravvento ed erompe dove meno te lo aspetti.
Il ranch è il set ideale di questa pienezza frustrata, con l’esibizione della maschilità e dei suoi riti che adombrano il desiderio impossibile e il cuore straziato del protagonista. In questo senso il film è un western quasi più per via di metafora che di fatto.
Il titolo, in chiave con la natura di apologo universale di libro e film, è tratto dal salmo 22 «Deliver my soul from the sword; my darling from the power of the dog»; ed è importante che sia l’amore (darling) a dover essere liberato dal crudele “potere del cane”.
A opprimere Phil è infatti l’assenza de «l’amour» (come dice in francese – incongruamente – quando rievoca per gli stupefatti mandriani le doti di cavallerizzo di Bronco Henry), la pienezza perduta di un eros che sopravvive ormai solo per metafora: negli oggetti (la sella di Bronco, conservata su un altare; il lacerto della sua camicia; la corda ricavata dalle pelli del bestiame, collezionate con spasmodica gelosia), nei gesti (l’intreccio sensuale di quelle pelli; la rabbiosa castrazione a mani nude dei buoi) e negli animali (soprattutto i cavalli).
La maschilità del ranch è dunque per Phil uno spettro, una tortura, assai più che il suo regno. Allo stesso modo – e Jane Campion riesce a comunicare splendidamente questo paradosso – la sua brutalità e il suo sadismo sono espressione della sua intelligenza e della sua sensibilità artistica (esemplari le scene in cui mortifica la cognata suonando la marcia di Radetzky col banjo o fischiettandola persecutoriamente).
Riconoscere il cane
Eppure, il “cane” non è solo Phil (né lo è Bronco Henry, il “lupo” che ha cresciuto i due fratelli così diversi, Romolo e Remo del West). Anzi, la furia con la quale incarna il suo dolore lo predispone al ruolo di vittima, e le ambiguità che gravano sugli altri personaggi sono più cifrate e inquietanti.
Cosa pensare della cognata Rose, che forse accetta la proposta di matrimonio di George non perché conquistata dalla sua gentilezza ma piuttosto per ricavarne la tranquillità economica e la possibilità di mantenere agli studi di medicina il fragile figlio? Cosa si nasconde nella sua mescolanza di amore materno, spirito di sacrificio e modeste velleità artistiche? Perché quando precipita nell’alcolismo si confida col ragazzo e, in una scena da teatro tragico, gli dice che in fondo Phil non è che «un altro uomo»?
Per parte sua, Peter è legato a lei morbosamente, come fa capire all’inizio del film la sua voce fuori campo, che scandisce il proposito di aver voluto sempre «salvare la madre». E quando arriva al ranch per l’estate si prende il centro della scena, così come si prende subito il segreto dell’ombra sulla collina: ossia quel profilo di un cane con la mascella spalancata, come per abbaiare o per azzannare, che Bronco aveva insegnato a riconoscere a Phil, e che Phil credeva di essere l’unico a poter vedere. Ed ecco che il potere del cane passa nelle mani femminee, abili e chirurgiche del giovane Peter.
Il segno della corda
Di qui la storia accelera (al pari della splendida colonna sonora di Jonny Greenwood) e i simbolismi si fanno incalzanti. Anche Phil, come il cane sulla collina, è leggibile ora agli occhi di Peter. In alcune scene sembra eloquente persino la sua di ombra, che con i pantaloni larghissimi sotto i fianchi e il portamento elegante di Benedict Cumberbatch, disegna sulla terra quasi il contrario del cowboy: una specie di abito femminile ottocentesco.
Le corrispondenze tra uomini e animali si fanno più fitte: il cane del ranch gioca con Peter; il coniglio con la zampa ferita a cui Peter spezza il collo non può non far presagire la fine di Phil, a sua volta feritosi alla mano (castrando i buoi).
Rivelandosi, Phil inizia a essere buono: dismette i panni del carnefice e assume – ribaltamento struggente – quelli dell’ingannato. D’altronde Rose non può tollerare che il suo persecutore si atteggi ora a protettore del figlio e, obnubilata dall’alcool e pazza di gelosia, in una scena degna di un episodio mitologico compie un sacrilegio e un oltraggio donando agli indiani le preziose pelli di Phil; ne approfitta Peter, che fingendosi solidale a Phil, gli fornisce in realtà il veleno più letale tramite la pelle che servirà a intrecciare una corda.
Strumento di amore e morte, la corda è un simbolo così forte da essere, in ogni sua accezione, necessario all’intendimento della trama: allusiva quella che si vede riposta nella camera del figlio, nella locanda gestita da Rose all’inizio del film; molto ambigua la corda della presunta impiccagione del padre di Peter (rispetto a lui, evidentemente, vale la definizione di “ altro uomo” data da Rose); patetica e straziante la corda che Phil lascia cadere a terra prima di andare a morire in città, sperando di poterla regalare di persona al ragazzo; terrificante, nella scena finale, la corda maneggiata coi guanti e custodita da Peter sotto il letto, pronta a essere usata un’altra volta.
Il cuore a nudo
Quando tutto è compiuto, Rose riceve dalla suocera i gioielli di famiglia, suo figlio Peter è ormai “padrone” di casa Burbank, e occupa il salotto che prima gli era precluso: dopo aver giocato ancora una volta col cane, si siede e consulta la Bibbia, fino al salmo che dà il titolo al film.
È un equilibrio precario, e la frontiera tra il bene e il male non si lascia definire: non corre sui paesaggi sconfinati ma sugli orizzonti stretti della psiche. In questo risiede la differenza principale rispetto ad altri film degli ultimi anni che accolgono più seriamente l’epica western, come La ballata di Buster Scruggs di Joel e Ethan Coen. Qui l’unico vero cowboy è forse il defunto Bronco Henry, di cui sopravvivono citazioni e vestigia, e sono autentici ma secondari i sensuali mandriani capeggiati da Phil.
Come sempre in Jane Campion, la natura è tutto e niente: è lo sfondo scenico essenziale ma potrebbe persino non esserci, tanto è connaturata al dramma, quasi penetrata nel cuore dei protagonisti (una penetrazione velenosa e letterale, in questo caso…).
La stessa maschilità tossica di Phil non è che un paravento, l’epifenomeno della repressione e della compressione dell’intelletto e del sentimento: qualcosa che può succedere a ognuno di noi, uomo o donna che sia.
Certo, è vero, nella sua opera Jane Campion ha interpretato soprattutto storie femminili. Ma alla luce di questo capolavoro non stupisce che la regista in grado di mettere a nudo il cuore nel modo più scabro e sontuoso che si possa immaginare abbia trovato nel romanzo di Savage, e nel suo titolo biblico, pane per i suoi denti.
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