Si apre il 16 marzo, alla Fondazione Made in Cloister di Napoli, la seconda edizione dell’esposizione InterAction. Trenta artisti di tutto il mondo affrontano il tema del rapporto con coloro che consideriamo estranei. Non solo migranti, ma anche questioni legate al globalismo e alla crisi climatica, fino all’intelligenza artificiale
La difficoltà di affrontare e gestire i fenomeni migratori ha origine nella storica complessità del rapporto con l’estraneo. Il conflitto sorge nel momento in cui ravvisiamo nell’estraneo una figura che esprime valori che possono apparire incompatibili con la nostra visione del mondo.
È evidente che per noi è straniero un californiano quanto un cittadino della Costa d’Avorio, ma è altrettanto evidente che incontriamo maggiori difficoltà a entrare in dialogo con chi ha abitudini culturali più distanti dalle nostre, che proprio per questo avvertiamo come una categoria umana cui non riconosciamo lo stesso status di civiltà.
Questo atteggiamento ha prodotto schiavitù, segregazione razziale, ghetti, muraglie e fossati, e non può che favorire discriminazioni e ingiustizie. Di contro, accogliere il migrante significa vedere nella diversità una ricchezza piuttosto che una minaccia. Aprirsi alle differenze consente di arricchirsi delle esperienze che ciascuno porta con sé. Questo non vale solo nel rapporto con lo straniero.
Il rapporto con l’altro
Il rapporto con l’altro riguarda anche il modo in cui ci relazioniamo al mondo naturale e a quello artificiale. Sentire la natura come altro e pensare di potersi porre al di sopra di essa e dominarla ha spesso conseguenze incontrollabili per il genere umano. La convinzione di poter disporre e piegare la natura alle nostre esigenze, se da un lato porta vantaggi a chi possiede conoscenze e mezzi tecnologici, dall’altro introduce degli elementi di squilibrio che colpiscono il mondo vegetale, quello animale e infine tutti noi. Basti pensare ai disastri derivanti dal cambiamento climatico.
Questi temi – di cui è sintesi la seconda edizione di InterAction Napoli, promossa dalla Fondazione Made in Cloister e curata da me, che viene inaugurata oggi e resterà aperta fino al 21 settembre – sono sentiti dagli artisti, che sovente non mancano di manifestare le loro preoccupazioni con il proprio lavoro. Nella sua installazione aerea US2-Migration, Jung Hyreyun assume il clima metereologico a simbolo del clima sociale, evidenziando come ai disastri climatici corrispondano degli squilibri sociali.
Altrettanti rischi si corrono abusando della tecnologia che simula processi di intelligenza umana. Andres Serrano affronta l’argomento nella sua serie fotografica The Robots (2022), che ha come soggetti dei robot giocattolo. A Napoli, Serrano propone un ingrandimento gigantesco di una di queste immagini, KOYoshiya High-Wheel Robot. In tal modo, il robot giocattolo ci sovrasta come potrebbe fare in futuro una macchina dotata di intelligenza artificiale se acquisisse una piena autonomia e cominciasse ad avere una vita propria. In questa visione distopica, gli esseri umani potrebbero diventare, ci dice Serrano, quello che i nativi americani sono stati per i conquistatori del Nuovo Mondo. L’intelligenza artificiale potrebbe anche essere in grado di elaborare una dottrina che giustifichi la schiavitù, l’annientamento del genere umano e nuove forme di colonialismo.
Ed è proprio il neocolonialismo il tema che affronta Cian Dayrit nei suoi arazzi. Secondo l’artista, il capitalismo e il neocolonialismo hanno distrutto il tessuto sociale del suo paese, le Filippine, spingendo la popolazione a emigrare, affamando i lavoratori interni e divulgando attraverso il sistema scolastico teorie che finiscono per alimentare i pregiudizi razziali. «Questo sistema», scrive in queste stesse pagine l’artista, «è dominato dalla logica del capitalismo monopolistico contemporaneo in cui l’altro è un prodotto (Edward W. Said), lo spazio è astratto (Henri Lefebvre) e la natura è svalutata (Jason W. Moore)». Il tema affrontato da Dayrit è connesso alla mancanza di accesso ai necessari mezzi di sostentamento cui fa riferimento in Dinner Time anche Silvia Giambrone, che incatena delle posate al muro.
Le opere degli oltre trenta artisti in mostra affrontano la questione del rapporto con l’altro e non mancano di mettere in scena vicissitudini personali, come fanno per esempio la curda Zhera Doğan o Troy Makaza, artista che rappresenta quest’anno Zimbabwe alla Biennale di Venezia. Non sono assenti riferimenti alla guerra: il norvegese Morten Viskum partecipa alla mostra con una scultura iperrealista che lo autoritrae sovrapponendo le sue sembianze a quelle di Putin. E non sono assenti riferimenti al razzismo: nel suo Popular Anthropology - The Other’s Gaze Wang Guangyi applica un metodo pseudo-scientifico per evocare, secondo il punto di vista dell’arte, la molteplicità di significati che si generano dal problema della rappresentazione dell’altro.
I nazionalismi
InterAction 2024 affronta il rapporto con l’altro nelle sue diverse sfaccettature. Yue Minjun – presente alla mostra con una installazione inedita espressamente realizzata di venti metri per quattro – fa notare che l’essere esposti alle stesse informazioni, idee, prodotti o cibi provenienti dal contesto internazionale, modifica la percezione che abbiamo dell’altro, in cui riconosciamo, oltre ciò che ci differenzia, anche ciò che ci accomuna.
L’artista cinese affronta la questione delle trasformazioni sociali ricordando che «a nessuna persona può essere attribuita una singola identità, e allo stesso tempo nessun individuo rappresenta esclusivamente un periodo storico; piuttosto, stiamo tutti convergendo verso un comune e indifferenziato universo». Il fenomeno della globalizzazione cui fa riferimento Yue Minjun ha tuttavia tra i suoi risvolti l’insorgere di diverse forme di nazionalismo esasperato che si stanno diffondendo sempre più in tempi recenti.
Proprio perché attenua le diversità culturali, la globalizzazione è avvertita come una minaccia da chi sente che le proprie peculiarità vengono messe in discussione. Alla base dei nuovi rigurgiti nazionalisti c’è proprio il rifiuto della convivenza con il diverso, avvertito come l’altro che, insinuandosi in una comunità a lui estranea, ne inquina e corrompe i valori culturali.
In occidente, poi, la paura di attentati terroristici va a interagire con una presunta cospirazione globale che mirerebbe alla cosiddetta “sostituzione etnica”, la sostituzione dei bianchi con popolazioni di altre etnie. Questa paura del diverso, che in tempi remoti ha portato l’iconografia cristiana a dare al demonio, oltre alle caratteristiche delle divinità pagane, i tratti somatici dell’“uomo nero”, oggi si affida a una propaganda globale che fa leva proprio sui pericoli insiti nei crescenti flussi migratori.
A far da comun denominatore alle storie di schiavitù e di migrazione è la sofferenza di chi sa non essere accettato e rispettato, la diffidenza che si ritrova a subire. È agendo su questa debolezza che nasce lo sfruttamento economico della mano d’opera a basso costo, che per i migranti dei nostri giorni diviene una nuova forma di schiavitù. Lo sfruttamento delle risorse altrui da parte dei paesi ricchi, il cambiamento climatico dovuto alle emissioni di CO2 nei paesi industrializzati, l’instabilità politica generata dagli interessi geopolitici dei paesi dominati si ripercuotono sulle scelte di vita di milioni di persone. I fenomeni migratori contemporanei ci portano oggi a rivedere la storia della schiavitù. C’è dunque un filo rosso che lega le vicende di chi ieri è stato forzatamente portato via dal proprio luogo di origine e di chi invece il proprio luogo di origine è costretto a lasciare nella speranza di avere una vita migliore o semplicemente di poter continuare a vivere.
Le leggi del profitto
I comportamenti umani o disumani hanno molto a che fare con l’economia e le leggi del profitto. Per quanto quel tipo di schiavismo oggi non esista più, la sua storia rimane un tema ancora dibattuto per l’impressionante perdita di vite umane che ha comportato e per le conseguenze che ha avuto sull’assetto sociale ed economico nel mondo. Lo dimostra l’ampio dibattito avviato sulle pagine del New York Times Magazine nel 2019, titolato The 1619 project, coordinato da Nikole Hannah-Jones, che ha poi dato vita a un libro che raccoglie gli interventi pubblicati dal magazine e altri saggi sul tema.
Howard W. French, nel suo L’Africa e la nascita del mondo moderno. Una storia globale, fa notare come i dodici milioni di schiavi deportati dall’Africa e i prodotti del loro lavoro a bassissimo costo abbiano generato profitti straordinari, che sono poi confluiti nel finanziamento della Rivoluzione industriale.
È a questi profitti che si deve la diffusione tanto del modello economico europeo quanto della visione del mondo derivata dall’illuminismo, che per le vicende complesse della storia sta paradossalmente alla base della moderna concezione dei diritti umani.
Siamo tendenzialmente portati a rimuovere le situazioni dolorose che non ci toccano da vicino, questo meccanismo di autoprotezione mentale è in parte alla base dei molti problemi non risolti nel mondo, dal momento che riguardano l’altro e non noi. Cosa può l’arte dinanzi a tutto questo? L’arte sparge sale sulle ferite perché si possa continuare ad avvertire quanto dolore c’è attorno a noi. È in tal senso che una riflessione poetica su un tema esistenziale o drammatico diviene un tentativo di superare una situazione ritenuta inaccettabile.
Pubblichiamo di seguito alcuni testi degli artisti protagonisti di InterAction 2024
In principio furono i robot
Prima del Metaverso ci sono stati i robot. Nella mia serie The Robots, ho affrontato il tema partendo dal nome stesso, che fu coniato nel 1920 da Karel Capek, scrittore ceco, nel suo romanzo RUR (Rossum’s Universal Robots). La parola deriva da “rabota” un termine dell’antico slavo ecclesiastico, che significa «servitù o lavoro forzato».
I robot sono una razza di creature aliene dalle sembianze insieme umane e non umane, nei modi, nella forma e nel colore, e costituiscono l’anello di congiunzione tra infanzia e maturità, tra fantascienza e scienza, tra esistenza e metaesistenza. Sono il futuro e il passato; a metà strada tra il reale e l’irreale, il razionale e l’irrazionale, il buono e il cattivo.
I robot non hanno a che fare con il concetto di razza ma potrebbero, dal momento che sono di tutti i colori: bianchi, neri, rossi, verdi, blu, gialli, etc. L’assimilazione spesso avviene a spese degli altri.
Le evacuazioni avvengono a spese degli altri.
Quando il progresso avanza, c’è sempre un prezzo da pagare.
Il Destino Manifesto, la dottrina secondo la quale gli Stati Uniti, per volontà di Dio, avevano la missione di conquistare il Nuovo Mondo, fu pagata a caro prezzo, con lo sterminio o la deportazione dei nativi che erano gli abitanti originari del continente. Furono questi abitanti, i nativi americani, piuttosto che gli europei bianchi che avevano usurpato le loro terre, a essere considerati l’”altro”, trasformati convenientemente in “estranei” nel loro territorio. La linea di demarcazione tra “loro” e “noi” spesso non è netta. Ed è più facile riconoscere negli altri il “nemico” piuttosto che in noi stessi. È più facile pensare che Dio sia dalla nostra parte piuttosto che dalla parte degli altri.
La selezione naturale spesso è più una questione di chi ha la volontà più forte piuttosto che di cosa sia giusto o corretto. Chi ha determinazione e mezzi conquista il maggior potere.
Per il momento sembra che siamo noi ad avere il controllo. Siamo noi a governare le macchine, non loro a governare noi. Ma grazie alla scienza e al bisogno dell’uomo di spingersi fino al punto di non ritorno, l’intelligenza artificiale attende con ansia il giorno in cui cambierà il corso della storia e assisterà al momento in cui l’essere umano diventerà “l’Altro”.
Andres Serrano
Il lavoro come bene di consumo
Il mio lavoro esplora l’aspetto spaziale dello sfruttamento della forza lavoro dei migranti nel sistema produttivo. Questo sistema è dominato dalla logica del capitalismo monopolistico contemporaneo in cui l’Altro è un prodotto (Edward W. Said), lo spazio è astratto (Henri Lefebvre) e la natura è svalutata (Jason W. Moore).
Tra il cadere e il levitare, l’essere rapiti e il fuggire consapevolmente, i disumanizzati, i profughi e i diseredati vivono in una condizione storica di precarietà. Gli umani e i non umani diventano parte di un’infrastruttura violenta in cui le relazioni sono modellate dall’accumulo infinito di capitale, che Moore definisce in modo appropriato “Capitalocene”.
Il mio lavoro è ispirato da tre aspetti della storia delle Filippine.
Il primo è il concetto di Onda migratoria espresso da Otley Beyer. Una teoria integrata nel sistema didattico delle Filippine, che semplifica eccessivamente relazioni dinamiche tra i diversi gruppi etnico-linguistici presenti nell’Arcipelago, alimentando così pregiudizi razziali collegati alle stratificazioni di classe.
Il secondo è la condizione dei migranti impiegati nelle piantagioni di zucchero, chiamati sakadas (gli importati), da generazioni senza terra, indebitati e perennemente in una condizione di privazione alimentare.
Il terzo è rappresentato dai cosiddetti OFW (Overseas Filipino Workers), i lavoratori filippini d’oltremare, che oggi rappresentano il 10 per cento della popolazione delle Filippine. Questa categoria è stata istituzionalizzata dal Labor Export Policy del regime del dittatore Marcos, che ha incoraggiato i filippini a cercare lavoro all’estero per fare fronte al problema interno della mancanza di occupazione, ma soprattutto per generare un flusso di valuta estera verso le Filippine attraverso l’invio di denaro alle famiglie. Nel 2023 le rimesse degli OFW ammontavano a più di trenta miliardi di dollari e il governo non ha fatto nulla per assicurare un futuro a questa categoria e alle famiglie che sono costrette a lasciare il Paese.
Tutti questi aspetti sono interconnessi. La distruzione del tessuto sociale è necessaria per alimentare la macchina del progetto neocoloniale basato su un’economia dipendente dalle importazioni e orientata all’esportazione (IDEO). Le implicazioni odierne di questi aspetti storici riducono il lavoro umano a un bene di consumo, svalutato all’interno del capitalismo monopolistico.
Cian Dayrit
Noi, curdi, stretti gli uni agli altri
Danze, feste di matrimonio e funerali di popoli oppressi che lottano contro le persecuzioni sono le occasioni preziose che utilizzo per sviluppare la capacità di comprendere.
Il popolo curdo, a cui appartengo, è per me un soggetto essenziale.
Nella nostra cultura i matrimoni e i funerali hanno caratteristiche comuni, si somigliano. Si canta sulla tomba di qualcuno che è morto giovane, si danza con vassoi pieni di henné preparati come si fa per i matrimoni e per le feste. Nel corso delle cerimonie, le canzoni sono cantate in modo gioioso e divertente anche se la maggior parte racconta di morte e di sofferenza. Siamo un popolo che riesce a ballare anche su parole così dolorose.
Sia nelle città che nei paesi di montagna la gente danza a braccetto, tenendosi per mano, muovendo gli stessi passi e tenendo lo stesso ritmo. La danza non è mai una manifestazione del singolo individuo e nemmeno della coppia. Ci prendiamo sottobraccio tutti insieme e danziamo seguendo la stessa direzione. Se qualcuno sbaglia un passo compromette il ritmo di tutto il gruppo che a quel punto rallenta e, insieme all’individuo che ha sbagliato, prova a recuperare l’armonia iniziale.
Nella nostra tradizione queste danze sono espressione della collettività e rappresentano, forse, la migliore descrizione dell’attitudine sociale e della filosofia sviluppata da un popolo che è stato martoriato dalla guerra per anni. Essere soli in questa guerra significa morire. Ed è questo il motivo per cui ci teniamo stretti gli uni agli altri. Viviamo i nostri dolori e le nostre gioie allo stesso modo, abbracciandoci e stando a contatto.
Zehra Doğan
Un comune e indifferenziato universo
Ci troviamo nel mezzo di un processo di globalizzazione sempre più rapido. Tale processo influisce profondamente sull’identità delle persone e sul loro senso di appartenenza nazionale e regionale. L’identità cinese non fa eccezione. L’identità degli individui che vivono in Cina non è più esclusivamente “cinese”, poiché essi sono continuamente esposti a una serie di informazioni, idee, prodotti e cibi che provengono dal panorama internazionale. L’accesso prolungato a questi elementi ha influenzato drasticamente la percezione di altre regioni e culture. Allo stesso modo, la vita delle persone che vivono in Medio Oriente è profondamente influenzata dagli eventi e dai tratti culturali che si sviluppano in altre parti del mondo. Questo fa sì che ognuno di noi, quando guarda all’altro, sia in grado di individuare sia alcuni tratti familiari che alcuni elementi di alterità. Viviamo in un momento di intensa interazione culturale, che contribuisce alla graduale diminuzione della diversità culturale.
Per InterAction Napoli 2024 ho realizzato Cicada in risposta a questo fenomeno. Il titolo si riferisce alla peculiarità dell’insetto di subire diverse metamorfosi durante il suo processo di crescita, che io interpreto come una metafora dell’attuale situazione globale. Per illustrare il processo di fusione delle identità descritto, ho posizionato i volti dei soggetti dell’opera sottosopra. Il dislocamento dei visi degli individui ritratti, insieme al patchwork dei loro vestiti, mira a rappresentare lo stato caotico e disordinato delle identità culturali ibride tipiche dell’età contemporanea. L’opera serve a ricordare che a nessuna persona può essere attribuita una singola identità, e allo stesso tempo nessun individuo rappresenta esclusivamente un periodo storico; piuttosto, stiamo tutti convergendo verso un comune e indifferenziato universo.
Yue Minjun
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