- Forza, mi sono detto, è arrivato il momento di scrivere il romanzo che ho in mente da tempo.
- Sarà un noir, più che altro un poliziesco. Un polar come direbbero i francesi, che fa più chic. Soprattutto lo immaginavo ambientato a Milano, su quello sfondo nero e letterario, certificato da generazioni di illustri giallisti, alcuni dei quali sono stati soprattutto inarrivabili scrittori.
- Il tempo de Le Notti Senza Sonno, Guanda noir, è quello dei primi sette giorni d’incipiente pandemia. Dal 21 al 28 febbraio 2020.
A Milano era arrivato il virus, con il suo arrivo era svanito il senso del tempo. Là sotto era buio, umido, certamente triste. Tre code differenti, tre diverse umanità. La prima era la fila prioritaria, giustamente destinata agli anziani. Governata dal discrimine dell’età, questione di date di nascita, di giorni, di ore. Erano loro, le facce più impaurite. La seconda fila era quella delle prenotazioni con l’App, la linea di resistenza dei digitalisti convinti: sempre piuttosto incazzati, attentissimi a difendere i loro diritti, acquisiti a suon di codici QR. Tutta gente che: «è quasi il nostro turno, tesoro, occhio che non ci sia qualche furbetto che ci prova lo stesso». Arcigni, quasi sempre. Con il cellulare in mano, sempre.
La terza fila
Ovviamente la terza fila era la più sfigata. Quella dei senza diritti, dei sans-papiers dell’epoca green pass, quella della gente normale. Ovviamente la mia. Più che a una linea ordinata somigliava a una scalcagnata Maginot in lento movimento, lunga ed eterogenea, fantozziana. Una trincea multietnica e multilinguistica che si snodava torcendosi per tutto il posteggio, e ben oltre, finendo chissà dove. Una lentezza da rubinetto sgocciolante.
Passetti e chiacchiere filtrate dalle mascherine. Bradisismo umano. Persino tanta solidarietà condivisa: a Milano piuttosto che la noia qualsiasi cosa, anche gocce di bontà. Poi, dopo ore, un numero che appare. «Tocca a lei», aveva soffiato l’araba gentile a cui avevo appena carpito una variante magrebina del cous cous. Allora mi ero avviato verso le porte automatiche tra sguardi invidiosi e stanchi e, una volta entrato nel supermercato, avevo saccheggiato gli scaffali con il trasporto bulimico di un corsaro in pandemia.
Sono uscito di lì con le sporte della spesa in equilibro, per bilanciare bene i passi. Poi mi sono incantato a guardare gli alberi in fiore di un giardinetto pubblico: bianchi e rosa, persino viola. E chi li aveva mai visti quei fiori viola, a Milano? Dopo essermi sfilato la mascherina per respirare il profumo di primavera, ho alzato gli occhi al cielo. Azzurro come non mai, un tetto indaco illimitato che, lontano dalla cattività delle nostre case, esisteva ancora. E poi c’era quell’aria così frizzante! Un’aria talmente netta e pulita che da queste parti non si sentiva dall’epoca della colonna infame. Dai tempi del Carlo Codega, avrebbe detto il mio amato nonno lombardo. Era un venticello fresco che arrivava da lontano, probabilmente piombando giù da qualche altura brianzola, una purezza quasi fastidiosa per le narici assuefatte dei milanesi.
Ossigeno o asfissia
Alla fine era tutta una questione di aria cattiva e di aria buona. Era l’ossigeno o l’asfissia. La vita o la morte. È proprio in quel frangente fuori dal tempo che ho deciso. Forza, mi sono detto, è arrivato il momento di scrivere il romanzo che ho in mente da tempo. Sarà un noir, più che altro un poliziesco. Un polar come direbbero i francesi, che fa più chic. Soprattutto lo immaginavo ambientato a Milano, su quello sfondo nero e letterario, certificato da generazioni di illustri giallisti, alcuni dei quali sono stati soprattutto inarrivabili scrittori. Troppi noir milanesi, troppi commissari e killer, dicono i paladini della letteratura in purezza. Ma chi se ne importa, lo scriverò comunque il mio romanzo. E lo farò attenendomi a un’unica regola: divertirmi sempre, in ogni momento della sua stesura.
E così, armato di volontà e vincolato a quella promessa, ho cominciato. Subito. Sei mesi di scrittura intensa, capitoli infilati dappertutto, in ogni istante e spazio disponibile, in ogni situazione, avversa o favorevole. Io e il mio vecchissimo iPad che è morto nell’impresa. Senza mai smettere, consequenzialmente, riga dopo riga, capitolo dopo capitolo. Divertendomi sempre, come da accordi.
Il tempo de Le Notti Senza Sonno è quello dei primi sette giorni d’incipiente pandemia. Dal 21 al 28 febbraio 2020. Giorni d’affaccio, quando le notizie su quel virus sconosciuto preoccupavano alcuni e facevano ironicamente sorridere altri, la maggioranza. Giorni sospesi, ma non ancora angoscianti. Sono quelli i giorni e le notti che dettano il ritmo del romanzo, scandiscono l’azione, sottraggono ineluttabilmente tempo alle indagini, tolgono il sonno agli investigatori (puranche ai criminali, toh!). Ma la mia pandemia è solo un tirante temporale, non uno scenario apocalittico. L’aspetto catastrofista non mi interessava. Di apocalissi ne stiamo vivendo a sufficienza.
La città zattera
E poi c’è il proscenio urbano di Milano. Metropolitano, cementizio, periferico, moderno, affollato, segreto, scintillante, opaco, notturno, sotterraneo. Un palco immaginifico, soprattutto acquatico. Basta muoversi dal centro verso l’esterno della città, in qualsiasi direzione, e ci si rende conto di essere circondati da fiumi, rogge, fontanili, rivi, conche, cave allagate, marcite. Un’unica superficie liquida sottesa alla città, un lago sotterraneo formato dalla rete capillare dei canali che scorrono sotto le strade e i camminamenti, di cui la Darsena, l’Idroscalo e i sei grandi Navigli cittadini non sono altro che la parte emersa.
Una città zattera in continua espansione su sé stessa che, al contrario della zattera di pietra di Saramago che si stacca dal continente per andare alla deriva, qui è saldamente ben piantata in mezzo al nostro nord, e lì rimane. Fissa, seducente e attrattiva. Più che una città un concetto che s’innerva sotto pelle e induce una dipendenza subdola, quasi inconsapevole. Il visitatore di passaggio ne scorge soltanto i pregi. Le luci, le idee, le prospettive.
Invece chi ci abita, giorno dopo giorno capisce che Milano è soprattutto permalosa e che per sopravviverle deve imparare ad amare anche i suoi difetti, prendere o lasciare. Una città con la natura rigorosa di una banca: scarsa propensione ad accettare ritardi di ogni tipo, memoria lunga e obbligo di remissione dei propri debiti, soprattutto di quelli morali. Nel bene e nel male. È su questo palco che si muovono i personaggi del romanzo, buoni e cattivi. Coinvolti in una narrazione corale in cui, attorno ai principali protagonisti, diversi ma complementari – l’esperto commissario Mario Mandelli e l’irrequieto ispettore Antonio Casalegno, la cui somma duale forma un detective modello – ruotano i componenti della squadra investigativa dell’Unità di analisi del crimine violento della questura.
Un gruppo di lavoro eterogeneo, una sorta di famiglia allargata formata da persone provenienti da tutta Italia, unita nel destino professionale e, in alcuni casi, anche nei sentimenti. Ciascuno con le proprie storie, le proprie fragilità e peculiarità. Una gigantessa romagnola dalla voce melodiosa che da vincente giavellottista si è trasformata in poliziotta. Un hacker costretto a collaborare con la polizia per salvare la faccia e il malloppo. Un’anatomopatologa, professionale e bellissima, la cui unica sfortuna è quella di frequentare Casalegno.
Vittime e criminali
E poi i criminali. I reduci della vecchia guardia milanese, come Lino “il Fetta” Porrati, che deve il soprannome alla sua abilità nello smezzare i bottini. Psicopatici feriti nell’infanzia che restituiscono al mondo il male subito, trafficanti di organi, dottori della mafia, killer russi e serbi, rapinatori senza scrupoli e assassini, traditori avidi e malvagi che tramano nascondendosi sotto maschere borghesi.
E poi le vittime, soprattutto quelle femminili, combattive fino alla fine, sempre dignitose e coerenti. Anche davanti al più tragico dei destini, anche di fronte all’orrore. Le donne del romanzo sono tante. Diverse tra loro, alternative. Alcune stanno dalla parte del male. Ma anche in quel caso lo fanno per scelta, mai per obbligo o imposizione. Piuttosto per ribellione al mondo degli uomini.
Sono le donne a indirizzare gli eventi della narrazione, a sottrarsi alle paure, talvolta sovvertendo esiti che sembrano scontati. Oppure scegliendo di restare al fianco dell’uomo che hanno deciso di amare, nell’unico modo possibile. È questa la scelta che ha fatto Marisa “la Isa” Bonacina, condividere la vita e la missione professionale di Mario Mandelli, senza mai fare passi indietro. Una moglie sempre in credito di cene e di attenzioni, ma sempre saldamente al comando. È lei che guida l’auto e la famiglia, è lei che detta i tempi della loro esistenza. E Mandelli lo sa.
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